Saggio sulla poetica di Maria Luisa Vezzali, A cura di Loredana Magazzeni

“L’ustione della lingua nella chiarezza della luce”

A cura di Loredana Magazzeni

Maria Luisa Vezzali appare oggi una delle voci più appartate e potenti della poesia contemporanea italiana. Lei stessa confessa, offrendoci indizi: «è nella poesia che esprimo la maggiore intensità». Di che intensità si tratti il lettore può verificarlo volgendo verso questa scrittura e le sue ragioni profonde le piste dell’indagine tematica e stilistica, da percorrere senza fretta nella solitudine e nel silenzio.

Laureata in Lettere classiche con una tesi sul linguaggio poetico nell’Antologia Palatina, in particolare su La lingua di Dioscoride, muove le prime esperienze di poesia nella redazione modenese di Steve (rivista diretta da Carlo Alberto Sitta) e proprio nelle Edizioni del Laboratorio pubblica la raccolta L’altra eternità (1988), con prefazione di Franco Buffoni.

Diviso in tre sezioni (Pietre dell’Ida, Tra Cuma e Tiana, I canti di Penelope), il libro esplora in maniera spazio-temporale le coordinate di un percorso che sembra snodarsi all’interno di un paesaggio intricato di selve e di rovine, dove i graffiti disegnano, come lungo pareti paleolitiche, le geografie di un paesaggio alle origini stesse della scrittura.

Di questi luoghi, abitati fin dalla preistoria, si definiscono al lettore come cippi i confini (il monte Ida, caro agli Dei, la grotta della Sibilla, le selve della Barbagia più selvaggia, Micene e il Minotauro, la presenza di Core), in una memoria misterica che fa i conti con la perdita e la caduta. La presenza umana è disseminata di ruderi, che interrogano come stazioni le nostre stesse eredità simboliche. Tra «i segni sulla tela» e la «luce sulla sabbia» si stabilisce un’amorosa corrispondenza, così come tra «il / rosso intonaco» di un tempio cretese e il gesso di un assolato deserto. E la prima parola chiave di questa raccolta è compenetrazione. Compenetrazione tra divino, umano, animale, vegetale e minerale: «l’uomo è specchio della pianta», «la carne è di pietra», mentre «iridi di fango» riposano in un «orto caldo di sonno». Un corpo a corpo fra l’umano e «il caldo abbraccio dei numi» che non esclude, anzi, ingloba la seconda parola chiave della raccolta, la parola compassione, perché sempre «l’amore frana nella grazia» e perché «il tempo delle fauci del divino» non prevalga su quella corporeità che sanguina perché umana («ha un fiore rosso cupo fra le ginocchia)» e cerca la parola fra solitudine e incertezza («sola col suo cuore che trema d’insetti»). La terza parola chiave è: riconoscimento. Già in questa prima raccolta, infatti, si assiste alla formazione di una voce che dice io, attraverso il ritornare incessante del primo verso, il verso del riconoscimento: «Ti conosco: eri il margine del luogo» e nella terza sezione, I canti di Penelope, è lo sguardo che osa affrontare gli dei e poi spostare la propria traiettoria nell’acqua e nella sua capacità vivificante e generativa.

Voce e sguardo che sanno profetizzare l’inconosciuto, il non ancora accaduto («il prestabilito detta con / la bella voce invisibile»), mentre assistiamo a una genesi, a una formazione geologica di mondi industriosi e indomabili, visioni che si inabissano nella quotidianità con una forza epica di costruttori: «confondono i giorni / con suono di fucina».

Se Buffoni individua nel neo-orfismo le suggestioni visive e sonore di queste poesie, e di «rifondazione del mito» scrive Alberto Bertoni, entrambi i critici concordano nel ritenere che esista in questi versi “primigeni”, fin dalle loro radici miracolosamente ellenistiche, una matrice al contempo corporea, sanguigna e di dolorosa coscienza co-costruttiva della realtà, che accompagnerà questa scrittura in tutti i libri successivi.

Ma perché non inscrivere questa poetica all’interno di una nuova linea interpretativa, cioè quella di una poesia epica al femminile? Pur non scritta per essere performata, come quella di Patrizia Vicinelli di Non sempre ritornano, o de I Fondamenti dell’essere, la poesia di Vezzali ai suoi esordi sembra rimandare non a una dolorosa oscurità orfica ma piuttosto al bisogno di una nuova mitopoietica, quasi a voler rifondare epicamente, attraverso l’esperienza del quotidiano, la griglia etrusca della nostra conoscenza.

Al centro del discorso è la parola: la capacità di dire (non tanto da «poetessa sibillina», come la definisce amichevolmente Buffoni, che ne riconosce invece subito dopo «il temperamento limpido e generoso»), di illuminare una natura non onirica e inafferrabile ma storicamente determinata, per quanto sofferta e dolorosa possa apparire. E lo fa con la sua capacità scrittoria da incisora e orafa, da cesellatrice, da una che si sente «a casa soltanto tra pietre lavorate da mano umana, che siano i ruderi della cattedrali irlandesi, gli stone circles celtici, gli archi di Karl-Marx-Hof o i musei d’arte moderna delle metropoli».

Qual è allora “l’altra eternità” di questa poesia che cerca con raffinatezza e pudore di rappresentare il mondo, la pietà di appartenervi e di farsi memoria e specchio di tutti i viventi che lo abitano? Certamente la percezione di trovarsi all’inizio di un cammino rinegoziato a ogni passo dalla sua esperienza umana di donna, attraverso il riflesso di una classicità imperfetta, velata di assenza e di abbandono.

“L’altra eternità” è allora la presenza, ed è forse questo il carattere particolare della scrittura di Vezzali, del colloquio con l’altro attraverso l’amore per la letteratura e la pratica traduttiva. Il suo è un procedere accanto, un procedere assieme agli autori e alle autrici amate, che sia il raffinato epigrammatista alessandrino Dioscoride, che siano Adrienne Rich, o Saint-John Perse o il medico e poeta giramondo Lorand Gaspar, da lei tradotti negli anni successivi. Perché niente si inventa se non come riscrittura del passato o come rifrazione dell’orizzonte presente, nel calore dell’abbraccio dell’altro. «Gli eventi nella mia vita» scrive Vezzali «sono sostanzialmente le relazioni», e la traduzione «è il luogo dove abitare le contraddizioni, riposare dalle fatiche, ingaggiare le lotte, fermarsi nell’ascolto dell’altro»: «Non c’è davvero cesura tra la pratica della vita e la pratica della scrittura con uomini come Gaspar, entrambe vibrano e radiano molto al di sopra dell’abituale».

È infatti dopo l’uscita delle sue ispirate traduzioni da Dioscoride, sul n. 7 di Testo a fronte, che dà alle stampe la seconda raccolta, Eleusi marina (1992), in cui il colloquio con l’altro (sia esso guida spirituale, compagno di vita e di esperienza, maestro di poesia) si fa incessante ricerca di relazione, fra allusioni simboliche e citazioni dichiarate.

Anche qui la silloge si struttura come un unico componimento poematico tripartito, di sette testi poetici ciascuno, chiusi a corona da un andamento circolare: Nel raggio della luce che snatura, La terra dalla bianca riva, Al decimo giro della spola. Le presenze evocate sono esplicite e implicite e includono, senza soluzione di continuità, rovine e reperti, paesaggi, tradizioni e visioni, riferiti a più di una civiltà e a più di un immaginario culturale, mentre gli autori di riferimento vengono criptati ed esplicitati insieme negli esergo, spesso ridotti a iniziali puntate (da Alighieri a Cavalcanti, da Carducci a Eliot, da Petrarca a Rilke, a Esenin, a Tarkovskij).

Le pratiche iniziatiche relative ai misteri eleusini prevedevano un ciclo di tre fasi: la “discesa” (la perdita), la “ricerca” e infine l'”ascesa”, dove il tema principale era la “ricerca” di Core e il suo ricongiungimento con la madre. Qui il viaggio ha inizio con un’invocazione amorosa: «Amore mio / mio amore», che diventa la formula iniziatica della viaggiatrice nella conoscenza: «io sfoglio quel poco che non dà paralisi, / quello che veramente vale, / né viene tolto dalle azioni, / ma germoglia sotto le azioni». Le azioni necessarie a questo viaggio rituale sono esplicitate subito dopo, nel secondo componimento, che porta con sé: «Cognizione, volontà, parola…».

La materia verbale è qui trasparente, ci accompagna in un susseguirsi di visioni che da impregnate d’aria («Ciò che è fatto d’aria, / che traspare, / che non ci immaginiamo, / che avvertiamo forse a volte in un brivido») possono improvvisamente trasformarsi in incisioni e scarnificazioni nella roccia (la «pietra scalfita», «il tempo è marmo, sotto lo scalpello perfetto / dello sguardo», «sui gioghi»).

Ci muoviamo in un paesaggio popolato di lampi (le «messi dei fulmini»), illuminato da fulgori improvvisi e da presenze animali simboliche («lucertola / sotto la luce», la «tigre nel canneto»), passo dopo passo veniamo condotti in un cammino rituale «con passi scalzi, consumerò le ginocchia» per arrivare lì nel punto esatto da cui si è partiti: «meta per cui parto / punto in cui ritornare».

Una lingua fatta di citazioni apparecchia un rituale dove convivono il lino e il marmo, i lillà, il mirto, il muschio, la creta. Al partner della coppia divina, nella poesia ellenistica, venivano indirizzate formule devozionali che suonano qui come promessa di eternità nel presente, mentre l’amato diventa esso stesso divinità, come un fiume sacro, come il Lu, antico fiume cinese affluente dello Xiang, come il Casiquiare, fiume amazzonico, «mio signore fangoso».

Non siamo ancora qui nel tempo della storia, ma in qualcosa che lo precede, forse il senso di una civiltà comune, di una memoria che prima di diventare individuale ha dovuto attraversare per gradi diversi la memoria della specie e poi quella delle collettività: «Il tempo non è storia / non procede, / non va di ora in ora. / Il tempo è uno stato / la fiamma ferma della salamandra».

Questo tempo irrimediabile e fermo è tuttavia strettamente connesso al tempo storico, attraverso l’esperienza del dolore e della morte, comune a tutti noi. Così anche “La battaglia sul lago ghiacciato”, dedicata a un evento storico particolare, la battaglia sul fiume Chud, combattuta da Alexander Nevsky contro i Cavalieri dell’ordine teutonico nel 1243, cui Eisenstein dedicò un memorabile film nel 1938 (come segnala puntualmente l’autrice in una nota) diventa monito contro la dimenticanza delle ingiustizie e delle guerre: «E quella nenia che ridà il torpore / ha l’incorporea intrico / dell’inganno, la cadenza / gelata delle stelle».

Ma è l’incontro traduttivo con la poesia e la poetica di Adrienne Rich, «disegnatrice di mappe e cartografie del nostro tempo, maestra della poesia come politica», come scrive Liana Borghi, a segnare la svolta e la maturazione di una coscienza poetica che oserei ritenere femminista nel senso più pieno del termine. Dove femminismo era per Rich, e per le grandi autrici statunitensi del secolo scorso, lanciare un vibrante atto d’accusa alla storia per la distruzione (delle comunità, dei deboli, del pianeta), per rifondare un reale rispettoso delle diversità e solidale verso le precarietà e le fragilità dei destini (di nuovo umani, vegetali, animali), assieme a una militanza bruciante contro ogni guerra.

Ed è essenzialmente nella poetica, in quel «consustanziare moralità e metrica, idealità e forme poetiche», come nota Franco Buffoni in un appassionato omaggio, in occasione dei settant’anni della poetessa del Maryland, che le due autrici si incontrano, trovando molte cose in comune da dirsi. Cartografie del silenzio (Crocetti, 2000, seconda edizione 2020) e La guida nel labirinto (Crocetti, 2011) sono il risultato appassionante di questo corpo a corpo dentro la lingua e le poetiche (dell’altro, del desiderio, dell’importanza dei corpi nella storia) che suggella un’adesione e un’ammirazione illimitata della poeta e traduttrice italiana verso l’autrice di Nato di donna.

Da questo momento, per Vezzali «incontrare i versi di Adrienne Rich è aprire un dialogo», come sottolinea Chantal Bizzini, traduttrice in francese di Rich, che individua altri terreni, a mio parere comuni alle due poete, ovvero l’uso di «un’archeologia del nostro presente dove altre epoche affiorano e si sovrappongono al tempo della poesia», la verticalità, la «discesa, sotterranea, attraverso spazi lasciati vuoti negli strati del tempo e del nostro inconscio», così come la pietà verso le esistenze individuali, impigliate nelle crepe della storia.

Lo spartiacque fondamentale fra la poetica del viaggio a ritroso verso la scoperta del reale e la presa di coscienza del proprio doloroso posizionamento nel mondo è da ritrovarsi nell’opera centrale di Vezzali, lineamadre (Donzelli, 2007). Dico doloroso non per vicende personali che riguardino in specifico la poeta, ma per il suo empatico aderire al dolore del mondo, a cui presta voce vibrandone nelle più intime sonorità. Il poemetto dieci nell’uno, frutto di un lavoro di collaborazione e risonanza poetica con le opere della scultrice Mirta Carroli, prende spunto dai 10 sephirot della cabala ebraica come archetipi di una riflessione su bellezza, violenza, amore, una vera e propria ricerca di una grammatica con cui rileggere il cosmo prima di gettarsi dentro l’esperienza privata di figlia, moglie e madre.

«venire al mondo – essere al mondo – mettere al mondo: / una volta è abbastanza // questo libro è la dedica» scrive in apertura a una raccolta che indaga il proprio esserci in maniera totalizzante, ricavando meraviglia e stupore da ciascun momento quotidiano: «notte stupefatta, non vedi / che diecimila mani ti tirano / gli orli sgualciti di tovaglia», ed è proprio a noi che si rivolge, a noi che abbiamo nella vita «diecimila maniere per passare / sostando alle oasi dei parcheggi / davanti alle serrande dei bar». È questo noi che nasce, il noi «con il quale tra simili parliamo / con il quale tra simili ci diamo / appuntamento», mentre l’altro soggetto è la donna-pesce, la donna che nasce a se stessa nella visione: «le donne-pesce / hanno un ritmo acqueo / nel trascinare la spazzola».

Le visioni hanno attraversato il deserto e percorso le vie del corpo («che percorrano / la rete delle vene non è strano»). Ecco che si incamminano «attraverso la trachea / sotto le volte cave dei polmoni», fino a esplorare la meraviglia dell’umano restare, «l’ombra del dito che spinge il tasto / della lavatrice quando ormai / l’intero condominio / è un grande automa spento / cavaliere di ferro fermo in trance».

Con la «cenere dei morti» la poeta ha edificato le sue solide fondamenta umane, e quando la notte viene a visitarla, «nave con lo scialle nero d’uccelli / mugolio di rematori senz’ossa», la presenza è splendore, è partecipazione alla vita e accettazione totale e incondizionata del suo mistero.

Compito della poesia è «risvegliare i sognatori che dormono», chiamarci a essere in presenza, a portare il peso d’amore che ci è richiesto, a imparare la pace, la misericordia, il ricordo, a sciogliere nel sole la corona dei giorni (“corona antica di giorni” e “solute nel sole” sono appunto i titoli di due poesie).

Ed è in presenza ed in piena maturità di poesia che nasce la parte centrale del libro, lineamadre, parte che tesse e orchestra come in una sinfonia il rapporto d’amore e conflitto con la madre, l’amore coniugale, l’amore materno verso il figlio, la vocazione aperta e generosa a farsi carico del mondo e dell’umanità (si veda, in particolare, la “ballata dei bambini uccisi dalle proprie madri”).

Si entra in questa sezione in punta di piedi, tanta è la fecondità, l’acqua che gronda avvolgendo il discorso materno, «il campo / immarcito per troppa irrigazione», che la parola assume per farsi interrogativo filosofico, esistenziale, che procede salendo verso un crescendo di consapevolezza interiore, sull’essere donne e creatrici di rapporti, tra cui quello con le proprie madri: «noi bambine antiche figlie adulte / convinte / che un tale amore sia / incorrispondibile».

Sulla madre il discorso assume una tale densità, da non risultare più fatto di parola ma di carne: «tra noi si irradia una concentrazione / che esclude la parola / più che altro carne, soffio, materia / banca amorosa informe».

Ed è così alta l’intensità del sentire, che come tante scintille di luce ogni parola è ustione, che sfrigola e svela l’accensione improvvisa del conoscere, «gli sfrigolii del fuoco / ricuciono l’aria ora». Una madre «bianca di tutte le ottave del bianco», principio e fine di ogni potenza, «noi eravamo insieme / imprescindibili», linea che ha attraversato tutte le vite risalendo al genoma umano per poi individuarsi e separarsi, «eppure in qualche modo / già sole, incomprensibili // l’una all’altra, fiaccole a precipizio / sul buio».

Madre potente il cui sguardo «scava nel ventre / una caverna simile / a una nave / caricata per il naufragio», eppure anche madre tenera, in cui tutto è dolcezza («il modo di spazzolarti / i capelli, il collo gravato dalla tenerezza, / il ritmo con cui giri il cucchiaino»).

A distanza di poco più di dieci anni dall’esplorazione del mondo misterico materno e femminile di lineamadre, Vezzali torna al suo tema prediletto, «l’esperienza poetica del mondo», come avverte Stefania Portaccio nella Postfazione a Tutto questo (Puntoacapo, 2018), esperienza in cui «la creazione non delude la lingua», scrive Elio Grasso, ma diventa lingua essa stessa, attraversata da una pluralità di forme metriche, che non si «accasano in una struttura», come nota Vito Bonito, ma tradiscono la fragilità della possibilità strutturale di un impianto compositivo. Ed è a questo ultimo lavoro in versi, costruito attorno a eventi di cronaca, esperienze di lavoro, riflessioni sull’oggi, dialoghi con autori, allievi, persone migranti che è affidata l’ultima (per ora) prova della poeta.

«chini la testa per passare la porta e al di là della soglia / il mondo respira» recita il primo verso della poesia introduttiva, “del mondo”, poesia che è il margine da cui non solo sporgersi attraverso la visione, ma entrare davvero, attraverso fratture e ferite, nell’esperienza diretta del mondo. Qui è la luce, e la luce definisce nettamente «grumi di luce che tornano cose di luce» quale sia l’alterità che ci chiama.

Tutto questo… è storia, provo così a parafrasare il titolo volutamente tronco, né interrogativo né esclamativo, di questa ultima intensa raccolta, nata a seguito di una lunga sedimentazione, e di una profonda capacità di riflessione esercitata dalla poeta bolognese sulla vita dei singoli nel suo intrecciarsi con essa. Vezzali ha qui ben compreso e metabolizzato la lezione di Adrienne Rich, sa che «i neri uccelli della storia stridono e incombono sulle nostre vite personali» (But the great dark birds of history screamed and plunged / into our personal weather), che ciascuno di noi è «un poeta in tempo di guerra» (poet in wartime)  e si augura che «il potere di scagliare parole sia un’arma / che il corpo possa essere un’arma (that the power to hurl words is a weapon / that the body can be a weapon). Qui più che altrove la violenza della storia sulle vite si mostra e giustappone all’esperienza personale del mondo, tocca i nostri corpi, e non può più essere elusa.

In un continuo colloquio intimo e filosofico con l’esperienza, Vezzali riesce a far dialogare la realtà individuale (e dunque anche il mestiere di insegnare, il rapporto con gli allievi e le allieve, l’empatia nei loro confronti per le esperienze spesso drammatiche che nascondono, come l’anoressia di una giovane alunna di “//una voce//”, l’abbandono scolastico di una studentessa geniale ma ribelle nella poesia “Gretel”, le difficoltà di uno studente appena arrivato dal Pakistan in “Arnaut”, nella sezione dedicata alla scuola, dal titolo appunto A scuola d’ossa) con una visione della vita che fa i conti ancora con il bisogno etico della “compassione”, cioè del lottare e resistere insieme a chi, sradicato dal proprio paese, arriva sulle nostre coste.

Più poesie sono dedicate, infatti, a temi di forte valenza sociale, come i respingimenti, le concentrazioni di migranti, il loro bisogno di riconoscimento e soprattutto di trovare una lingua comune, umana, condivisa e compresa da tutti, come nella poesia “lingua sasso” o di affrontare il tema della violenza contro le donne, della poesia “ISTAT 2006”).

Altro punto nodale del libro è la centralità e pregnanza del rapporto maestro-allievo. Anche la necessità di una “guida nel labirinto”, che abbia il compito di “accompagnare” (giovani allievi, migranti, familiari, amici), è un richiamo a Dante riletto attraverso Rich, sottolineato, nella poesia “Virgilio” della stessa sezione, dalla figura del maestro-guida, colui che aiuta l’altro a rispecchiarsi e ad esistere, e che ti porta in alto e alla luce, restando nell’ombra.

Tutto questo è dunque misurarsi senza paura con l’esperienza della caduta, è passione civile, ed è amore: per la bellezza, la sapienza, il mondo, lo splendore, la stessa maturità («torre fiorita nel deserto / preparami a / spegnimi / sembravi così in fondo, così / lontana»), della prima sezione, Versi d’esperienza e d’amnesia, e per l’eredità materna di “affezione”, altra parola a lei cara, e di bellezza («l’illusione che la mia bellezza / sarebbe pur servita a qualcosa») e condivisione («ma tu mi hai amato giocando / a briscola con me di pomeriggio») della sezione Le tre età.

Chiudono il libro le più recenti prose poetiche (cartoline metafisiche) nel confronto con l’eredità classica (gli esergo da Aristotele ma anche da Derrida), dopo un’alternanza fra stili ed esperimenti formali diversi (l’uso di distici ripetuti, come nel ghazal, il confronto e il dialogo con metriche mediorientali, come quello con il poeta palestinese Ashraf Fayad, gli haiku, le elegie, le liriche e le prose) che ben disegnano la volontà di rendere anche stilisticamente la necessità del confronto con la complessità del mondo globale. Tutto questo è storia, sì, ma è anche vita, impegno, passione e dunque capacità di conoscere e generare bellezza da parte di una poeta da rileggere attentamente e attentamente seguire.

 


 

Da L’altra eternità, Edizioni del Laboratorio, 1987, Tavole di Maurizio Osti:

 

Dimentichiamoci fuori la legna

che s’infradicia

nel cortile e ridesta l’ora quando

l’uomo è specchio

alla pianta dopo l’arsura, alla belva

dopo la buona

caccia o alla pietra dopo i secoli, o

forse nulla di

questo, ma solo all’uomo quando l’odore

di gatto bussa

ai vetri e trascinano le unghie

delle ortiche il

rosso intonaco rivelando il gesso.

 

*

 

I marinai guardano l’Orsa.

Il prestabilito detta con

la bella voce invisibile.

 

*

Tempo è per noi lo spazio delle stelle

senza vizio e della ruota che gira

sui cardini di veggenza. Parole

col cuore sulla soglia guadano lente

traverso a queste quattro ossa buie

 

*

 

Pronuncio le ore lustrali bagnate

dall’alba,

dopo che la signora ha abbeverato

i suoi

cammini oscuri.

Pronuncio le ore

lontane,

battute dalla coda dello specchio.

 

Mi prende

fuoco nella bocca il nome tuo che non è

di questo

mondo fra gli alberi di luce.

Tutti i

 

peccati

della mia gente li porto in mano come

anelli.

 

*

(E Core al centro dei sentieri

ha l’ondeggiare dei cipressi

ed il grano che le scoppia nel

ventre come una malattia)

 

Da “Eleusi marina” in Terzo quaderno italiano a cura di Franco Buffoni, Guerini e Associati 1992:

La moviola dell’angelo

 

Il tempo è marmo,

marmo scuro,

pieno di forme, figure

equivoci, racconti,

sotto la scorza dura.

Le schegge si levano

in un turbine,

sotto lo scalpello perfetto

dello sguardo

 

– «giunse mia madre,

mi fece un cenno

e volò via…» –

 

La luce tra le palpebre proietta

la stanza obliqua,

i muri color seppia,

il suono profetico dei passi.

E la casa in cui tememmo

i nostri giochi,

il destino,

le voci senza corpo,

si disfa tutta

nei suoi capelli grondi

chiari, lunghissimi,

ancora insaponati

e il «sarò buona»

capitola in preghiera

 

– scendi, acqua,

acqua di percezione,

acqua di commemorazione,

acqua di riconoscimento,

rivelante, fredda,

mista a fango,

scossa goccia a goccia

dalle piume,

saporosa, colma di sillabe,

illuminata,

canta sui tetti,

scivola in cantina,

infiltra il fondo,

anima le basi,

vieni più forte,

agita, incatena,

scendi, acqua, musica,

rovina… –

 

Il tempo non è storia,

non procede,

non va di ora in ora.

Il tempo è uno stato,

la fiamma ferma della salamandra.

 

 

Da lineamadre, Donzelli 2007:

fin dal principio

 

noi eravamo insieme

imprescindibili

eppure in qualche modo

già sole, incomprensibili

 

l’una all’altra, fiaccole a precipizio

sul buio delle antiche senza insegne

pulsar di caldo insanguinato

l’una per l’altra

 

là vedevamo scorrere

codici indecifrati di noi

contrasto sullo schermo della luna

primitivo specchio d’argilla

 

concavo e convesso

di quella stessa forma

impantanate in un’aurora infetta

di passione, identità e di ferocia

 

eclissi di grano caldo e falciato

sotto la terra voglio rimanere

con occhi di terra voglio guardarti

berti voglio con i semi d’arancia

 

tra i denti e tra i corridoi degli orecchi

l’onda notturna che fu la tua voce

durante la notte più lunga

e dolce, e perduta, e paurosa

 

l’anima voglio berti sulla lingua

lettere illeggibili che tracciano

le tue dita sull’orlo del cuscino

stare qui e non essere morte

 

frantumare ogni singolo respiro

nel carso degli anni senza essere mai

fantasmi, essere piuttosto pianeti

in fuga per traiettorie segrete

 

in questo spazio di fragili stelle

rimani vicina a fuggirmi il freddo

cantami il canto dell’approdo

la dura mappa delle eredità

 

la norma che dice siamo le pietre

angolari di un vuoto senza trappole

al cui appoggio

il corpo rinsavisce, che ci dice

 

avremmo morte più definitiva

risolte tutte le nostre distanze

e ricuciti gli strappi delle unghie

non continuasse a trapassarci insieme

 

la linea, la lancia che scorre indietro

indefinitamente

a rintracciare il sangue ed i genomi

giù per vie di lotta irriducibile

 

la linea invece passerà di qui

la vedremo viaggiare non sorprese

la  aspetterò

avvolgersi su questo foglio

 

sul quale ora la luce acceca

a intermittenze

vitale, poroso come il tuo ventre

quando non rimarrà niente altro

 

la linea calerà

dalla parte dei gesti

ripetuti a perfezione senza che mai

si siano imparati

 

il modo di spazzolarti

i capelli, il collo gravato dalla tenerezza,

il ritmo con cui giri

il cucchiaino

 

liquida affonderà la linea

proiettile tra stazioni di età

con il fischio narcotico del sogno

forerà le mie labbra addormentate

 

sopra gli occhi più cari,

quella pace sarà la linea

che mi proseguirà oltre me,

che unisce nonostante tutto

 

madre

 

 

*

 

Da Tutto questo, puntoacapo 2018

ISTAT 2006

 

musica di sabbia cola dai bassi

filari di luce delle cabine

pura presenza pure già memoria

ricordo di quando il mondo sembrava

una casa possibile

mentre c’è il vento che cuoce voltando e

rivoltando le pagine

 

più di un terzo delle donne non ne ha parlato con nessuno

 

pagine rivoltanti

che evaporano negli occhi una piccola

pioggia grigia di somme e percentuali

la linfa che impietrisce in disistima

la carne aperta sotto

le labbra livide dei riflettori

lo sconosciuto che odia senza nome

 

più di un terzo delle donne non ne ha parlato con nessuno

 

la mano che si striscia

sotto la scrivania

la mano oscura del compagno botte

nel corso della gestazione

sguardo che muta di colpo pigmento

«spinta, strattonata, afferrata, storto un braccio, i capelli tirati, schiaffeggiata,

presa a calci, pugni o morsi, tentativo di strangolamento o soffocamento o ustione»

 

più di un terzo delle donne non ne ha parlato con nessuno

 

ed è questo quel continuo stonato

che si sente vibrare quando vibra

sotto l’approdo secco del lenzuolo

che si sente rodere a mezzo

del fiato fragile dell’erba a mezzo

dello scrosciare

che sarebbe alato delle onde

 

più di un terzo delle donne non ne ha parlato

 

e che dura da e per sempre

dentro e fuori l’im-mondo

montando come fondo d’afasia

finché si dura

mosto osceno di tra il corpo e il pensiero

che questo fondo muto finché dura

nega tutte le bocche della terra

 

più di un terzo delle donne non parla

con nessuno

 

*

 

lingua sasso

 

dentro le gabbie o nella testa

o sotto la sabbia grigia dei deserti

le parole possono morire

come gli uomini

una volta strappato

il tessuto che le contiene

una volta strappato via

aperto il burrone che le fa cadere

tra gli atomi che rabbrividiscono al contatto

la materia nauseata si ritrae e frantuma

come una specie di pioggia di pietrisco

solo il modo (a piombo)

con la schiuma dell’acqua nelle orecchie

solo il peso (l’ingombro)

la lingua sasso

che si rotola in bocca

succhiando inarticolati

respingimenti

 

solo la cosa senza flessione

le perifrasi che brancolano tra

i suoni come lacci

 

e noi fatica e prega

                                   e parla nella notte

                                   di là dal taglio del canale freddo

 

come triangolando con le stelle

e la casa troppo accesa nel ricordo

piena di passi di serra d’attesa

lo snodo d’orizzonte sulle labbra

la teiera fischia il canto tra i tetti

l’odore della pelle della mano

che è come una terra d’approdo

all’indietro

 

ma tornare indietro

                                   è difiscile

                                   stare qui

                                   difiscile

                                   il mio tempo te lo do

                                   la schiena il corpo te lo do

                                    in cambio di un cartoccio

                                   ma la faccia l’espressione degli occhi

                                   la bocca

 

                                   se vuoi sparare spara in cielo

                                   noi non siamo

                                   uccelli

 

 

*

 

Da Cartoline metafisiche

 

Quasi che l’acqua dovesse derivare dal fuoco e la terra dall’acqua,

e in questo modo dovesse sempre derivare

un qualche elemento di altro genere da uno precedente.

 

 

 

(da una cabina dell’Enel a Correggioverde, MN)

 

Che in quella nebbia che era di umori quasi come di pioggia una scintilla era l’ultima cosa che ci si aspettava, in quel fasciame di assi totalmente in disuso che un tempo aveva avuto camere, e storie, e reciproche parafrasi di vite in transito. Una luce sbagliata da una connessione scordata, quasi un frammento nel vuoto senza invito né clinamen. Così quel vetrame brulicava giù dalle palpebre che non sbattevano da giorni, colla secca aderente alla pira di solleciti sulla scarpiera dell’ingresso. Come quando il guerriero azzoppato guarda in faccia il nemico e con il catrame si tatua la luna intorno agli occhi per azzannare il buio. Trentacinque anni, quattro figli (compreso quello che remeggiò nella periferia ossidata fino alle guglie del tramonto), e penelope davanti al telegiornale, e un licenziamento di più, uno tra i tanti, di questi che segnano i confini della nostra nuova inavvertita età del rame.

 

 

Inedito:

 

a occhi chiusi ascolta l’assenza

teoria della percezione

un cerchio di tempo

è un calice

 

ci cozza contro

il ferro della lingua

la sua luna

cresciuta a dismisura

 

e una volta cresciuta

esplosa dalla laguna genitale

per tutte nella gogna

che prelude al canto

 

per me maschera

simultanea tremenda

inghiottita

a fare sciame

 

niente di putrido

rigoglioso senza

sosta ha omesso

di toccare

 

niente nel fondo ha

toccato che non sia

rivoltato

in bellezza

 

per Patrizia Vicinelli (23/8/1943 – 9/1/1991).

Poeta bolognese.

 


 

Maria Luisa Vezzali, Bologna, 1964. Opere: L’altra eternità (Edizioni del Laboratorio 1987), Eleusi marina (in Terzo quaderno italiano a cura di Franco Buffoni, Guerini e Associati 1992), dieci nell’uno (Eidos 2004, disegni e sculture di Mirta Carroli), lineamadre (Donzelli 2007, premio Anterem/Montano), Forme implicite (Allemandi 2011, con gioielli e disegni di Mirta Carroli), Tutto questo (Puntoacapo 2018).  Suoi testi sono tradotti in inglese, spagnolo, francese, arabo, tedesco e svedese. È comparsa in numerose riviste e antologie. È traduttrice di Adrienne Rich (Cartografie del silenzio, Crocetti 20202, e La guida nel labirinto, Crocetti 2011, premio per la traduzione dell’Università di Bologna) e del poeta francese Lorand Gaspar (Conoscenza della luce, Donzelli 2006). Ha curato un’edizione di Saint-John Perse, Anabasi (Raffaelli 2011).

 

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