Rita Greco, La gioia delle incompiute

Rita Greco

La gioia delle incompiute

Ladolfi Editore, 2021

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Tenersi stretta la gioia «delle cose / che non sono mai /diventate cose».

di Giulio Greco

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Si dice che nei titoli sia contenuto il messaggio di un libro. Non metto in dubbio questa convinzione, poiché gli scrittori si ingegnano a sintetizzare, anzi, direi, a “comprimervi” il senso del loro lavoro. Rita Greco procede per una via opposta e intitola la sua raccolta di poesie La gioia delle incompiute (Borgomanero, Ladolfi, 2021). Sembra che l’autrice esprima una recusatio e che si adegui alla corrente artistica che vede nel “non-definito” il valore romantico dell’indefinito il quale chiede la collaborazione del fruitore (cfr. Opera aperta di Umberto Eco), come la Pietà Rondanini di Michelangelo, ma la lettura del testo conduce a esiti diversi.

Acutamente Alfonso Guida nella prefazione chiarisce: «E questa incompiutezza dell’oggetto del soggetto, delle cose e dell’essere, permea del suo illudente bagliore di soglia l’intera, rocciosa escursione di versi cantati in un rovescio di sé, all’esterno, guardando la morte, che si sconta vivendo, da un davanzale. L’incompiuto non è solo una presa d’atto dell’interminabile processo evolutivo e involutivo della res che resta nascosta come un’ombra, un animale tra siepe e tana, ma si intreccia anche a una nostalgia della potenza».

La carica eversiva della Greco, pertanto, va ricercata nella profondità del concetto di incompiutezza («il bordo dal quale mi affaccio»; «il grezzo diamante») che assume un valore esistenziale, connaturato con il limite della realtà, oggetto di speculazione filosofica e fonte di disagio umano.

La consapevolezza che panta rei (πάντα ῥεῖ), che tutto cambia, tutto muta, che nulla sopravvive all’azione distruttrice del tempo («E se mi chiedessi / dov’è finito il tempo / ti mostrerei il mio orologio / fermo sui rimpianti»), che questa legge è marchiata anche nelle nostre cellule, aggredisce in profondità l’essere umano, lo annienta e si traduce in esistenze prive di luce, «intent[e] al proprio solco», «coltelli che sminuzzano il cibo».

Questa condizione («viaggiavamo sul ciglio del dirupo») non viene analizzata con la fredda mente del filosofo, ma con l’empatia del poeta che abbraccia con il suo sentimento il senso dell’esistere: «Sunt lacrimae rerum et mentem mortalia tangunt» (“Anche le cose hanno lacrime e colpiscono la mente dei mortali”); “mortali” dice Virgilio e questa parole ci fa balenare l’angoscia della certa fine.

Ma Rita Greco non si pone su questa linea tradizionale, perché usa nel titolo della raccolta la parola “La gioia”. Si può provare questa dimensione interiore di fronte all’ineliminabile sentimento d’angoscia («C’è una corda / che m’impicca / all’albero del tuo disamore»)? Evidentemente sì, e questo dimostra una grandezza umana che sa in primo luogo accettare consapevolmente il limite («pensieri a non finire / pensieri da impazzire»), che sa situarsi nella profondità delle cose («Le cose sono fragili e si rompono / basta un solo sguardo leggermente acuminato») e che non si abbandona allo sconforto. «Amo solo la rosa che non colsi» confessò Guido Gozzano e Rita Greco come il poeta torinese ama le cose che non sono mai diventate cose; le ama senza rimpianti, senza nostalgia, con un’adesione che non è istintiva, irriflessa, forzata, ma per l’intima convinzione che soltanto in questo modo l’arcobaleno può «spandere sulle nostre vite / la sua luce impossibile».

È questo il segreto di un’esistenza serena? Ne sono convinto («Quando ti chiederanno di me / non saprai raccontarmi / di’ che ti ho regalato / una dedica flautata») e lo si sperimenta quotidianamente quando si gioisce di una scoperta minima («”Le coperte come / una montagna di calore”»), di un gesto, di un raggio di luce, di una parola, di uno sguardo («La tua mano / era una nuvola carica di pioggia»), di un paesaggio («gli angoli strappati alla notte »), di un abbraccio, di una serata tra amici, della stessa routine («E se tutta la vita non fosse / che questo fare e disfare / letti e caffettiere?»). Non si tratta di atteggiamento scontato o semplice («Ho appeso vicino alla porta / la tua fotografia / così che vederti / mi colga di sorpresa»), perché richiede un cammino («Poco sopra il ginocchio / si ferì»), un intenso lavorio interiore (il «bulimico ricercare»; «è costato tre giorni di piaghe / l’indomito sogno che trema e barcolla»). Non è una condizione caratteriale e coinvolge la totalità della persona («Vengo a dirti/ la gratitudine / delle mie lacrime»), nei sensi, nei pensieri, nei sentimenti («due vecchi abbracciati»), nel modo stesso di concepire il mondo («Di ogni declino / faremo bellezza»).

E allora il testo si diffonde in un inno alla vita («Ci starò una vita / sulle tue parole/ e non finiranno mai»), la cui lettura solleva l’animo e lo riconcilia con le difficoltà che inevitabilmente ci colpiscono. Il lettore non riesce a sottrarsi al fascino di questo procedere interiore che svela orizzonti inaspettati, significati reconditi e scoperte all’interno della propria esperienza.

La poetessa non cede al facile impulso, purtroppo assai diffuso nel sottobosco della poesia italiana e non solo italiana, di abbandonarsi a metafore surreali, a visioni oniriche, a quell’”assurdo” che spaccia l’incapacità di dire con la targa di quell’indefinita notte nera hegeliana in cui tutte le vacche sono nere e sulle quali si possono scrivere valanghe di parole. Presenta con concretezza situazioni di vita, le quali però sono in grado di “significare” («Era facile per voi / stare nelle parole quiete / dire buongiorno / buonanotte / ti va un caffè / ci vediamo dopo / e chiudere così / il circo sonnolento della vita»). Questo non implica che ci si adagi in una semplice mimesi dello sguardo («Il veleno cade a grumi sulle spalle della notte»), perché l’intensità del sentimento porta a vedere realtà autre.

Arte e vita senza accenti moralistici si fondono in un dono confidenziale che affratella l’umanità nella proposta di un cammino congiunto per imparare il “mestiere di vivere”, in cui tutti rimaniamo perenni discenti:

Ma lasciatemi l’illusione

che a qualcosa serva

mettere insieme questi suoni sgangherati

e se in realtà non sono che rumore

è perché io più di tutto

sono contraddizione.

(Epitaffio)

Giulio Greco

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Rita Greco è nata e vive a Mesagne (Br). Nel 2007 ha pubblicato la raccolta di poesie Perché ho sempre addosso un cielo (Il Filo Edizioni). Diplomata attrice professionista, conduce laboratori di teatro-poesia per bambini. È vicepresidente dell’associazione culturale “Solidea 1 Utopia”. Suoi testi sono stati pubblicati su vari siti e blog, tra cui “Rai Poesia”, “Versante Ripido”, “Poesia del nostro tempo”, “Transiti Poetici”, “Poeti Oggi”, “Bibbia d’Asfalto”.