TRAMONTI DI CARTONE – Marcello Affuso, Valentina Bonavolontà, Giulia Verruti – GM press 2020

copertina jpgTramonti di cartone, M. Affuso – V. Bonavolontà – G. Verruti, Gm press 2020
Disegni di Federica Prisco, Foto di Erica Bardi, Introduzione di Sabrina Goglia.

Dare voce alle emozioni significa dar loro corpo, vita, unire la mente che pensa a quella che sente. Ma quando l’emozione implode, le parole sono fame. Di vita. Di battito. Di cuore che pulsa.
E sono urla. Di carne. Di affetto. Di viscere.
Abissi dai quali è innaturale risorgere. Eppure la parola è lì e ci traghetta verso la luce. Nel suo modo penetrante, eredità di un flusso del sentire dirompente nella sua incontenibilità, che è quasi una stilettata, esprime il bisogno di svelare,di dissacrare ciò che di più inconfessato custodiamo nell’intimo.
Siamo soli di fronte ai sentimenti, irreversibilmente soli. Di quella solitudine che lacera l’animo, “assiomi di un tempo che non esiste”, disarmati di fronte all’abbandono, al silenzio, all’assenza, alla non-essenza.
“Ogni giorno un buco nero inghiotte un chicco infinitesimale di universo; quel grande lavandino, privato del suo tappo, assorbe tutto e lo conduce verso l’ignoto”.
Tramonti di cartone è un viaggio. Verso l’ignoto. Di quelli che fanno male, perché ti impongono di affacciarti sull’uscio dell’anima, vivendo le emozioni di chi quel viaggio ha deciso di intraprenderlo. Senza alibi. Un viaggio che è confessione, catarsi.
Lavoro collettivo in cui gli autori, l’illustratrice e la fotografa, a nudo, scelgono di abbandonare la zona di comfort che permette di celare se stessi nel chiaroscuro delle proprie fragilità, “come se la vera essenza di sé fosse qualcosa di cui vergognarsi” per mostrarsi, con fatica e timore, “sine cera”. Attraverso questa autenticità liberatoria, essi esplodono di forza, togliendo il velo alle illusioni, alle paure, alla potenza della loro umanità.
La resa, nelle poesie, trascina l’Io poetico componimento dopo componimento ed afferma la sua autorità, da primadonna, con quell’iniziale, impersonale, definitivo “Io non so pregare” del poeta che, “celando gli alibi”, si prepara “a saltare nel vuoto”. L’appello è inevitabile ed il bisogno di Lei esplode in tutto il suo vigore.
La dimensione “donna” entra allora in scena, contendendo l’essere dolente ed ardente del poeta con la cherofobia che lo assale e lo obbliga a “sabotarsi, tornando vittima dei suoi stessi, fragili, paradossi”.
L’anelito alla vita si palesa, allora, in un alternarsi di smarrimenti ed invocazioni, in una grammatica emotiva che chiede solo salvezza e rinascita “di una vita che ha in te l’unica, imprescindibile allitterazione”.
La “sua guerra” irretisce l’Io dilaniato, che subisce l’addio e lo invoca, spaventato dalla paura dell’abbandono che lo devasta e lo blocca dal “sentire” fino in fondo. A fiato corto, egli “corre nella sua esistenza incapace di amare” ma chiede a gran voce un appiglio, una guarigione, perché, lontano dal respiro dell’amata, viene meno per lui anche solo l’illusione di esistenza ed egli si ritrova ancora invisibile e trasparente, tremante. Si ignora, si cancella, si punisce ma per un secondo “si scusa”. Si ama? Non ancora. Si rivela! A se stesso innanzitutto. E questo è il suo primo passo. La mente erra, peregrina e confusa, tra ricordi, speranze, ferite; il cuore pulsa.
All’amata affida la sua rosa e le sue cicatrici, mettendo da parte il manichino che indossa, in un’inedita ammissione dell’inutilità del suo continuo morire.
“Grazie a te, perfino io rimando a domani la morte” afferma timidamente. Ed il “perfino” crea la spaccatura tra il prima e il dopo, tra quello che è senza di lei e quello che potrebbe essere circondato da un’aria che solo con i baci dell’amata “non toglie il respiro”. Affamato d’amore com’è, immergersi “in lei” diventa per lui perfezione sfiorata, croce e delizia di un anelito di vita, crocevia da cui dipende la sua intera esistenza “ed è… azzurro”.
Non più peregrinazione, bulimia emozionale ma riflessione, urlo straziante, rievocazione diventa.
Tramonti di cartone nella prosa. Parole che graffiano. Incantano nella narrazione di legami in germe, in divenire e in declino, strozzano nella presa di coscienza del reale, fanno male nell’accarezzare il dolore in tutte le sue forme, più dure di uno schiaffo, più crude della morte.
Qui, l’azione prende il posto dell’invocazione, guadagna presto terreno sulla caducità delle situazioni, sull’oggettività che mette ordine nel caos della vita, sul tempismo imperfetto e sull’impossibilità di sincronizzarsi con l’Altro.
E giunge il momento di osare, di sfidare l’ignoto, perché “Non mi fa paura stare nell’ombra, la luce è qualcosa che non si vede”.
Tramonti di cartone ci fa riflettere sul fascino del deviante, accattivante ma sconosciuto se non ci si lascia tentare dal sorprendente. Dall’ignoto. E su quello che accade quando i pezzi si rompono e l’amore finisce perché da “Infinito a sfinito è un passo”. Sulla vicinanza che nasce da un inatteso incontro, che permette a due sconosciuto di vedersi per la prima volta. O sullo smarrire se stessi per poi ritrovarsi, diversi, più veri. Sul “tarlo del non detto”. Sul coraggio di “rimanere qui, nel piccolo posto di combattimento che mi è stato assegnato”. Sul pericolo nascosto dietro al rischio di vivere. Sulla vita.
Che ne sappiamo noi della vita? Viviamo? Realmente? Sopravviviamo?
Sul dolore in tutte le sue forme e sul confronto con la morte, che ha come unica soluzione l’abitudine, devastante, o l’impudenza, che ti afferra quando, aperta la finestra, scopri il mare e senti che “Dio esiste”. In realtà “siamo”!
Un caleidoscopio di emozioni sembrano incalzare il lettore che, pagina dopo pagina, scopre mondi nuovi, dimensioni inattese, esistenze nutrite da percezioni sottili, situazioni capovolte. Impara un po’ più a vivere, riscopre un po’ più la bellezza, conversa con più sincerità con se stesso.

“La gioia non riesce a spiegare mai le sue ragioni”.
Straripante. 

Sabrina Goglia

*

Allitterazione

La prima volta
Fu nella libreria della stazione
Sfogliavi un libro su Caravaggio
E io immobile
Ti scrutavo da lontano
C’era il solito rumore intorno
Il via vai di bagagli
Annunci di treno
Intrecci di lingue
Che spiegavano
Chiedevano
Cercavano
E io
Incantato
Guardavo
Guardavo
Le tue piccole mani
Voltare pagina
Le tue spalle curve
Rassicurate da un cappottino beige
Il fiocco bianco
Annodato allo zainetto
Che scendeva morbido
Sul capolavoro del tuo corpo
Illuminato
Come Ungaretti dalla mattina
Io
Venivo immediatamente trascinato
Dalla furia di quell’emozione
Da quel magnifico
Conato di vita
Non ti eri neanche girata
Non ancora
E io avrei già voluto esistere
Avere forma atomica
Soltanto per respirarti
Da più vicino
Da più
Vicino
Assaggiare di quella sconosciuta
Le labbra
Che schiudevi di rado
Soppesando
Sorrisi e parole
Avere alito di vita
Per accarezzarti la pelle
Con la curiosità di un neonato
Che osserva incantato
Un cielo di stelle di plastica
E soffocare
Infine
Tra le tue gambe
Alle quali
Rimarrei avvinghiato per sempre

La prima volta
Fu nella libreria della stazione
Quel giorno di luglio
Tra le scie delle valigie
I venditori ambulanti
E i vagoni di nuovo in ritardo
Nascevo
Nasceva una vita
La mia
Che ha in te l’unica
Imprescindibile allitterazione
Fragore tra i denti
Battito d’ali
Nello scheletro
Sfrigolio d’acqua e carbonio
Di un corpo affamato
Di un’aria che
Solo con i tuoi baci
Non toglie il respiro

*

Albeggiare

Tu mi hai chiesto del tempo, io ti ho dato spazio. Quando io ti ho chiesto spazio tu mi hai dato del tempo, indeterminato.
Il legame si è spezzato a causa del nostro tempismo imperfetto, in una serata di fine estate.
L’amore è un investimento tridimensionale di durata, estensione, profondità. Provare sulla pelle il senso di libertà pur essendo legati  un pensiero costante, dimenticare di guardare l’orologio per ore, lasciar fuori ciò che è estraneo al binomio per rifugiarsi nella tana diun’interiorità condivisa. Le esperienze vissute sono aperte ad una serie infinita di combinazioni possibili: tante sono le occasioni, le attese, gli incontri inaspettati, i ricordi sopiti e poi riportati alla luce, gli imprevisti, le sorprese. Perché chiudere il cerchio quando si può lasciare aperto uno spiraglio di possibilità, estremamente affascinanti nel loro essere potenziali? Ci sono incontri per strada che non avverranno mai, mani sfiorate tra i corridoi e mai strette, sguardi incrociati sulle scale che non si rivedranno, ma tra l’affastellarsi distratto di sensi fugaci c’è la combinazione compatibile, quella destinata a durare nel tempo, ad estendersi nello spazio, a mettere radici.
È strano come sia proprio nei momenti di inerzia che si attiva l’immaginario, quasi come a voler bilanciare la staticità degli eventi con la vivace confusione della mente. Una fallace geometria di figure che non sempre combaciano ma la cui bellezza consiste proprio nel loro essere fragili e incomplete, nel respirare seguendo un ritmo restio a qualsiasi forma di sincronizzazione. Non conosco molto di te, ti ho incontrato per caso, ad una festa d’inizio estate e ora voglio toccarti, vederti, voglio tempo e spazio, mettere radici, pensare ad un futuro con te. E allora per una volta abbandono la pretesa di fare sempre la cosa giusta, di piacere a tutti, e lascio andare, alleggerita del passato, di rimpianti, di persone ferme alla superficie che hanno incrociato distrattamente il mio percorso, senza mai camminare al mio fianco.
E ti dico “Ciao straniero, ti stavo aspettando”.

Giulia Verru