Tre testi di Anne Stevenson – Traduzioni a cura di Carla Buranello

Anna Stevenson Author e1534928884676 1024x1024Anne Stevenson Nata a Cambridge, in Inghilterra, nel 1933, cresciuta in America, nel New England e in Michigan, ha studiato musica, pianoforte e violoncello, poi storia e letteratura europea presso la University of Michigan, dove in seguito ritornò per conseguire una specializzazione in inglese e lavorare al suo primo studio critico su Elizabeth Bishop. Dal 1964 vive stabilmente in Gran Bretagna. Ha risieduto a Cambridge e a Oxford, in Scozia, al confine anglo-gallese e ultimamente nel Galles del Nord e a Durham. Ha ottenuto molte literary fellowships da università britanniche e statunitensi ed è stata la vincitrice inaugurale dell’importante premio letterario inglese The Northern Rock Foundation Writer’s Award, nel 2002. Nel 2007 le sono stati assegnati tre importanti premi negli Stati Uniti: The Lannan Lifetime Achievement Award for Poetry, dalla Lannan Foundation di Santa Fe, il Neglected Masters Award, dalla Poetry Foundation di Chicago e l’Aiken Taylor Award in Modern American Poetry, da The Sewanee Review in Tennessee. Nel 2008, The Library of America ha pubblicato Anne Stevenson: Selected Poems, a cura di Andrew Motion, Poeta Laureato del Regno Unito dal 1999 al 2009, nell’ambito di una serie dedicata alle maggiori figure della letteratura americana. Ha pubblicato oltre venti raccolte di poesia, , e numerosi saggi critici e biografici. Oltre alle numerose raccolte di poesia, una ventina, principalmente con la Oxford University Press e dal 2000 con Bloodaxe Books, Anne Stevenson ha pubblicato nel 1989 una biografia di Sylvia Plath, Bitter Fame, un libro di saggi letterari, Between the Iceberg and the Ship, nel 1998, due studi critici su Elizabeth Bishop, l’ultimo nel 2006, e About Poems (and how poems are not about), nel 2017. Le ultime raccolte pubblicate sono Poems 1955-2005 (2005), Stone Milk (2007), Astonishment (2012), In the Orchard (2016). Nel 2018 è apparsa la prima edizione italiana, con testo a fronte, di una selezione di sue poesie, a cura e traduzione di Carla Buranello, pubblicata dall’editore Interno Poesia con il titolo Le vie delle parole. Links:

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Carla Buranello, nata a Venezia, si è laureata presso l’Università Ca’ Foscari Venezia in Lingue e Letterature Straniere, facoltà di Anglo-Americano. Ha lavorato presso un’azienda commerciale internazionale con ruolo dirigenziale. Di recente ha intrapreso per passione un’attività di traduzione di poesie dall’italiano all’inglese e dall’inglese all’italiano. Ha stretto amicizia con la poetessa anglo-americana Anne Stevenson e ha iniziato a tradurne le poesie. Stevenson ne ha apprezzato il lavoro invitandola ad approntare una raccolta da pubblicare in Italia. La raccolta è stata pubblicata nel 2018 dall’editore IP Interno Poesia con il titolo Le vie delle parole. Ha tradotto anche un libro inglese di racconti ispirati alla scienza, non ancora pubblicato.

Anne Stevenson
Tre testi in traduzione Carla Buranello 

A Dream of Guilt
Remembering my mother

When in that dream you censure me,
I wander through a house of guilt.
It has a door – apology –
and windows – smiles. My selves have built
this huge, half-loved neglected place
out of the lintels of your face.

And still I hurt you. Still I – we –
entangle in obscure regret.
Your kind restraint, like stolen money,
weighs on me. I can’t forget. I can’t forget.
Hushed memories like cobwebs lace
this house too fragile to efface.

Un sogno di colpa

Ricordando mia madre
Quando nel sogno mi rimproveri,
io vago in una casa di colpa.
Ha una porta – le scuse –
e finestre – sorrisi. I miei io l’han costruito
questo luogo vasto, semi-amato, trascurato,
usando i tratti del tuo viso.

E ancora ti ferisco. Ancora io – noi –
c’impigliamo in oscuri rammarichi.
Il tuo riserbo gentile mi opprime,
come denaro rubato. Non posso dimenticare. Non posso.
Memorie sopite come tele di ragno ricamano leggere
questa casa troppo fragile per cadere.

*

Hands

Made up in death as never in life,
mother’s face was a mask
set in museum satin.

But her hands. In her hands,
resting, not crossing, on her Paisley dress
(deep combs of her pores,

her windfall palms, familiar routes
on maps not entirely hers
in those stifling flowers)

lay a great many shards of lost hours
with her growing children. As when
tossing my bike

on the greypainted backyard stairs,
I pitched myself up, through the screened door,
arguing with my sister. “Me, marry?

Never! Unless I can marry a genius.”
I was in love with Mr. Wullover,
a pianist.

Mother’s hands moved staccato on a fat ham
she was pricking with cloves.
“You’ll be lucky, I’d say, to marry a kind man.”

I was aghast.
If you couldn’t be a genius, at least
you could marry one. How else would you last?

My sister was conspiring to marry her violin teacher.
Why shouldn’t I marry a piano
in Mr. Wullover?

As it turned out, Mr. Wullover died
ten years before my mother.
Suicide on the eve of his wedding, O, to another.

No one said much about why at home. At school
Jennie told me in her Frankenstein whisper,
“He was gay!”

Gay? And wasn’t it a good loving thing
to be gay? As good as to be kind,
I thought then.

And said as much to my silent mother
as she wrung out a cloth until her knuckles shone,
white bone under raw thin skin.

Mani

Truccato in morte come mai lo fu in vita,
il volto della mamma era una maschera
incastonata in seta da museo.

Ma le mani. Nelle sue mani,
abbandonate, non incrociate, sull’abito damascato
(i favi profondi dei pori,

i palmi vizzi, percorsi familiari
su mappe non del tutto sue
tra quei fiori soffocanti)

giaceva un cumulo di cocci di ore perdute
con bambini che crescevano. Come la volta in cui
scagliai la bici

sulle scale tinte di grigio del cortile,
e mi slanciai per la porta posteriore,
gridando a mia sorella. “Sposarmi, io?

Mai! A meno che non possa sposare un genio”.
Ero innamorata del signor Wullover,
un pianista.

Le mani della mamma fecero uno staccato su un grasso prosciutto
che stava lardellando con spezie.
“Considerati fortunata, credimi, se sposerai un uomo gentile”

Ero esterrefatta.
Se non puoi essere un genio, almeno
puoi sposarne uno. Come altro sopravvivere?

Mia sorella tramava per sposare il suo insegnante di violino.
Perché mai io non avrei potuto sposare un pianoforte
nella persona del signor Wullover?

Poi accadde che il signor Wullover morì
dieci anni prima della mamma.
Si suicidò alla vigilia del suo matrimonio, O, con un’altra.

A casa nessuno disse molto sul perché. A scuola
Jennie mi sussurrò con ghigno da Frankenstein,
“Era gay!”

Gay? Gaio? Non era forse una cosa buona
e amabile? Buona quanto essere gentile,
pensai.

E lo dissi alla mamma che zitta
strizzava uno straccio fino ad avere lustre le nocche,
ossa bianche sotto una pelle screpolata e sottile.

*

The Day

The day after I die will be lively with traffic. Business
will doubtless be up and doing, fuelled by creative percentages;
the young with their backpacks will be creeping snail-like to school,
closed in communication with their phones; a birth could happen
in an ambulance, a housewife might freak out and take a train to nowhere,
but news on The News with irrepressible importance will still sweep
everybody into it ¬like tributaries in a continental river system,
irreversible, overwhelming and so virtually taken for granted
that my absence won’t matter a bit and will never be noticed.

Unless, of course, enough evidence were preserved to record
the memorable day of my death as the same day all traffic ceased
in the pitiful rubble of Albert Street, to be excavated safely, much later,
by learned aboriginals, who, finding a file of my illegible markings
(together with the skeleton of a sacred cat), reconstructed my story
as a myth of virtual immortality, along with a tourist view of a typical
street in the late years of the old technological West – a period
they were just learning to distinguish from the time of the Roman wall,
built of stone (so it seemed) long before anything was built of electricity.

Il giorno

Il giorno dopo la mia morte il traffico sarà vivace. Di certo gli affari
andranno a gonfie vele, sospinti da percentuali creative;
zaino in spalla, come lumache i ragazzi strisceranno verso scuola,
chiusi in comunicazione con i loro telefoni; su un’ambulanza qualcuno potrebbe nascere
e una casalinga dar di matto e prendere un treno diretto in nessun luogo,
ma le notizie su The News continueranno a trascinare tutti
con la loro importanza irresistibile – come immissari di un sistema fluviale continentale,
irreversibili, travolgenti e così virtualmente e ciecamente accolte
che la mia assenza conterà meno di un bit, seppure sarà mai notata.

A meno che, certo, non rimanessero tracce sufficienti a identificare
il giorno memorabile della mia dipartita come quello in cui il traffico si fermò
tra le macerie miserevoli di Albert Street, molto tempo dopo, e in tutta sicurezza,
riportate alla luce da colti aborigeni i quali, ritrovato un file di miei illeggibili segni
(accanto allo scheletro di una gatta sacra), ricostruissero la mia storia
come un mito di immortalità virtuale, accanto all’istantanea di una tipica
strada della tarda era tecnologica occidentale – un periodo
che staranno appena imparando a distinguere dall’epoca del Vallo di Adriano,
fatto con pietre (a quel che sembrerà) molto tempo prima che tutto venisse fatto con l’elettricità.


Fotografia di proprietà dell’autore.