Seguendo la linea dell’ombra: Pavel Muratov in Italia – Paola Ferretti

Pavel Pavlovič Muratov (1881-1951) fu una figura di intellettuale russo dai molti talenti: oltre ad essere uno specialista di storia dell’arte, con un particolare interesse per le icone, fu apprezzato saggista e traduttore di molteplici autori, inglesi, francesi e italiani di epoca rinascimentale. Ma soprattutto si distinse come narratore originale e prolifico: nel 1922 pubblicò un romanzo intitolato Egeria, diede alle stampe diverse raccolte di racconti (Eroi ed eroine, del 1918, Racconti magici, del 1922, Moralità, del 1923) e alcuni pezzi teatrali (tra cui La caffetteria, del 1922). Profondamente attratto dall’arte e dalle cultura italiane, compì una serie di viaggi nel nostro paese a partire dal 1908. Fu da quei soggiorni che scaturì la sua opera forse più significativa, Immagini dell’Italia, pubblicata in due volumi a Mosca nel 1911-1912 e poi in tre volumi a Lipsia nel 1924. Dopo un iniziale coinvolgimento nella vita culturale post-rivoluzionaria in veste di esperto d’arte, Muratov emigrò nel 1922, stabilendosi prima a Berlino, poi a Parigi e a Roma, per trasferirsi infine in Gran Bretagna.

 

Paola Ferretti è docente di Lingua e Letteratura Russa presso la Sapienza Università di Roma dal 2000. Autrice delle monografie: A Russian Advocate of Peace: Vasilij Malinovskii (1765-1814), 1998, e Don Giovanni in Russia. Echi del mito nella poesia e nel teatro della prima metà del Novecento, 2011. Si è occupata di diversi autori russi operanti nell’arco temporale compreso tra il tardo Settecento e la prima metà del Novecento (tra cui Deržavin, N. Brusilov, Puškin, Rostopčina, A.K. Tolstoj, Kuzmin, Platonov, Paustovskij). Negli anni più recenti si è dedicata in modo particolare alla traduzione di testi poetici (B. Pasternak, Temi e variazioni, Passigli 2018; M. Cvetaeva, Sette poemi, Einaudi 2019; B. Pasternak, Mia sorella, la vita, Passigli 2020).

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Seguendo la linea dell’ombra: Pavel Muratov in Italia
Paola Ferretti

Nel primo decennio del secolo scorso, uno dei viaggiatori più incantati del Novecento percorre in lungo e in largo la nostra penisola, raccogliendo impressioni e atmosfere che confluiranno in un’opera destinata a rappresentare un testo di riferimento indimenticabile per chiunque, dalla Russia, si accinga a muoversi alla volta del suolo italico. Fino ad oggi note in traduzione solo per frammenti, le Immagini dell’Italia di Pavel Muratov conoscono ora una pubblicazione integrale in lingua italiana: l’impresa, avviata da Adelphi nel 2019 con l’uscita del primo volume , in cui venivano toccate Venezia, Firenze e le città toscane, continua quest’anno con l’apparizione del secondo tomo, sempre per la cura di Rita Giuliani e nella magnifica traduzione di Alessandro Romano. Qui l’itinerario prosegue verso sud per raggiungere Roma, il Lazio, Napoli e la Sicilia. Il libro è corredato di preziose note al testo, anche se curiosamente sguarnito di pagine introduttive (mentre la qualità non eccelsa delle riproduzioni pittoriche non replica il piacere visivo suscitato dal primo volume).
Interprete ammirato dell’infatuazione per l’Italia di ogni russo capace di appassionarsi al bello, con la sua opera pubblicata in originale nel 1911-1912 Muratov istituisce una variante nazionale del canone del Grand Tour che ancora oggi si impone per pregio e autorevolezza. Al suo interno, gli incomparabili tesori dell’arte e le suggestioni della natura si alternano e si allacciano, sempre indissolubili, e le pagine di Muratov diventano una fantasmagorica rassegna di mirabilia. A colpire il lettore è anche la partecipazione emotiva agli scenari attraversati, che rende possibile rinnovarne ogni volta la malia agli occhi dei russi. Quello del viaggiatore di inizio Novecento è un incantamento incondizionato, punteggiato da sporadiche note di fastidio: per le profanazioni perpetrate dalla modernità, ad esempio, o laddove i mille ingegnosi modi di sbarcare il lunario a Napoli e dintorni passano il segno e “fanno passare ogni voglia di recarsi a Sorrento e a Capri”.
Se l’intreccio di più piani narrativi (artistico, autobiografico, storico, antropologico) è tipico della migliore scrittura di viaggio, qui il resoconto avvince per la molteplicità delle prospettive che si palesano a ogni pagina: la perizia sopraffina dello studioso di arte e le conoscenze dello storico non mancano di accompagnarsi a una sensibilità acutissima e a uno spiccato talento letterario (evidenziato del resto dall’ampia produzione di Muratov come scrittore che si colloca a ridosso della stesura di quest’opera). Ma la sua anima di russo è catturata anche dalle fisionomie che incontra, dalla purezza degli ovali delle fanciulle o dai volti dei religiosi a Roma, “forgiati da una tradizione millenaria”. Muratov inserisce bozzetti e note di colore, aneddoti più o meno originali, e inevitabilmente, come nel primo volume, intarsia resoconto e scrittura privata, mentre la sua abilità di traduttore gli permette di affidarsi ripetutamente alle voci della schiera di viaggiatori che lo hanno preceduto, incastonando suggestivi passi dalle loro opere, come pure stralci da testi letterari di tut’altro genere o descrizioni di tele in cui gli artisti del passato hanno fissato lo sguardo a paesaggi che diventano qui la misura ideale con cui confrontare tutto il resto. Per evocare le fascinazioni inquietanti della Napoli notturna si tuffa in una novella di Gérard de Nerval, Goethe gli fa da guida a Roma e il Boccaccio della novella su Giovanni da Procida gli viene in soccorso per raccontare i giardini della Cubula a Palermo, mentre le Carceri di Piranesi vengono descritte ricorrendo a un passo di De Quincey.
In certi occasionali frangenti, l’autore ravvede imperscrutabili similitudini con la madrepatria: vagando nei boschi dei dintorni del lago di Nemi (“coppa ricolma di un liquido strano, più denso dell’acqua, come pietra verde liquefatta”) trova che l’aria primaverile sia eccessivamente pungente per l’Italia e immagina di star camminando invece per una foresta russa, o ritiene che la piana di Catania, attraverso cui si inoltra il suo treno, sia paragonabile alla steppa del Meridione russo, e rinviene punti di contatto tra la costiera amalfitana e i litorali della Crimea. Né può esimersi dal menzionare un certo numero di russi illustri che hanno calcato il suolo italico prima di lui, Gogol’ innanzitutto, naturalmente, ma anche i pittori: pur affidandosi in larga misura alle vedute di Lorrain e Poussin, oltre che alle tele di Turner e Corot, per tessere le lodi della Campagna romana – “patria della pittura di paesaggio” – non si dimentica di Aleksandr Ivanov, e nell’esaminare i mosaici del Duomo di Monreale si dice certo che essi abbiano influenzato, nell’ultimo quarto dell’Ottocento, la “barbara policromia” di Viktor Vasnecov.
Questa seconda parte del viaggio muratoviano prende le mosse da Roma, cui viene tributato un omaggio che occupa più di un terzo del libro e trabocca di passaggi tesi a cogliere l’essenza della città: sulla scia di Vernon Lee, il russo vuole raccontarne lo spirito, spiegare in cosa risiedano le ragioni di quel solenne, mesto “senso di compiutezza” che pervade ogni cosa, e conclude che “il significato materiale delle cose si è dissolto, e la loro essenza spirituale è stata liberata. Tutto ciò su cui si posa lo sguardo è sepolcro, ma la morte ha abitato qui tanto a lungo che questa sua dimora, la più antica e la più regale, è infine divenuta la dimora stessa dell’immortalità”. Per il viaggiatore russo, ciò che si realizza è il perfetto incontro di natura e storia: “L’eterna vegetazione che incorona i colli e le rovine di Roma turba e incanta il cuore della gente del Nord, proprio come le parole di un mito classico o l’epifania di divinità primeve. La metamorfosi di Dafne diviene affatto comprensibile al cospetto dei fusti di lauro, vivi e quasi umani, che crescono accanto alla Casina Farnese sul Palatino”. Muratov è quasi sopraffatto da uno spazio saturo di oggetti di interesse artistico, stratificati l’uno sull’altro nelle pieghe delle epoche avvicendatesi sotto il cielo della Città Eterna: il pathos delle rovine non lo avvince meno delle atmosfere della Roma cristiana, gli affreschi di Melozzo da Forlì e i capolavori del Rinascimento maturo, così come i prodigi dell’architettura barocca, generano pagine estasiate, vibranti del più vivo godimento estetico e intellettuale.
Il pellegrino russo si lascia poi suggestionare dalla Campagna romana, di cui afferma si possa ancora parlare come di un “mondo a parte”, “luogo stregato”, “sublime teatro della storia”, in cui “perfino gli acquedotti sembrano greggi che attraversano di corsa la distesa”, o paiono “una pianta spontanea della Campagna, piuttosto che una creazione dell’uomo”, e da cui, nel crepuscolo del ritorno verso la capitale, “le statue di San Giovanni, costrette in movimenti tragici, stagliano contro il cielo le loro irrequiete silhouette barocche”. Di fatto, annota Muratov, “l’eternità di Roma non è una congettura, poiché essa è circondata da un territorio sul quale il tempo ha interrotto il suo volo, ripiegando le ali”.
Come uno spazio dalla spiccata fisionomia spirituale gli appare tuttavia l’intero territorio del Lazio, disseminato di ruderi e terrazze dalla cui sommità si rivelano panorami incastonati tra grandiose quinte montane, colli verdeggianti e argentee strisce di mare. Punteggiato di vulcani spenti (tanto che “ovunque si cammina sulle tracce del fuoco”, scrive citando un altro viaggiatore) e tempestato di tutte le dimore e le tenute principesche in cui (come a Villa Lante) “si palesa il fenomeno dell’unità romana, poiché “è lo spirito di Roma ad arrotondare con grazia ed eleganza il corpo di un vaso di pietra, a far mormorare soavemente le acque delle fontane, a spalancare le corone dei pini”. In questa “epifania della natura latina”, “la prodigiosa esistenza di Roma diviene il credo incrollabile di una vita”.
Di Napoli restituisce innanzitutto “l’energia che si sprigiona nelle strade”, l’irruenza della vita popolare che ha per sede i vicoli e le vie, gremite di processioni, pirotecnie e giochi d’azzardo, risolvendosi in un continuo, chiassoso spettacolo che prende forma sullo sfondo di una bellezza naturale sfolgorante. In questa parte del suo viaggio Muratov “tocca con mano l’antico” a Pompei, “quadro fatto di pietra e aria” concepito secondo il tracciato dell’ombra, la cui “vita sfuggente è l’unica cosa che ancora non sia volata via dalle mura e dai lastricati” della città sepolta dall’eruzione. Visita Ravello, con la sua vista impareggiabile, e Paestum, tinta del colore dorato della pietra dei suoi templi, che dà una “impressione di materia viva, che fa quasi pensare al corpo umano”, e gli permette di rivivere con i suoi occhi il passaggio millenario della luce del crepuscolo sull’opera dell’uomo.
Approdato in piroscafo a Palermo, non fatica a cogliere tutti gli elementi esotici della vita della città, passata attraverso il dominio bizantino, la conquista araba e quella normanna. Osserva le metope rinvenute a Selinunte (conservate nel museo di Palermo) e rileva ammirato “i magistrali esiti conseguiti dalla scultura greca nei duecento anni che separano il gruppo di Perseo e Medusa da quello di Zeus ed Era”, cosa questa che lo porta a riflettere sulla sostanza dei miti e sulla capacità della scultura greca di dare loro la più prodigiosa e perfetta espressione formale. Le vestigia dei templi e dei teatri, insieme alle altre testimonianze del passato, si coniugano nell’isola con un paesaggio impervio, selvaggio, in cui “la vista delle nevi perenni dell’Etna rafforza la sensazione di trovarsi in un mondo primitivo”, e “il Vesuvio sembra un giocattolo, paragonato a questa montagna colossale”.
Lasciando Taormina nella primavera del 1909 per riprendere il suo tragitto nella penisola, Muratov chiude questo secondo volume osservando: “Oltre lo stretto di Messina, ancora nascosto, i monti calabri sono già visibili. Siamo attesi dallo spettacolo delle città distrutte dal sisma. Un lutto che appartiene all’intera umanità, poiché l’Italia è quella gioia per la quale ancora vale la pena vivere”.

Paola Ferretti