L’afrore delle botti s’impossessa dell’infanzia,
il vino vortica nell’imbuto e fa la schiuma…
Ci scusi chi non gira a torso nudo a casa propria…
Pina e Vannino se la spassano in egual misura,
piantati su una sedia, dopo la cena.
Spiriti della malnutrizione, sedili in paglia,
compiono i loro eccessi, la mollica non la tolgono.
Mi chiedono l’imitazione di Mike Buongiorno.
Per lo scolaro che ero, e per loro, il modello
era la Fininvest, il magazzino era la ricchezza –
le frese della motozappa tacevano nell’angolo…
La vista delle braccia pingui non va via dagli occhi,
il pelo sulla pancia è quello di Vannino in Terra,
gli occhi celesti di Pina ne sono la conferma.
La tavola è la fine di una guerra. Pina s’appoggia
e dice Pina, alzati e sistema, dai, su, forza!
Oscilla fino al lavandino, e sgrassa e sciacqua e asciuga.
E oscillo io che sono vivo, vengono i brividi.
Deve esserci una mano divina – slaccia il grembiule.
Ride di sé, lede l’idea che è alla base dei poteri.
Una decina di case, niente mezzadro, terre.
Ci scusi chi controlla i grammi con il bilancino,
guardatela portare a giorno le patate, china,
studiatene la cantilena… La radio capta un’era
che non è mai trascorsa, che è nell’acconciatura.
Lo straccio soggiogato dai palmi irruviditi,
stretto nella spirale, ora ripassa il piano in fòrmica,
toglie la quiete ai gingilli; alla statuina bianca,
cesellata senza amore, gonna che annulla i piedi…
Se volete capire, entrate negli occhi di Pina
e troverete indizi, la mota della stradina,
seguitene l’adagio, il millepiedi in pietra secca,
e arriverete all’aia dov’io mi sbraccio, faccio la macchietta,
e, cielo scurato a parte, luce che cala e calma,
ecco la bacinella dove immerge le caviglie
e, dentro, il sale che sommuove l’acqua calda.