Silvia Pepe – Inediti

Silvia Pepe è cantante, compositrice, performer avulsa da qualsiasi genere di imposizione stilistica ed esistenziale. Innamorata della poesia sin da bambina si è dedicata alla scrittura come atto espressivo da accostare alla produzione musicale, sempre rispettando la Verità del proprio sentire e cercandone una risonanza nelle radici del mito, del rito e dei meccanismi inconsci. Il suo primo libro “Boudoir” – edito da RPLibri nel gennaio 2022 – è un percorso iniziatico e quasi formativo che indaga l’amore dalle vette carnali a quelle mistiche, in una catabasi che muove dall’antico testamento al marchese De Sade, seguendo una logica alchemica.

 

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UNA MADRE

Il mio unico potere è stato quello
Di aprire la tua bocca con la mia
E così nutrirti dio

Ora giace la mia testa
Il corpo sparso
Per il viale un gatto mangia
Le mie gambe mi risputa

Apri ancora qualche bocca
In modo che quel vento mi cancelli

Mammella di terra coagula intorno
Di sangue e di latte il pasto dei gatti:

un bacio che già vuota tutto quanto quello spazio.

 

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MAREE

 

I

Oggi ci è crollato addosso l’abisso verde
come un muro di vetro verticale, siamo rimasti
nelle sue grotte senza poterne reggere il peso.
Una parete di case, di acque schiantate
ci ha sospinto dopo aver visitato gli scogli
per ripararci dal fiato del porto e dal soffio.
Da Dio non potremo più andare
perché l’osso non si è mai spezzato tanto a fondo
come per mano della parola. È finito
l’agguato, si sente parlare con rivoli d’acqua;
non si pensa che l’oceano si prepari a sfondarti il cervello che manca
poco trattengo le braccia del mondo.
Mi si è rovesciato nelle mani tanto è il tempo liquido fermo.

Immobile sole, ti cade la testa nel mare.

Se scavi più a fondo la transizione
dal vetro ai miei resti soavi si potrà liberare
un angelus novus dalle scapole intrecciate.

Non mangi da due giorni.
È poco il male.

 

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II
Assunta alla crociata contro il pianto
la nave ferma lenta ad attraccare a folte ciglia,
a scampare la voragine dell’iride allargata
nella quale è già piombato il resto del mio personale.
Per tutto il globo hai già girato e ti rilasci
a quella sclera rivoltata in cerca del suo porto azzurro.
Dell’acqua, ancora, senza più definizione di colore
al che la nave scompare cade
e finalmente mi sala le guance.

 

*

 

III
Colossale adulatrice dei dementi, quest’alba
io la accolgo e la contengo come un grande diluvio.
Ha il viso di una dura madre
riversante l’onesto rigore,
di chi porta il contegno all’inondazione
di vampa che cola abusando il suo tetto
quando cerchiamo di farla emigrare.

Gettata nel cortile, urlante, offesa.
Non posso farla passare attraverso i buchi della mia testa,
creerei ombre fin troppo curiose:
allaccerebbero le altre che mi dissuadono
dal premere l’interruttore coagulato nelle meningi,
dal far scivolare l’epidurale, la mia corteccia
nel grigio della materia astuta

A colpi di mare – il mare di ogni bella infanzia –
da sola si toglie sostanza, riduce il suo battito, e sputa sul dorso
del suo cavallo affannato. Accelera, svetta, colpisce
e si ferisce con un eclatante spasmo
a schiaffi d’acqua.

Non ha forza la luce se la si tiene per mano.