Antonio Alleva

Umberto Manopoli su “L’ascesa della luna” di Andrea Fallani (Giuliano Ladolfi Editore, 2016)

9788866442554 0 0 300 75Da: “L’ascesa della luna” di Andrea Fallani (Giuliano Ladolfi Editore, 2016)

Avvisaglie dell’inverno

A MIA MADRE
 

Mamma,
due sillabe per amore,
io non so bene
che parole usare
per dire quello che sento
quando ti guardo vivere.

Mamma,
ti ricordi quando ero bambino?
Tutto era un sogno,
con le tue carezze,
con i tuoi sorrisi,
con le tue parole dolci,
con i tuoi abbracci.
 

Mamma,
quanto i tuoi silenzi
mi spezzano il respiro
e quanto il tuo sorriso
rischiara la mia vita.

Mamma,
tu sei il mio porto sicuro,
il mio rifugio dal dolore:
io so dove versare le mie lacrime,
io so dove sentirmi amato.

Mamma,
le nostre anime sono legate,
io sempre ti sento vicina,
anche se lo schermo della mia età
m’impedisce di abbracciarti
come facevo un tempo.

Mamma,
io so, che quando non ci sarai,
io sarò solo per sempre.
Allora vieni, mamma,
vivi con me ogni istante
che il mondo ci concede,
per stare insieme
in questo universo di solitudine.

ANALISI E INTERPRETAZIONE DI UMBERTO MANOPOLI

1. Madre o Mamma?
La linearità del testo è tanto evidente quanto ingannevole. Cominciando dal brusco passaggio dalla parola Madre del titolo, alla parola “mamma” che ritma il decorso della lirica (dove la parola Madre non compare mai): sei volte in apertura di strofe, una volta, la settima, nella lunga strofe di chiusura; con un’insistenza quasi-provocatoria, o almeno non casuale, essendo – madre e mamma – certo sinonimi (oltretutto bisillabi), ma orientati in senso opposto: cólto e distanziante il primo termine, carnale il secondo; ordinata alla lode, la parola Madre, invocativa e emotiva la parola “mamma”, magari balbettata (mam-ma: «due sillabe per amore», v.2). Ma allora, se l’io poetante esclude la parola Madre dal testo, perché non rinunciare a usarla nel titolo?
La poesia è quasi tutta al presente, ma contiene anche rapide incursioni nel passato e nel futuro. Sono affioramenti casuali o calcolati? E se calcolati, con quale logica? Proprio l’esordio rende particolarmente pertinenti e urgenti questi interrogativi: tutto al presente, non si capisce però quale sia il presente riferito. Parla il bambino di una volta? Ma allora non sa di lezioso e di falso l’impaccio di una dichiarazione d’amore direttamente modellata sull’ignoranza di un tempo, quando il poeta non sapeva «bene / che parole usare» (vv.3-4) per dire alla “mamma” tutto il suo affetto? Oppure parla l’ex infante divenuto adulto che, con iniziativa non meno affettata, chiede alla “mamma” se si ricorda di «quando [era] bambino», sollecitandola a recuperare memorie – ma in genere l’iniziativa è delle “mamme” – non solo da lui perfettamente possedute («Mamma, / ti ricordi…», vv.7-8), ma anche privatissime e segnate da un’aura di sogno («Tutto era un sogno», v.9), il che li rende pressoché impartecipabili da chicchessia?
È probabile che uno sguardo a come è fatto il testo nel suo insieme ci offra risposte che una lettura strettamente sequenziale (strofe dopo strofe) non fornisce.

2. Testo e struttura.

La lirica consta di due parti: strofe 1.a, 2.a, 3.a, la prima; strofe 4.a, 5.a e 6.a., la seconda. Ebbene, prendendo a punto di riferimento la 5.a strofe, dalla temporalità forte e precisa, non sarà difficile sciogliere per deduzione le ambiguità circa il presente della 1.a (come detto: presente simulato, relativo al bambino di una volta, o presente effettivo dell’adulto attuale che però pone alla mamma domande fuori luogo?). Infatti il presente della 5.a strofe riguarda un figlio cresciuto che giudica ormai trascorso il tempo dell’ingenua identificazione, anzitutto fisica, con la “mamma” («lo schermo della mia età / m’impedisce di abbracciarti / come facevo un tempo»). Ormai esclusa ogni idea di medesimezza carnale con lei, la “mamma” di una volta, vive nella gelosa interiorità di un figlio adulto che la sente se non perduta, lontana. Non solo: come non c’è più, oggi, la “mamma” di una volta, così tutto lascia credere che sempre più problematica sarà in futuro la sua presenza attuale (basta spingersi all’inizio della strofe 6.a, v.31, per capirlo: «Mamma, / io so, che quando non ci sarai, / io sarò solo per sempre»). La 5.a strofe rappresenta dunque un’attualità che non esclude affatto passato e futuro, ma che il presente di una coscienza adulta tiene a distanza come possibile nostalgia di un passato che si vorrebbe non fosse passato e smarrimento per un futuro fatto solo di disperante solitudine. Esattamente all’opposto nella 1.a strofe la coscienza adulta, l’attualità, il presente rinunciano a esercitare ogni controllo sia sul passato che sul futuro e anziché focalizzare il rapporto figlio-mamma a partire da ciò che il figlio è ormai diventato, lo ripensano alla luce di quello che la mamma è stata e continua ad essere per il figlio, viva di una vitalità inalterabile e perenne («…ti guardo vivere», v.6): ed è appunto guardandola (continuando ancora oggi a “fare la guardia” – custodendola e proteggendola – a quell’ immagine) che il figlio ricostruisce la propria storia, i cui lontani primordi (passato) sono stati gli amorosi balbettii di cui conserva memoria; primordi, ma anche preludio (futuro) delle più articolate profferte d’amore con cui si propone oggi di lodarla. Resta il fatto che, comunque cambi il punto di vista che regola il rapporto figlio-mamma/mamma-figlio, quel rapporto appare in vario modo ostacolato: nella 5.a strofe perché, dice il figlio, «lo schermo della mia età / m’impedisce di abbracciarti / come facevo un tempo»), nella 1.a perché appare arduo andare oltre il balbettio delle «due sillabe per amore» (v.2) con cui il testo si apre, e trasformarlo nell’ espressione di un sentimento maturo e chiaro a se stesso («io non so bene / che parole usare / per dire quello che sento», vv.3-5). Precisando: nella 5.a strofe la lode della Madre, secondo le dichiarate intenzioni (titolo), è impedita dalla mutevolezza storico-biografica della figura di lei, dal sentirla il figlio sfuggente e in qualche modo estranea, sia al passato che al futuro (tra bruciante nostalgia e paventata solitudine); nella 1.a, all’opposto, è proprio l’eccesso di medesimezza con lei a inibire il figlio: lodarla come Madre non è facile se le parole per farlo restano prigioniere della sensualità originaria e sono incapaci di trasformarsi, da parole-senso, in parole-sentimento. Esse infatti sono dolci (dove l’udito fa tutt’uno con il gusto), visibili e luminose come “sorrisi”, e soprattutto, in apertura e in chiusura, segnate da precise impressioni tattili, le più immediate e carnali: prima come esitanti “carezze”, poi come forti “abbracci”.

3. Un’impostazione “drammatica”.

Ma nonostante certe precise simmetrie, il testo non scade nel meccanico, come dimostrano le corrispondenze, ancora una volta, tra strofe 1.a e strofe 5.a. In apparenza si tratta di sei versi contro sei versi: eppure ciascuna delle due strofe si “allunga” di fatto fino a comprendere i primi tre versi della strofa successiva; per cui la 1.a si conclude in realtà con i primi tre versi della 2.a («Mamma, / ti ricordi quando ero bambino? / Tutto era un sogno…») e la 5.a con i primi tre versi della 6.a («Mamma, / io so, che quando non ci sarai, / io sarò solo per sempre»), che tra l’altro aggancia e rovescia, con il suo «io so», l’«io non so bene» interno alla 1.a. D’altra parte la 5.a strofe, che continua a fare da punto di riferimento per una lettura non troppo evanescente della strofe iniziale (la frase «Tutto era un sogno…» accentua questa suggestione), sconfessa abbracci molto significativi nella prima parte del testo: e diciamo genericamente “prima parte del testo” perché è solo al termine della 2.a strofe che l’atto dell’abbracciare emerge in tutta la sua pregnanza. Infatti i tre versi (della 2.a strofe) che si sente il bisogno di aggiungere ai sei della 1.a, non sono sufficienti da soli a stabilire una corrispondenza immediata con quel gesto dell’“abbracciare” che invece nella 5.a strofe ha subito rilievo e forza: bisogna arrivare al v.13 («con i tuoi abbracci») perché il nesso sia evidente. Il che non contraddice l’asserita simmetria (1.a strofe con pendant di tre versi nella 2.a, 5.a strofe con pendant di tre versi nella 6.a): semplicemente la sviluppa e l’articola secondo linee di tensione che sottolineano la forte drammaticità del discorso lirico, che tende sì a una struttura compatta e funzionale, ma senza rigidezze e automatismi, per cui l’ordine (statico) garantito dall’assetto metrico di fondo non esclude affatto l’inquieto (dinamico) superamento dei limiti autoimposti, ossia una contestuale libertà di movimento (o, secondo etimologia, di “azione” o di “dramma” [greco drân = fare, agire]). Tutto questo ha un riscontro anche oggettivo, se consideriamo ad es. la lunghezza delle varie strofe e in particolare le trasgressioni della 2.a e 6.a: della 2.a, che solo un verso («Tutto era un sogno») “allunga” (sembra indebitamente) rispetto alla 1.a, anche se poi si tratta di un verso in qualche modo “mobile”, importante non tanto ai fini del significato (in questo senso lo si potrebbe ignorare), quanto della gelosa autoreferenzialità del discorso, che si vuole incomunicabile perché “sognato”; della 6.a, perché la sua eccezionale lunghezza (è l’unica di otto versi), è data da un distico («per stare insieme / in questo universo di solitudine») al solito non strettamente indispensabile come contenuto (la prevedibile e paventata «solitudine» del figlio), ma fondamentale in termini di struttura, perché nello «stare insieme» del penultimo verso il movimento drammatico che percorre la lirica, si placa e si esaurisce raggiungendo una indefinita stabilità: come se nello «stare insieme» finale avessero trovato modo di convivere quella Madre e quella “mamma”, quella lode e quella invocazione che prima risultavano in (apparente) conflitto.
Invece sono rigorosamente simmetriche le strofe al centro della lirica, entrambe di uguale numero di versi ed entrambe – le uniche – di cinque versi. Tanto da poter dire che le due parti che formano il testo (strofe 1.a, 2.a, 3.a / 4.a, 5.a, 6.a) sono a specchio (nonostante le infrazioni che lo movimentano o “drammatizzano”), a specchio come in uno specchio a due ante di cui le strofe 3.a e 4.a costituiscono la cerniera e lo snodo: rappresentando il momento in cui il ritmo interno del testo evidenzia e armonizza nel modo più efficace, robustezza e flessibilità, forza di coesione e libertà di movimento. Infatti nella 3.a strofe si chiarisce e si conclude l’aspirazione a un presente (1.a strofe: l’inalterabile attualità della “mamma” guardata vivere) fatto insieme di futuro e di passato: il futuro delle ripromesse parole di lode per la Madre, radicato in un passato-sogno difficile da cancellare. Nella 4.a invece l’appagato presente di un’infanzia (apparentemente) recuperata e inalterabile, incomincia a riprecipitare nelle spire del tempo: nel passato in cui il figlio poteva ancora abbracciare la mamma (ma ora non più), e nel futuro desolante segnato dall’assenza di lei. E la progettata lode della Madre (titolo)? E’ evidente che essa è di là da venire: almeno fin tanto che il figlio non potrà esimersi dal rivolgersi in primo luogo alla “mamma”, invocandola; sia perché (prima parte) è il passato da lei custodito («…ti ricordi quando ero bambino?…») il punto d’origine della sua in-vocazione (vocazione?), sia perché il timore di una sua futura scomparsa (seconda parte) minaccia di deprivare l’in-vocazione (vocazione?) del figlio dei fondamenti di cui ha bisogno.

4. Tra Ispirazione e Bellezza.

Nella 3.a strofe ci colpiscono inaspettati segnali d’ansia: i silenzi che spezzano il respiro (vv.15-16)), subito placati, ai vv.17-18, dal rischiarante sorriso di una “mamma” un attimo prima immotivatamente severa. Per contro, un po’ a sorpresa, la 4.a strofe asserisce, da parte del figlio, un raggiunto stato di sicurezza (il porto sicuro, il rifugio, il sentirsi amato) che però nulla giustifica, continuando a sottendere sofferenze ed ansie irrisolte (il dolore, le lacrime, il sospetto di non sentirsi amato fuori dal cerchio dell’affetto materno). Queste strofe centrali (o cerniera), non sono meno drammatiche delle altre, ma evidenziano una drammaticità in stallo (sono entrambe rigorosamente al presente), perché introflessa e tutta legata alla condizione soggettiva, profonda e stabile, dell’io poetante. La loro drammaticità consiste nel fatto che esse introducono nella continuità discorsiva della lirica un forte elemento di rottura, presentando, sia l’una che l’altra, situazioni variamente immotivate: lo sono (3.a strofe) i perturbanti silenzi della “mamma” e subito dopo, il suo rassicurante sorriso; lo sono – nonostante la stressante altalena tra silenzi e sorriso – le profferte di incondizionata fiducia da parte del figlio (4.a strofe). Ma sono in particolare gli elementi d’ansia presenti nella 3.a strofe a dare sostanza e senso simbolico alla lirica, e a giustificare – con apparente contraddizione – l’atto di completo abbandono della strofe 4.a. Certo, in termini realistici, agli occhi di un infante, i silenzi e i sorrisi di una madre possono apparire indecifrabili. Ma qui l’evidenza, e la consapevolezza adulta, con cui “silenzi” e “sorrisi” sono posti a suggello della prima parte del testo, li carica di significati ulteriori, costringendoci a rileggerli come una sorta di stringata dichiarazione di poetica in cui l’io poetante riassume, fra intermittenze dell’Ispirazione e progettato attingimento della Bellezza, il suo rapporto con quella madre-mamma che è la Poesia. Lo attestano i due passaggi già citati e l’uso di termini non equivoci: i silenzi della mamma spezzano il respiro del figlio, il sorriso di lei ne rischiara la vita. I poeti respirano quando sono ispirati, ma l’ispirazione è un respiro sui generis, inaspettato e indipendente dalla volontà di chi respira; e se si spezza genera ansia perché non lo si può riavviare a comando. Ma la Poesia può anche gratificare chi la ama, appagandolo con l’improvvisa chiarezza del suo sorriso. Su di esso non si può contare in anticipo e in ogni momento; e spesso arriva quando, dopo lungo e disperante travaglio, il testo finalmente splende della “rischiarante” Bellezza della sua perfezione: in certo modo, quasi per miracolo. Insomma: se la “mamma” è l’Ispirazione, la Madre – oggetto di progettata lode – non può che essere il suo sbocco estetico, la Bellezza dell’opera compiuta: una figura (la Bellezza-Madre) che l’Ispirazione persegue e insegue, ma che una volta raggiunta vive in certo modo di vita propria, fuori ormai da ogni rapporto con il figlio-poeta (che infatti non la può più abbraccare una volta assolti i suoi doveri di Ispirazione-mamma).
Si capisce a questo punto perché nonostante il titolo, il testo – con apparente strabismo – non parli di “madri” ma solo di “mamme”. In una lirica a lei dedicata, la Madre, in termini simbolici, non può che rappresentare la meta ultima cui la poesia tende, ossia l’ottenimento di quella Bellezza che solo a opera conclusa potrà ricevere la meritata lode, perché in quella Bellezza il poeta potrà riconoscere tutta la forza di un’Ispirazione andata a buon fine. Di qui il continuo appello a quella Ispirazione-mamma che, al pari di una mamma vera, educa il figlio alla sua verbalità o vocalità di poeta; fatta in origine di parole-senso (sensuali), ma in seguito di parole che la riflessione, crescendo il figlio, trasforma in parole-sentimento, certo dalla presenza della “mamma” condizionate, come imput, ma anche sempre più libere dalla passiva e oscura obbedienza alle sue suggestioni “carnali”: alle quali comunque dovranno continuare a conformarsi per non falsare se stesse. L’impressione perciò che la lirica sbagli obbiettivo e “si dimentichi” della Madre a tutto vantaggio della “mamma”, dipende dalla necessità di tenere distinte Ispirazione e Bellezza, moto iniziale e obbiettivo finale dell’atto poetante, teso (intenzionato) verso la lode di una Madre che non si è certi possa diventare realtà in atto, effettivo sorriso che «rischiara la mia vita» (v.18), ossia – simbolicamente – luce, chiarezza, Bellezza: sbocco ultimo di un’Ispirazione la cui efficacia è tutta da verificare.

5. Un “idillio” quasi leopardiano.

Il leopardismo della lirica è di facile accertamento, soprattutto se la si rilegge in rapporto a quelli che Leopardi definiva idilli (la critica distinguerà in seguito tra “piccoli” idilli, degli anni 1819-21, e “grandi” idilli, del biennio 1828-30). L’idillio è un genere poetico risalente all’antica Grecia che fissa in forma breve e concentrata – “visioni”, “quadretti” (la radice è, in greco, eîdos, “visione” e simili) – immagini di vita pastorale idealizzata, capaci di restituire all’essere umano il senso della propria “naturale” innocenza, e dunque il senso di un vivere rasserenato e fiducioso, lontano dalle ansie e dagli affanni della cosiddetta vita “civile”. Leopardi (che fu eccellente traduttore di “idilli” greci, in particolare di quelli di Mosco, II sec. a.C.) reinterpretò il genere in chiave interiorizzata, facendone l’espressione di «situazioni, affezioni, avventure storiche del [suo] animo» (Disegni letterari, 12, 1828?), cioè il mezzo per tentare il recupero di una verginità di sguardo non troppo lontana dalla ingenua freschezza e meraviglia con cui un tempo, bambino, si era affacciato al mondo. Certo, come insegna Schiller (Sulla poesia ingenua e sentimentale, 1800), il recupero non può che essere parziale: noi “moderni” non siamo più capaci di fare poesia come gli “antichi”, che erano poeti senza saperlo; pesa su di noi la consapevolezza dell’ “arido vero” della realtà e della vita, e la poesia che produciamo non gode più della condizione di assoluta ingenuità tipica della poesia degli “antichi”: la nostra può essere solo una poesia sentimentale, ormai impossibile da liberare dal peso di una coscienza infelice (coscienza: consapevolezza, “sentimento”). Tuttavia essa, pur insidiata dal “vero”, può ritrovare in parte la spontaneità di una volta attraverso quella sorta di ingenuità di ritorno che ogni individuo – “antico” o “moderno” che sia – può riattingere percorrendo a ritroso la propria storia individuale (in questo senso Leopardi parla di «avventure storiche» del suo animo); e recuperando le «situazioni, affezioni» sperimentate nell’età (in certo modo “antica”) dell’infanzia. È questo il leopardismo che anima la lirica A mia madre, tesa a una lode della Madre di non scontata Bellezza (come lode) e per questo fondata su una vocazione alla poesia che solo l’insistita in-vocazione alla “mamma” garantisce fin dall’inizio nella sua autenticità ispirativa. L’amore che lega il poeta all’Ispirazione-mamma, e questa a lui, prende corpo e coscienza di sé come “sentimento” (prima che il vero-ragione diventi dominante, ma oltre la sensualità degli inizi), per mezzo della ricordanza (prima parte del testo: «Mamma, / ti ricordi quando ero bambino? / Tutto era un sogno…»; ed è ovvio associare a questi versi l’incipit di A Silvia: «Silvia, rimembri ancora…»). E se l’intento (esplicito) della lirica è fare della Madre reale il banco di prova di una poesia-Bellezza degna di essere lodata, la poesia-Bellezza cui si tende non potrà che assumere le fattezze (implicite) di quella Madre metaforica (e virtualmente degna di lode) a costruire la quale l’Ispirazione-mamma, ricordando (lei) il poeta-bambino, avrà dato il contributo decisivo della propria forza espressiva. Ovvio che a quella Ispirazione-mamma (ricordante) si torni di continuo, nel tentativo di sottrarsi all’ “arido vero” del fatale declino e tracollo di tutte le cose, ivi compresa la “mamma” reale (seconda parte), ormai fuori da ogni possibilità di abbraccio («lo schermo della mia età / m’impedisce di abbracciarti / come facevo un tempo») e presto sconfitta anche lei (come Silvia) dal tempo che incalza («Mamma, / io so, che quando non ci sarai, / io sarò solo per sempre»).

6. Leopardismo “stilnovistico”?

Tutto fa credere che il leopardismo del testo sia declinato in senso stilnovistico, intendendo per “stilnovismo” la ripresa di una strategia poetante riconducibile allo Stilnovo (o Dolce stil novo) tardo-duecentesco: una corrente di poesia d’amore sviluppatasi tra Bologna e Firenze e rappresentata fondamentalmente da tre autori: Guido Guinizelli (Bologna, c. 1235 – Monselice, Padova, 1276), Guido Cavalcanti (Firenze, c.1250 – 1300), Dante Alighieri (Firenze, 1265 – Ravenna, 1321). Non a caso A mia madre sembra essere una poesia “drammatica”, cioè mossa, dinamica, di prospettiva cangiante. E infatti, intrinsecamente “drammatica”, anzi “drammaturgica” è la poesia stilnovistica, nel senso che i testi che vi appartengono possono essere tutti facilmente raggruppati e distribuiti lungo tre distinte direttrici tematiche: appunto secondo un modello “drammaturgico” che prevede in ogni stilnovista – fatte salve le forti differenze individuali – un medesimo approccio lirico alla tematica amorosa, sempre sviluppata in tre tempi (o, se si preferisce, in tre atti): 1) liriche dedicate all’apparizione di Amore e agli sconvolgimenti psichici da esso prodotti; 2) liriche che parlano dell’apparizione della Donna amata e della sua funzione salvifica (del resto è lei che innamora e solo lei può guarire la malattia d’amore): è la cosiddetta donna-angelo, greco ánghelos, “messaggera” di salvezza; 3) liriche in lode della Donna per il buon esito del suo soccorso. Non è possibile naturalmente esemplificare in questa sede una compiuta “drammaturgia” dello Stilnovo: ci limitiamo a ricordare la prima quartina di tre noti sonetti di Guinizelli, lo stilnovista relativamente più facile dei tre citati: 1), effetti d’Amore: «Lo vostro bel saluto e’l gentil sguardo / che fate quando v’encontro, m’ancide [mi uccide]: / Amor m’assale e già non ha reguardo / s’elli face peccato over merzede [se mi fa soffrire o mi fa grazia]»; 2) apparizione della Donna, messaggera di salvezza: «Vedut’ho la lucente stella diana [la stella Venere o Lucifero], / ch’apare anzi che ‘l giorno renda albore, / ch’a preso forma di figura umana; / sovr’ogn’altra me par che dea [dia] splendore»; 3) lode della Donna: «Io voglio del ver la mia donna laudare / ed asembrarli [e assomigliarle] la rosa e lo giglio: / più che stella dïana splende e pare [appare], / e ciò ch’è lassù [in cielo] bello a lei somiglio». In fondo anche A mia madre, nella sua drammaticità, si sviluppa secondo una “drammaturgia” simil-stilnovistica, cominciando da effetti d’Amore che spossessano totalmente l’io poetante di ogni autonomia (tanto da indurlo a rivolgersi alla “mamma” chiedendole se si ricorda di lui e per lui, al suo posto). D’altra parte chi se non la “mamma”, insistentemente invocata, può essere l’attesa “messaggera di salvezza”? E’ lei che ha acceso in chi parla la prima scintilla d’Amore: a lei il compito di respirare per lui e con lui, ispirandolo, e di rischiarare la sua vita sospesa. Come lodarla? Con la lirica che abbiamo sott’occhio: diretta però a lodare più che la “mamma”, la fantomatica Madre indicata dal titolo, cioè in definitiva la Bellezza degna di lode del componimento che, per bocca del figlio, come “mamma” incessantemente la invoca: perché la sua riuscita non è affatto certa e non è detto che i tanti “mamma” pronunciati possano sboccare nel piccolo monumento (di Bellezza compiuta) che il titolo si ripromette. Lo stilnovismo del testo non è ovviamente gratuito ma serve egregiamente a saldare Ispirazione e Bellezza (trattandosi di eventi non del tutto omogenei e conseguenti: in che modo un’Ispirazione forte e sicura diventa Bellezza?). Ma Dante in proposito fa da garante: e questo dove, nella “Commedia” (Purg. c.XXIV), incontrato il poeta pre-stilnovista Bonagiunta Orbicciani da Lucca (c. 1220 – c. 1290), gli spiega quale sia stata la novità del suo (giovanile) poetare stilnovistico (anzi, è proprio Dante, in questo passo, a coniare l’espressione “dolcestilnovo”): nella rigorosa fedeltà a un’Ispirazione che, animata dall’Amore, subito converte il sentire del poeta nelle parole più acconce (cioè più “belle”) a esprimerlo: «E io a lui: “I’ mi son un che, quando / Amor mi spira, noto, e a quel modo / ch’e’ ditta dentro vo significando”» (vv.52-54). Una fedeltà che è anche garanzia di raggiunta Bellezza, perché le parole ispirate dall’Amore sono per Dante (e in genere per gli “innovatori” stilnovisti) ben altro che pura e semplice sincerità sentimentale, perché l’amore terreno (rivolto a una donna), è iscritto nell’Amore divino, e il sentire in cui si manifesta, e le parole che – quasi sotto “dettatura” – lo traducono in sostanza verbale, sono il riflesso della luce di Dio, fonte-garanzia di tutti i valori (Verità, Bene e anche, appunto, Bellezza: luce). Del resto il filo diretto tra Ispirazione (secondo le parole dantesche) e Bello-luce, è di tutta evidenza anche nelle poche citazioni guinizzelliane riportate sopra. Basta citare questi due versi di lode: «più che stella dïana splende e pare [appare], / e ciò ch’è lassù [in cielo] bello a lei somiglio».