Silvia Patrizio, “Smentire il bianco” (Arcipelago Itaca, 2023)

Nota di Federico Migliorati

Ciò che balza all’occhio a una prima disamina della poesia densa e complessa di Silvia Patrizio, al suo esordio nel genere, è un campionario ampio di oggetti, pensieri, immagini che si stagliano di fronte al lettore in rapida successione riemergendo come da un flusso di coscienza.

Tuttavia nulla è inserito o lanciato per caso sulla pagina: ogni elemento si presenta in accordo con l’idea di un tutto, sineddochi continue che formano tasselli di un mosaico, sul palcoscenico del tempo. Ecco dunque che la parola da cui “esigere fedeltà” prende forma e si sostanzia nel dire questo o quel soggetto protagonista del verso, ma soprattutto introietta una ferita, la “maglia che non tiene”, l’incertezza di un procedere: serve, dunque, “riparare” i vocaboli affinché essi diano il più compiuto senso e appare vieppiù necessario passare attraverso sofferenza e dolore per raggiungere l’epifania della propria personalità.

La poesia segmentata di Patrizio (il cui volume riceve l’introduzione di Andrea De Alberti e la postfazione di Davide Ferrari) apre uno squarcio su un’interiorità, su una fragilità che ci rendono ciò che siamo, è una rincorsa a “stanare il verbo” che sussuma la ricognizione di un sentimento. C’è quasi un gioco di rimandi tra il corpo e la mente in cui ai lemmi è dato il compito di mantenere legati i due universi, tra ricerca del perdono, rimorsi che macerano l’animo, passato che sale prepotente con il “vincolo di fiato rivolto indietro”.

Lasciar decantare, accogliere il silenzio come materia viva, pulsante e feconda, assistere al “pane del giorno prima” che si fa racconto e narrazione sono l’idioma cangiante e frammentato della poetessa pavese che non rinuncia a “esporre” il proprio vissuto nella forma comunicativa a lei più congeniale. In più occasioni, partendo dal titolo, l’autrice ricorre al verbo “smentire” in funzione differente da quella canonica: ecco dunque “smentire il bianco” o la “goccia” che “smentisce la roccia”.

Assistiamo a una deviazione, a una messa in evidenza di un errore, di uno scarto nella natura, all’imperativo di ri-costruire: se “il bianco è il colore del danno” (per riferirci al passo di Francesca Mannocchi non a caso posto in apertura della silloge) o cagione di una diminuzione funzionale dell’organismo (“bianco come braccio che si blocca”) c’è spazio per addivenire a una riparazione, a una re-invenzione di questo tempo feroce e ferale, che torni a popolarsi di colori.

Il verso si apre al respiro di un’umanità dolente (“della passione, penso/ è rimasto solo il mare”), voce civile che anela a una cesura con il silenzio e l’inerzia della viltà. Le presenze femminili dei miti biblici e greci, nell’ultima sezione, appaiono contrassegnate da una fragile intenzione (“vorrei”, “se potessi” sono verbi che ritornano sovente): c’è la soavità di Maria Maddalena, Ipazia ridotta a semplice spirito, a vita da ricomporre, Medea “consumata” dall’uomo (qui il dire si amplia sino a dar forma a un poemetto in cui a muoversi sono soprattutto sensazioni, dubbi, trasalimenti in luogo dei personaggi), Penelope ridotta a interrogativo, Ophelia “corpo in sospeso”.

Sottolineiamo anche la puntuale e pertinente scelta delle citazioni di versi, tutti da ascrivere a donne (detto più sopra di Mannocchi, si rinvengono anche Achmatova, Turroni, Rosselli), custodi seppur in forme differenti di una visione che si ricollega al mondo di Patrizio, in una sorta di dialogo a distanza tra gli elementi, le suggestioni, i rimandi concettuali di una poesia contemporanea, sì, ma alimentata dalle profondità dell’essere.

 

Federico Migliorati

 

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Così è il turno degli oggetti:
anello come anestesia
colpa come cibo accantonato
pozzo come pianto
bianco come braccio che si blocca
letto come lingua o come fiume
che si spacca
come fine.

Forse è questo lo scandalo
che ancora segna i polsi:
un vincolo di fiato
rivolto indietro

Il corpo è una fessura,
la metà di un errore
fissato tra le otto e le nove
di un intero inverno.
Ma sarà rapida
la sera, col suo affamarsi di spettri:
antidoti che il calcolo frantuma.

Così è il turno degli oggetti
anello come anestesia
colpa come cibo accantonato
pozzo come pianto
bianco come braccio che si blocca
letto come lingua o come fiume
che si spacca
come fine.

 

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Silvia Patrizio è nata nel 1981 a Pavia. Tutte le sue passioni ruotano attorno alla poesia.