Jan Jacob Slauerhoff (1898-1936), poeta, romanziere, traduttore e medico di bordo, è uno dei massimi esponenti della letteratura olandese del Ventesimo secolo. Quinto di sei figli, nacque nella città frisone di Leeuwarden in una famiglia di mercanti protestanti. Soffrì fin da piccolo di gravi attacchi d'asma a cui poi si aggiunsero la malaria, la tubercolosi e la depressione. Iniziò a scrivere poesie all’epoca in cui era studente di medicina ad Amsterdam, ispirato dalla poetica di autori quali Baudelaire, Verlaine, Rimbaud e Corbière. La sua prima pubblicazione data del 1921, sulla rivista letteraria Het Getij. Nel 1923 pubblica la sua prima raccolta Archipel. In quello stesso anno termina i suoi studi e, di fronte alla difficoltà di praticare la sua professione nel suo Paese, decide d’imbarcarsi come medico di bordo al servizio della compagnia di navigazione delle Indie orientali olandesi. Il suo mestiere di medico lo condurrà a viaggiare in Asia, America Latina e Africa. Nel 1930 si sposa con la danzatrice olandese Darja Collin dalla quale avrà un figlio, morto alla nascita a Merano; la coppia divorzierà nel 1935, un anno prima della morte del poeta in una casa di cura nella cittadina olandese di Hilversum. Molti dei suoi lavori furono pubblicati mentre era ancora in vita: dieci volumi di poesie, tre romanzi en un testo teatrale, e altri postumi. La sua opera è tuttora pubblicata in Olanda ed è stata tradotta in inglese, tedesco, frisone, francese, italiano e portoghese. In Italia si conoscono di lui due romanzi: La Rivolta di Guadalajara e Schiuma e Cenere.

Patrizia Filia, nata nel 1953 in Francia da genitori italiani, è regista teatrale, drammaturga, scrittrice e traduttrice. Vive e lavora in Olanda dal 1982, dopo aver trascorso vent’anni a Torino. Di lei sono stati pubblicati in Olanda il monologo Medea (1996); la raccolta poetica De schaduw van het park (2013); il dialogo Sapfo (2015); il ricordo In de Mokumse jaren (2016); la versione italiana del ricordo Negli anni di Mokum (2017). Nel 2018 sono uscite le edizioni bilingue dei florilegi De eenzamen/Il solitario con poesie di Jan Jacob Slauerhoff; Blues con poesie di Kees Klok. Nello stesso anno è uscito inoltre Il suo ciclo poetico Astarte, edizione bilingue di Kop leeg e Testa vuota, pubblicati rispettivamente nel 2015 e 2017.

Silvae, Gabriella Mongardi, Ladolfi editore, 2019 – Lettura di Franca Alaimo

9788866444435Silvae, Gabriella Mongardi, Ladolfi editore, gennaio 2019

Silvae di Gabriella Mongaerdi è un libro costruito con grande eleganza a cominciare dalla cornice (entro cui sono incastonate le poesie) costituita dal testo incipitario e da quello finale in cui l’autrice rimanda al mito di Orfeo ed Euridice, avvertendoci immediatamente che il centro della sua ispirazione è una perdita, un’assenza amorosa.
La parola, infatti, già nel testo d’apertura, viene ceduta ad un’ Euridice (è lei che canta, mentre Orfeo tace) ormai consapevole che tutto è quasi perduto e che tuttavia bisogna che la vita continui fino all’inoltramento nell’oscurità del bosco (che dà il titolo al testo conclusivo) da dove avrà inizio l’altro viaggio verso l’ignoto
Ecco allora il perché del titolo latino “Silvae”, che ricorda quello dell’opera più nota di Stazio, come sottolinea il prefatore (oltre che, in questo caso, editore) Giuliano Ladolfi nella sua coltissima lettura; ma che a me fa venire in mente, piuttosto, la selva oscura di Dante, quella da cui ha inizio il cammino del poeta fiorentino nel regno dell’oltretomba in compagnia del suo amato Virgilio, anche lui citato in esergo con quel “Si canimus silvas”, che non solo potrebbe confermare una tale ipotesi, ma implicare un consapevole progetto, da parte dell’autrice, di perseguire uno stile medio-alto, come quello a cui allude lo scrittore latino dell’egloga, la quarta, da cui è tratto l’emistichio.
Il motivo, come prima si diceva, della perdita dell’amore s’intreccia, dunque, con la questione della fuggevolezza del tempo terreno, che, con la sia ciclicità ripetitiva e quasi immemore, supera l’esperienza individuale chiamata a misurarsi con l’altra dimensione spazio-temporale, il cui sviluppo non è più orizzontale, ma ascensionale.
Orizzontalità e verticalità strutturano, infatti, gli altri testi in cornice: benché siano taciute le date di composizione si deduce il passaggio da un anno al successivo: ai colori e alle atmosfere autunnali succede l’inverno, e dopo “i fuochi d’artificio/gettati alle spalle”, ha inizio un anno nuovo in cui si prende nota del piccolo miracolo d’esistere, comunque, ancora: “La novità è che sono ancora viva/ ancora guardo cadere la neve/ di febbraio struggente di lentezza”; e nei testi successivi, l’arrivo della primavera fa esplodere gli umili fiori dentro la luce.
Il mondo di qui, infatti, sia pure attraverso il velo di un malinconico struggimento, risplende nei versi della Mongardi con tutta la sua concreta, sensoriale, cromatica bellezza, tanto che non sarebbe azzardato definire l’autrice una poetessa di paesaggi; e, tuttavia, il mare, le amatissime cime delle Alpi Liguri, i fiori, i cieli, le ombre e le luci proprio nel momento in cui sono celebrati quali elementi naturali, assurgono ad una spirituale astrattezza, offrendosi come simboli di uno slancio visionario, di una fame d’assoluto. E il nulla effimero delle cose, più di una volta evocato dall’autrice, finisce con il coincidere con il Tutto, non appena si fa materia di una tessitura timbrico-musicale curata con quella competenza maturata attraverso la lunga e costante lettura dei classici e l’amore per la qualità sonora delle lingue, che qui si mescolano (il latino, il francese, il tedesco, l’inglese) con esiti sempre felici.
Tutto questo perché l’architrave che sostiene il suo mondo, se non il mondo tout court (sembra dirci la Mongardi) è pur sempre lei, la Poesia: “Scrivo perché l’Amore mi trasforma, / mi lievita come la Vita (…) Scrivo. Ma è un errore”: così, a pagina quarantacinque, la Mongardi parla del suo rapporto con la scrittura poetica.
E non deve meravigliare l’uso del termine “errore”, che non è stessa cosa dell’infecondo “sbaglio”, ma indica un modo di procedere molteplice, imprevedibile, irrazionale che in ogni caso collabora alla costruzione del sapere. Così è la Poesia: per quanto tecnicamente disciplinata, essa sgorga dal profondo, dall’ignoto che ciascuno è a se stesso, dal sacro centro del nostro labirinto, e ci conduce, come il filo d’Arianna, verso la meta invisibile: “Invisibile la traccia/ invisibile il termine/ del nostro cammino.”

Franca Alaimo

17 febbraio 2019