Toccare la Poesia del nuovo millennio, di Massimo Silvotti

Il Piccolo Museo della Poesia le Incolmabili fenditure
Toccare la Poesia del nuovo millennio

di Massimo Silvotti

Era il 17 maggio 2014 quando, a Piacenza, fu inaugurato il Piccolo Museo della Poesia le Incolmabili fenditure. Non saprei dire esattamente come quest’idea prese forma, ancora oggi non ne ho piena cognizione; non vi fu scelta nel senso comunemente inteso, direi piuttosto impellente necessità. Da lì si è progressivamente palesata l’intuizione, o forse l’ossimoro, di un Museo della Poesia.
Ma come, mettere la Poesia in vetrina? Chiunque si fosse espresso così, e ce ne furono alcuni, avrebbe solo dimostrato assennatezza. E altrimenti come spiegare in altro modo la nostra unicità a livello europeo e forse addirittura mondiale? Non vi è nulla di prettamente raziocinante e ancor meno di statico in poesia, piuttosto di umile, faticoso, doloroso, a volte urticante, ma anche di civile, coraggioso e persino di fisico. Così sarebbe stato anche per un museo che ambisse addirittura a rendere plausibile un contatto diretto tra fruitore e poesia.
Credo, lo dico con assoluta umiltà, ci fosse una ferace zolla di follia in questo nostro, allora, bozzetto. Guido Oldani (presidente del Comitato scientifico) fu il primo ad averne accortezza, ma poi, nel corso di questi pochi anni sono arrivati in tanti (a volte autentiche ondate poetiche), a sostenerci e a stimolarci idealmente e fattivamente; ne cito solo due a testimonianza della fiducia autorevole e lungimirante che ci ha fin qui accompagnato, mi riferisco a Giampiero Neri e Tiziano Rossi. Così una parte molto consistente di un mondo abitualmente lento, autoreferenziale, e spesso ricalcitrante a far proprie le innovazioni, ha raccolto con entusiasmo questa sfida di un museo della poesia, per la poesia, con la poesia, intriso di poesia: una realtà museale la quale, pur rimanendo anche ancorata al concetto di luogo dove vengono raccolte ed esposte al pubblico collezioni di…, facesse della dinamicità la propria cifra caratteristica, al punto tale che uno spazio pur permeato di storia diventasse al contempo il posto dell’ideazione, della creatività, della performance artistico poetica, persino a volte esplosiva, configurando non di rado degli autentici mosaici poetici collettivi, a tratti selvatici ma sempre autentici per vitalità.
La collezione volutamente incentrata sul Novecento italiano e sul capitolo che va a principiare dopo il Duemila va intesa come una bussola tesa a testimoniare di una avvenuta cesura qualitativa tra ventesimo e ventunesimo secolo. Un museo dunque, il quale avocasse a sé l’aspettazione di avanguardia poetica del terzo millennio, coniugando e confrontando tradizione e contemporaneità, tra euritmia e sovvertimento.
Questi in estrema sintesi gli intendimenti che tuttavia per corrispondere a siffatte aspettative, necessitavano di sufficienti fondamenti teorici che tenterò di sviscerare, a partire dai concetti cardine di poesia, di arte e di museo stesso. Dal luogo di origine faticosamente esula ciò che abita vicino all’origine (Friedrich Holderlin); la poesia non è una meta, ma piuttosto l’inveramento, l’atto finale, di un proposito di ricongiungimento: da una parte il sentire pregno del poeta, dall’altra una pagina vuota, silente, e parole quiescenti. La poesia dunque come congiunzione imperfetta e disvelante di un incontro. poeta è colui che svolge la propria personale esistenza al servizio di questa sua gravosa impellenza, la quale investe di responsabilità ogni essere umano che ambisca a definirsi tale.
Ungaretti asseriva: “La parola è impotente… si avvicina, si avvicina, ma non può”. Ricordo quel misto di ghigno e sorriso che attraversava il suo volto. La poesia è mistero, porta con sé un segreto… È come se prendesse forma una distanza del pregnante fallimento (anziché un luogo), dove la poesia si genera tanto maggiore sarà il grado di consapevolezza del poeta circa i propri limiti intrinsechi. Si pensi alla “siepe” de L’infinito, lo sguardo che, dovendo assoggettarsi al proprio non vedere, in realtà potenzia la propria visione. L’essere umano, nella sua accezione più nobile e dignitosa, corrisponde esattamente in questa tensione consapevole verso una conoscenza che non ci è data, ma a cui non per questo rinunciamo.
Mario Luzi, a proposito di Rimbaud, parlò di diaframma quasi colmato tra la parola e la cosa, e sta precisamente in quel “quasi” tutta la potenzialità della poesia nei confronti del grande mistero che avvolge la vita e la realtà. Insomma il foglio bianco, che per il tramite del poeta si fa poesia, parrebbe diventare la vivificazione di un non luogo, di una distanza che ha percepito e assunto su di sé la volontà di un incontro.
Ma in fondo tutta l’arte si gioca sul concetto di non luogo, la pittura, la scultura … Piero della Francesca, con la scoperta della prospettiva, volle spronarci a indagare la tela, laddove essa non può arrivare. Cezanne, con le sue forme arrotondate e centripete, la montagna, la casa, il tavolo, la frutta, volle mostrarci il non visibile dell’arte, ovvero la sua vera missione. E poi Lucio Fontana il quale indagò lo spazio alla ricerca di nuovi ordini, disposizioni, orizzonti.
Parrebbero paradossi, invece sono soltanto esempi di inusitato valore, in grado di farci comprendere la vera missione dell’arte e della poesia. E d’altronde la seduzione della poesia gioca proprio la sua irresistibile fascinazione alimentando un anelito che, per sua stessa natura, non potrà mai raggiungere una stabilizzazione: “Vedi in quei silenzi, in cui le cose / s’abbandonano e sembrano vicine / a tradire il loro ultimo segreto, / talora ci si aspetta / di scoprire uno sbaglio di Natura / il punto morto del mondo, l’anello che non tiene, / il filo da disbrogliare che finalmente ci metta / nel mezzo di una verità / […] / Ma l’illusione manca e ci riporta il tempo” (Eugenio Montale).
Ecco che si ritorna al punto di partenza di questa eterna dialettica di vani inseguimenti che il fare artistico reitera nel tempo, nell’ambito poetico, come una porta scorrevole che il poeta ambisce a tenere aperta attraverso la sua parola grimaldello.
Ma tornando un istante al mondo dell’arte, due altri esempi di eccelsi artisti possono aiutarci a comprendere questo concetto di non spazio in cui tutto l’ambito artistico (e quindi anche la poesia) si determinerebbe in relazione al mondo. Ci riferiamo in questo caso a Michelangelo Buonarroti e a Michelangelo Merisi: il primo seppe stabilizzare la permanenza del non luogo, attraverso lo stratagemma del non finito; basterebbe attraversare la Galleria dell’Accademia per rendersi conto plasticamente che i suoi Prigioni si alimentano di questa tensione dirompente mai agíta, ma costantemente in procinto di farlo. Michelangelo, con questo coup de théâtre, è riuscito in un’impresa inconcepibile, collocare queste sue colossali sculture esattamente sulla soglia che separa la realtà dalla finzione; un non luogo appunto dove la distanza collima. Quanto a Caravaggio, a mio avviso considerato erroneamente il maestro della luce, fu in realtà lo scopritore della rifrangenza dell’ombra. E infatti dando forma alle tenebre ingiunse alla luce una strettoia non declinabile (un’infida via fra gli strappi inconoscibili dell’ombra, Roberto Longhi), garantendo così la stabilizzazione di un contatto.
Non è un caso se in questo nostro argomentare insistiamo nel riferirci all’arte visiva per provare a spiegare il senso di un azzardo, con il museo della poesia. E d’altronde il nostro stesso immaginario collettivo, circa l’idea di museo, ci conduce alla pittura e alla scultura. Allora aggiungiamo un tassello fondamentale al nostro ragionamento, l’arte che è una forma di comunicazione (e in questo senso assolve a un compito sociale, il quale a sua volta s’inquadra in una cornice più ampia che indaga la vita in tutte le sue dimensioni ardenti, in una ricerca di senso – Davide Rondoni), è anche indubitabilmente la risultante di una triade: artista, opera e fruitore. Giampiero Neri, col suo colloquiare verticale un giorno mi disse: “È giusto e doveroso pubblicare, perché i Poeti non scrivono per se stessi”.
È proprio così, arte o poesia che parlassero a se stesse, semplicemente non sarebbero tali. E aggiungo anzi, che l’interlocuzione tra fruitore e opera d’arte è in grado di accrescere le potenzialità qualitative di quest’ultima, nel senso che esse si moltiplicano per il tramite dei vissuti di ciascuna persona che entri in connessione con essa.
È incontrovertibile che di fronte a un’opera d’arte i sentimenti e le emozioni differiscano da persona a persona. Ciò accade perché quella singola opera, se effettivamente percepita come un manufatto artistico, entra inesorabilmente in una qualche forma di relazione con la sfera più arcana di ciascuna persona che ne abbia contatto: una dialettica che mette in relazione l’anima dell’artista, con l’anima dell’osservatore. L’opera d’arte, dunque, è in questo caso tramite tra due specifiche soggettività che generano ogni volta emotività e pensieri differenti, due anime, una presente attraverso la propria opera, l’altra attraverso il proprio coinvolgimento.
Da tutto ciò credo si evinca che la contemplazione dell’arte non solo aggiunga qualcosa di inedito all’esperienza del singolo fruitore, ma anche il contrario, ovvero che l’opera risulti accresciuta nella sua funzione dall’apporto di chi la osserva. Questo di un presunto ruolo attivo di ciascun beneficiario di opere d’arte è argomento della massima importanza per quanto ulteriormente intendo argomentare. Porre in vetrina un libro di poesia autografato da un grande poeta, oppure una rivista letteraria pressoché introvabile, e ancora leggere un carteggio che ci riveli qualcosa in più della personalità di un poeta più o meno noto; ma anche poter leggere un inedito di un poeta contemporaneo, incontrare e confrontarsi con lo stesso, sentire dalla sua voce cosa egli intenda per Poesia, o cosa egli chieda alla poesia, ebbene tutto questo produce una relazione biunivoca che accentua, arricchisce e forse tende a completare la funzione poetica e il valore stesso della poesia.
Certo si potrebbe obiettare che, se ciò fosse vero, anche semplicemente leggere un libro comodamente seduti sulla propria poltrona di casa avrebbe un qualche valore accrescitivo per l’opera stessa e questo, anche per quanto affermato sin qui, nessuno infatti intende metterlo in discussione. Ma qui intendo enfatizzare al massimo grado questa triade dialettica (tra il poeta, la sua poesia e colui che se ne avvale), vero fulcro di ogni attività artistica che altrimenti null’altro sarebbe se non mero esercizio narcisistico. Marcel Duchamp, come noto, ritenne che un qualsivoglia oggetto potesse definirsi arte a condizione che una Istituzione, ad esempio un museo, lo definisse tale; si tratta palesemente di un’eccessiva ed estrema, stramberia speculativa, dalla quale possiamo tuttavia estrapolare ciò che maggiormente sorregge la provocazione teorica di un museo della poesia.
Porre la poesia in vetrina, la Poesia dei grandi Maestri, l’estratto precipuo e necessario della loro opera, attiva nell’osservatore appassionato il massimo grado di predisposizione al recepimento proattivo, all’accrescimento valoriale, che ho detto essere tra le ragioni preminenti del “fare poetico”.
Ho anche affermato che il Poeta cerca costantemente di colmare, attraverso la sua parola poetica, uno spazio che lui stesso definisce incolmabile tra la parola e la cosa. Ecco, proviamo a immaginare che quella fenditura incolmabile, quel non-spazio dell’arte, possa essere prefigurato esattamente tra la Poesia collocata in vetrina (e simbolicamente il suo poeta creatore) e il suo fruitore che dialoga con essa incrementandone l’incidenza artistica. Il museo della poesia è dunque un’azione poetica a tutto tondo, che peraltro gioca se stesso e la propria potenzialità sia all’interno sia all’esterno delle proprie mura, almeno nel momento in cui esso stesso agisce come un’opera d’arte attraverso una grande performance collettiva di Poesia.

Di quest’ultima contingenza il Piccolo Museo della Poesia ha già dato prova più volte con le tre edizioni della maratona poetica la Piuma sul baratro, dove all’incirca centocinquanta poeti, specchiandosi l’uno nell’altro, hanno dato vita oltre alle loro singole opere poetiche, anche a un’ulteriore Grande Poesia che è sembrata, per una volta, colmare il proprio limite con la stessa naturalezza di un capriolo che pare adempiere a tutta la sua missione, quando fugge via leggero sulle messi in germoglio (Johann Wolfgang Goethe).

Massimo Silvotti (Bruxelles, 1963) è poeta, artista e saggista; delle sue numerose attività si sono occupate televisioni e testate giornalistiche nazionali e internazionali, tra le quali «RAI Cultura», «Tele Capodistria», «Avvenire», «Il Giorno», «Il Sole 24 Ore», «Il Venerdì di Repubblica», «Il Tirreno», «Il Corriere Adriatico», i blog di poesia della RAI e del Corriere della Sera, La Repubblica.it e Il Messaggero.it. In qualità di scrittore ha esordito con il saggio romanzo La mezza luna – viaggio nei conflitti dell’uomo (Vicolo del Pavone, 2001). Del 2012 è Liberi intrecci, codici dell’anima nel linguaggio poetico (Casa Editrice Vicolo del Pavone). Del 2013 è il saggio critico La poesia del Realismo terminale («Rivista Quaderni di Arenaria», vol. III). Del 2015 è Ungaretti e la Grande Guerra l’Acrobata sull’acqua, saggio per parole, immagini e forme, con nota di Guido Oldani (Casa editrice Zona Franca); del 2017 Per un Manifesto di Pittura del Realismo terminale (Italian Poetry Review, Columbia University); del 2018 è il saggio critico Oldani e l’iceberg del realismo terminale («Atelier», n. 91). Nel campo artistico Silvotti ha ideato e curato opere teatrali, mostre, performance individuali e collettive in numerose piazze, musei e sedi istituzionali italiane; Silvotti è anche l’ideatore e il direttore del Piccolo Museo della Poesia le Incolmabili fenditure di Piacenza, unico museo della poesia in Europa.