Stéphane Mallarmé, “Salut”

Traduzione a cura di Francesca Gallo, commento di Diego Riccobene

Salut

 

Rien, cette écume, vierge vers
À ne désigner que la coupe;
Telle loin se noie une troupe
De sirènes mainte à l’envers.
Nous naviguons, ô mes divers
Amis, moi déjà sur la poupe
Vous l’avant fastueux qui coupe
Le flot de foudres et d’hivers ;
Une ivresse belle m’engage
Sans craindre même son tangage
De porter debout ce salut
Solitude, récif, étoile
À n’importe ce qui valut
Le blanc souci de notre toile.

 

*

 

Salute!

 

Nulla. Schiuma. Il vergine verso
non designa che questa coppa,
si’ lungi s’annega una schiera
di sirene all’inverso volte.
Salpiamo, adesso, o miei diversi
amici, io sono già a poppa,
voi a prua, che in fasto taglia
la marea di lampi e d’inverni.
Sublime ebbrezza mi travolge
e nemmeno temo il becchéggio
per alzarmi e brindare in piedi.
Solitudine, scoglio, stella:
non importa cosa ci valse
la cura della bianca tela.

 

Testo originale tratto da S, Mallarmé, Poesie, Marsilio, Venezia 2017.

 

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Composto in circostanza occasionale, per un banchetto tenutosi a nome della rivista La Plume nel 1893, il Salut di Mallarmé mi ha sempre incuriosito per una ragione: mai penserei di avere in esergo d’opera un brindisi. Mai. Malaugurio, porta sfortuna.

Lui poté farlo, tuttavia: Salut, brindiamo, alla vostra, alla poesia, alla morte. Brindiamo, perché non è la sfortuna a spaventare il verso, né manco la questione eternamente irrisolta di quale misura sia data al godere, quale sigillo permetta alla gioventù di perseguire sorti altre (a prua, non certo per caso); con Mallarmé, sempre, e soprattutto da Hérodiade (la vetta inarrivabile del Nostro, per chi scrive) a seguire siamo nell’alveo limaccioso e lenticolare del simbolo, fatto che ci ricorda, pur sempre, che quello che vediamo non è niente; o forse una briciola.

Il Mallarmé dei versi brevi, da romanza, gioca nei suoni con la perizia del “mastro artigiano che presiedeva alla forgia” come già Verlaine annotò[1], tradendo le cesure e le inarcature per far barcollare il lettore (l’astante) e disorientarlo con il Rien d’apertura – che, come osserva Luca Bevilacqua[2], non è il Néant tumultuoso di altre sue produzioni: un Nulla viceversa evanescente, come il verso.

Il poeta può abbeverarsi, in fin dei conti, della schiuma scostante che ogni brulichio del percepito umano concede alla sua lingua implume (vierge), o anche morta (perché lo stato virginale chiedeva il sacrificio di sangue, non è forse vero?). Le sirene sono quelle che cantano, e possono rivelare, sì; non di meno s’attuffano all’inverso, pertanto il canto da loro scaturito è traviamento, è l’enigma.

L’accumulazione dei correlativi finali solitude, récif, étoile non risolve l’enfasi anti-statica, finisce anzi per acuirla. Perché è sempre il come dipingiamo il nostro esergo che conta, in che modo accenniamo la cura e quali sottili presagi essa determina: questo presentifica la concretezza gestuale del brindisi, lo rende atto-liturgia. Il Mallarmé è sciamanico in questa sua posa, in piedi a calice alto, senza temere alcun beccheggio.

È il destinato di quella medesima maledizione dovuta a Tristan Corbière, e altri suoi vicini; “non meno eroicamente”[3] di costoro. Il sacerdote dei flutti, che sente, e predica.

Diego Riccobene

 

[1] Da I poeti maledetti in P. Verlaine, Poesie e prose, Mondadori, Milano 1992.

[2] S, Mallarmé, Poesie, Marsilio, Venezia 2017. Edizione critica a cura di Luca Bevilacqua.

[3] P. Verlaine, op. cit.