Sonia Caporossi – Inediti

Sonia Caporossi

 

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Tre assassine seriali

 

La Marchesa di Brinvilliers

Marie-Madeleine d’Aubray, Marchesa di Brinvilliers (22 Luglio 1630 – 16 Luglio 1676), durante il regno di Luigi XIV uccise con l’arsenico suo padre e due fratelli per beneficiare dell’eredità. Era stato suo marito il Marchese, da quale avrebbe avuto sette figli (non tutti legittimi) a presentarla a colui che sarebbe divenuto il suo amante, il capitano Godin de Sainte-Croix. Questi venne fatto arrestare dal padre della Marchesa, indispettito per la relazione clandestina dei due. Saint-Croix fu così imprigionato nella Bastiglia, dove apprese da alcuni detenuti come produrre il veleno; una volta uscito di prigione si mise al servizio della sua spasimante divenendone complice. Marie-Madeleine sostenne in seguito che se suo padre non avesse fatto imprigionare l’uomo che amava, probabilmente non l’avrebbe mai avvelenato. I delitti vennero scoperti solo dopo la morte di Saint-Croix, che aveva conservato le lettere contenenti i dettagli degli omicidi. Fonti non confermate sostengono che la Marchesa di Brinvilliers aveva tolto precedentemente la vita a circa trenta malati presi a caso negli ospedali per testare il veleno. Quando venne scoperta, fu prima torturata fino a confessare e poi messa a morte; la sua storia corse su tutte le bocche. Da quel momento in Francia si scatenò la psicosi dell’arsenico: si scoprirono un’infinità di omicidi perpetrati dalle mogli nei confronti dei propri mariti violenti. Una vera e propria strage per emulazione.

o padre snaturato che non mi vuoi più bene
se mai me ne hai voluto facendomi tua figlia
mi hai tolto quest’amore che solo mi nutriva
imprigionando lui, passione di una vita
non credo di recarti più torto del dovuto
a dirti che ti meriti ciò che tu hai fatto a me
giacché la crudeltà della separazione
che tollerai quel giorno in cui fu sequestrato
è ciò che ora ti spetta, dall’universo mondo
è ciò che ora ti accade, morendo piano piano
col ventre rigonfiato da sangue e vene cave
per quest’emorragia che cresce nello sterno
che sale tra i ventricoli ricolmi di durezza
per quella cattiveria che tu mi hai dimostrato
togliendomi l’amore che solo mi donava
il senso di una vita ricolma d’agi e d’oro
che poi tu mi negasti con le minacce a vuoto
“ti tolgo tutto quanto!”: serviva un atto urgente
che stabilisse a monte la giusta spartizione
dei beni che volevi sottrarmi come adultera
siccome non cedevo ai tuoi rimbrotti inani
adesso sì! lo avverti lo sbocco del rigetto
del tuo rifiuto atavico, da patriarca infame
ti abbiamo combinato quest’ultimo scherzetto
con formule da strega ho fatto tutti i test
“funziona!”: quella gente moriva senza meno
in breve, ci occorreva fare piazza pulita
eliminare in blocco il parentame ignaro
adesso sai che c’è? è tutto sistemato
i soldi sono miei, e terre e ville e oro
e tu boccheggi a terra nell’agonia agognata
ti vomiti l’inferno escluso dal perdono

 

Erzsébet Báthory

La nobildonna ungherese Erzsébet Báthory ebbe un’infanzia travagliata. Proveniva da una famiglia in cui, a causa dei matrimoni tra consanguinei, le malattie ereditarie, tra cui schizofrenia ed epilessia, erano all’ordine del giorno. Fu spettatrice fin dall’infanzia di scene di tortura, amputazioni e innumerevoli crudeltà perpetrate ai danni dei prigionieri turchi durante la guerra contro l’Impero Ottomano. A sette anni assistette al supplizio di uno zingaro accusato di collaborazionismo per aver venduto i propri figli ai turchi: il malcapitato fu infilato nel ventre tagliato di un cavallo che poi venne cucito lasciando solo la testa del condannato all’esterno. A tredici anni, un cugino la fece assistere al taglio del naso e delle orecchie di cinquantaquattro persone accusate di ribellione in un villaggio di contadini. Fin da piccola, Erzsébet aveva dato segni di squilibrio: pare che passasse dalla tranquillità alla collera con una ciclotimia impressionante. Fu costretta a fidanzarsi a undici anni e a sposarsi a quindici con Ferenc Nádasdy, nobile guerriero che era solito a sua volta torturare i prigionieri di guerra e la servitù: una delle sue sevizie preferite era quella di cospargere il corpo di una serva di miele e legarla vicino alle arnie per punirla. Sembra anche che il marito violentasse frequentemente la moglie esigendo i doveri coniugali con la forza. Quando Ferenc partì in guerra lasciandola sola a gestire il castello di Cachtice, dimora slovacca della coppia, la già debole salute mentale della donna venne del tutto meno. Ella cominciò a tormentare servi e ancelle dando libero sfogo al proprio sadismo: inventò macchine e metodi di tortura come la gabbia cilindrica in cui chiuse una serva facendola oscillare in direzione di pali appuntiti che la dilaniarono, oppure l’assideramento ottenuto facendo denudare alcune serve all’aperto in pieno inverno e cospargendole d’acqua. La contessa partecipava alle orge perverse della zia Karla e apprese la stregoneria da Dorothea Szentes e dal suo servo Thorko, figure ambigue di cortigiani che la plasmarono. Un giorno dopo aver frustato una domestica, una goccia di sangue della malcapitata le cadde sulla mano: la contessa si convinse che in quel preciso punto la sua pelle fosse ringiovanita. Gli alchimisti chiamati a corte la compiacquero per timore di punizioni, confermando la cosa. Ella si convinse che fare il bagno nel sangue di giovane vergini bellissime, nonché berlo appena stillato, le avrebbe consentito la giovinezza eterna. Creò così nel suo castello un’accademia educativa per giovani pulzelle che attirasse le sue vittime e funzionasse da copertura. Tra il 1585 e il 1610, fece uccidere ragazze provenienti dalla classe contadina, in seguito anche dalla piccola nobiltà, appendendole a testa in giù e recidendone la carotide per raccoglierne il sangue vivo. Inventò una macchina da tortura chiamata “vergine di ferro”, che stritolava a morte le malcapitate trafiggendole con lame e spuntoni. Nessuno osava ribellarsi, finché la notizia della sparizione di numerose giovani nobildonne giunse ai funzionari ecclesiastici e a corte dell’imperatore Mattia, che fece svolgere delle indagini nel castello, dove i funzionari imperiali la colsero nell’atto di torturare alcune vittime. Fu arrestata con quattro collaboratori e murata viva in una stanza della sua dimora, con solo un foro per mangiare. Erzsébet Báthory si lasciò morire di fame nella sua prigione quattro anni dopo. Nel suo diario, di cui non si è ancora accertata la veridicità, pare fossero registrati i nomi di più di seicentocinquanta vittime. Gli storici preferiscono addebitarle tra i cento e i trecento assassinii. Chissà quanto fosse invecchiata nel frattempo, in quei quattro lunghi anni di prigionia, senza il prezioso ausilio del sangue sacrificale da cui era ossessionata.

 

la vita non dipende dal senso delle cose
non è la volontà a darle direzione
ci sono forze occulte che prendono il potere
e il mio destino, certo, non può fare eccezione
così, studiando bene la pia stregoneria
sono arrivata alfine a questa conclusione
l’esoterismo domina gli istinti primordiali
ci sono forze ignote che reggono il creato
e se ci liberiamo dalla morale ignara
di quali forze tengano le essenze materiali
possiamo scavalcare i confini dell’ignoto
e assumere un potere precluso a tanti umani
sulla vita e la morte del singolo individuo
sull’esito beffardo del corso naturale
così ho studiato a lungo, lasciandomi un po’ andare
a quell’istinto atavico che mi brucia da dentro
le formule e gli arcani che dominano il mondo
per acquisire il dono dell’immortalità
adesso sono fiera della mia competenza
questa violenza innata la lascio fuoriuscire
in tutte le mie azioni con atto di dominio
a questo son preposta, per questo adesso vivo
è il mio destino chiaro quello di torturare
per trarre il mio piacere e l’eterna giovinezza
se la soverchieria è mio diritto araldico
non c’è poi da stupirsi di quello che otterrò
ho ucciso molte donne, e cento e ancora cento
e centinaia ancora io ne sevizierò
perdendone il conteggio in questo scannatoio
che ho predisposto nelle segrete del castello
per ricordarmi tutto lo scrivo nel diario
che un giorno qualcheduno poi mi contesterà
dicendo che è impossibile che siano così tante
le vittime accertate del mio delirio immane
eppure vi assicuro, io le ho tutte scannate
per berne caldo il sangue, per farci le abluzioni
perché l’età non prenda l’usato sopravvento
perché la morte evada da questo corpo intonso
mi vesto come un maschio ma voglio la bellezza
eterna e naturata nell’immacolatezza
per questo quelle macchie di sangue sulla cute
son l’unica certezza della mia mondazione
purifico la pelle con la sostanza impura
che sola mi proviene dal corpo delle vergini
in fondo mi dispiace che la loro beltà
sia sottoposta a questa mia sete d’infinito
ma io trionferò laddove qualcun altro
chiamato dorian gray saprà d’aver fallito
mi chiamo erzsébet báthory e bevo il sangue altrui
nessun potere al mondo è superiore al mio
non credo che sia amaro bere da questo calice
non credo che sia immondo uccidere anche te
se dracula venisse, mi scioglierebbe i sandali
se dracula vedesse, si inchinerebbe a me

 

Vera Renczi

Vera Renczi (Bucarest, 1903 – 1960) fu un’assassina seriale rumena con cittadinanza ungherese che assassinò nel decennio tra il 1920 e il 1930 almeno trentadue, forse trentacinque persone tra cui suo marito e suo figlio. Proveniente da una ricca famiglia, era malata di gelosia patologica con tendenze paranoiche; era inoltre una ninfomane indefessa, tanto che fin da giovanissima le era capitato di scappare frequentemente di casa per i suoi incontri galanti. Si sposò con un ricco uomo d’affari molto più anziano di lei con il quale ebbe un figlio di nome Lorenzo, ma a causa delle frequenti assenze per lavoro cominciò a sospettare che l’uomo la tradisse. Decise quindi di ucciderlo con l’arsenico, per poi dichiarare falsamente di essere stata abbandonata dal marito. Dopo circa un anno, affermò che questi fosse morto per incidente automobilistico, quindi si risposò, ma il nuovo matrimonio fu attraversato da numerose liti e scenate di gelosia. Dopo pochi mesi, anche il secondo marito sparì: Vera dichiarò di nuovo di essere stata lasciata. In seguito non si risposò ma ebbe numerose relazioni extraconiugali. Tutti i suoi amanti sparivano dalla circolazione nel giro di qualche tempo. L’ultima volta, il suo amante di turno fu pedinato da sua moglie, che lo vide entrare nella casa dell’assassina per poi non uscirne più. Quando la polizia effettuò il sopralluogo, trovò trentadue bare di zinco nella cantina della casa, contenenti i cadaveri di tutti i suoi amanti in avanzato stato di decomposizione. Il figlio Lorenzo era stato a sua volta avvelenato dalla sua stessa madre con l’arsenico per averne scoperto tempo prima il segreto. Durante l’interrogatorio, Vera confessò che talvolta si sedeva in poltrona in mezzo alle bare del seminterrato, contemplando con soddisfazione mista a piacere i corpi decomposti degli amanti colpevoli di averle indotto sofferenza per quei tradimenti che la sua mente malata poteva solo immaginare. Fu condannata al carcere a vita. Probabilmente il drammaturgo statunitense Joseph Kesselring si ispirò alla sua storia per scrivere Arsenico e vecchi merletti.

 

ho avuto molti amanti, lo confesso
ma solamente alcuni ho condannato
a rimanere miei nel giorno eterno
che non ha fine essendo l’increato
erano quelli per cui la passione
vibrava e sovrastava ogni mio senso
erano quelli la cui confessione
di avermi presa in giro e fatta becca
io non riuscivo ad ottenere affatto
eppure ero convinta del misfatto
mancavano per giorni dall’alcova
chissà a chi si davano, a quali braccia
credevano di andar se non le mie
ma se li accusavo del tradimento
tacevano negando ogni attributo
io ero imbestialita: oltre allo scorno
che le corna inducevano alla psiche
c’era l’aggiunta della negazione
del mentitore infame che angustiava
il mio dolore giunto al sommo sfregio
mancavano le prove? non è vero!
giacché nel mio pensiero basta questo
pensare al tradimento era già l’atto
e immaginare l’atto era già vero
le donne son così, san prevedere
qualsiasi inganno e scotto da pagare
e l’uomo non ha scampo, è già avvisato
l’amante è poliziotta e sa il reato
non possono pensare d’esser salvi
non hanno da scusarsi degli inganni
ché tutto quanto alfine viene a galla
e spesso è un gran processo alle intenzioni
ma il tradimento, sai, è come il tempo
va colto sul momento senza indugio
se si sospetta che quel nostro amante
ha fatto dell’amore un vile gioco
non puoi procrastinare, immantinente
bisogna ricondurlo al nostro ovile
ma come? in quale modo? è presto detto
in un bicchiere offerto a pio ristoro
versi il veleno senza alcun sapore
lo mescoli col tè o altra bevanda
glielo propini ignaro del destino
in modo che rimanga solo tuo
lui muore: esattamente in quell’istante
lo rendi tuo marito eternamente
per sempre e sempre, senza soluzione
per sempre e sempre, come sull’altare
perché il segreto dell’eterno affetto
è l’atto del possesso, non l’amore

 

©Fotografia di Alessandro Canzian