Luigia Sorrentino, “Piazzale senza nome” (Pordenone Legge – Samuele editore, 2021)

Nota di Carlo Ragliani

L’ultima fatica poetica di Luigia Sorrentino, edita Pordenone Legge e Samuele editore, sembra raccogliere nell’incisività di un verso brevilineo dalla pregiata fabbricazione, dall’estensione di vedute e dal taglio poematico, tutti i frammenti che compongono quel luogo ove s’incrociano individui e sorti, nella loro dimensione completamente monastica e collettiva, che partecipa alla più intima unidirezionalità del destino dell’essere umano.

Il particolare pathos comunicativo dell’opera si consegna concretizzato nella costruzione di un dettato che instaura una fabbrica immaginifica dagli esiti viscerali, ed al contempo risulta pregno di completezza, fugando il rischio della corrente di una certa tendenza poetica dal verso breve di risultare avulsa da organicità, o quantomeno esangue di graves, e pertanto di spessore e valore poetico.

Ancorandosi al presupposto metrico della versificazione, risulta fondamentale enunciare che questa incontra, come dimensione di massima ampiezza, una tendenza endecasillabica (talora raggiunta naturalmente, talvolta avvalendosi di sinalefe) che sembra accogliere la lezione di certi autori del ventesimo secolo – realizzando con una inarcatura due emistichi che si fondono, completando il verso canonico.

Ma, ai fini critici, è più rilevante l’aspetto poetico (nel senso stretto) del verso di Sorrentino; poiché questo afferisce istintivamente ad un campo semantico che realizza una particolare tragicità nella composizione dell’autrice.

Il che sembra essere la più naturale estrinsecazione, se non anzi l’approdo fisiologico, della scelta estrema e della rarefazione metrica, e della sostanzialità lessematica del dettato; i quali che determinano assieme un sistema complesso di pesi e contrappesi con il quale misurare la parola nei suoi ventuno grammi d’anima.

Venendo alle tematiche del testo, non si può notare che le campiture urbane, così come il reticolato di viali più o meno vicini al senso solidale della voce narrante, manifestano non solo una abitualità nell’abitare i luoghi edificati dall’essere umano; ma – e soprattutto – una proiezione dell’abitudinarietà della frequentazione dello spazio antropico, calpestato tuttavia dal monadismo abituale e specifico che distingue l’individuo in quanto tale.

“Piazzale senza nome” si apre con una dedica al padre defunto; questo, oltre a spingere il dettato poetico in un senso sostanzialmente intimo, indica che se il dolore di talune perdite è transitorio, e transeunte come lo è colui che ne sortisce gli effetti, per certi altri lutti una commemorazione sic et simpliciter potrebbe non essere sufficiente.

Così la morte del familiare colpisce certamente in profondità l’io poetante, più che altre sofferenze; ed in questa direzione potremmo valutare di conseguenza che il destinatario – rectius: il soggetto indiretto a cui spesso il verso si riferisce – tenda a scolorare in un cromatismo semantico che potrebbe riferirsi al lettore, ovvero al soggetto a cui è dedicato il libro.

E quindi supporre che sia il lutto a ricadere sul monumentalismo instaurato nella pagina, quando questo interroga in un certo qual senso la necessità dell’antropocene – e di conseguenza, della poeta – di dar risposta, o tentarla, alla tematica per cui “si monumentum requires, circumspice”.

Questo, per certi versi, immerge completamente il lettore nella non-nominazione degli spazi e delle aree dell’uomo di cui è artefice Sorrentino; e questo sembra, a seguito della lettura completa del testo, una conseguenza dell’esperienza esistenzialista del patimento che tutto ingoia per cancellarlo.

In effetti, la poesia contenuta nell’opera sembra proiezione dell’abitudinarietà all’abito della morte, e perciò estrinsecazione vocale a risposta delle necessità della poiesis come spontanea e naturale, pertanto scevra di ogni posa artificiosa perché connaturata all’esperienza del dolore.

La conseguenza di questo sarà un verso che sfocia nella sofferenza (ben lungi da un patetismo spiccio, e da un dolorismo dagli esiti superficiali) che sola da forma alla fattispecie esogena alla monade della coscienza poetica, e che emerge di controcanto al desiderio di perpetuità più intimo, e per questo dolorosissimo.

Ma la tematica principale dello scritto è l’aspetto della memoria, o meglio: l’io lirico primeggia nella sofferenza in quanto operatore primo del ricordo, e dell’impotenza innanzi allo straniante affacciarsi della realtà e delle sue fattispecie, che si assommano nell’assenza come lascito e palcoscenico, sul quale tutto ciò che si compie si dimostra come scempio impietoso dell’esistenza.

Sarà dunque così che si introduce il lettore al dualismo imperituro che stritola la materialità della vita, e dello scontro letale tra gli assoluti del notturno e della neve, del bianco e del nero, dell’ideale e del reale; al cui epicentro si incardina il sangue e la sofferenza come professione dell’essere, e lascito ereditario.

Neve che contraddice l’ostinatezza degli altri colori, ed a questi si oppone come risoluta contrapposizione; imperniandosi come assenza, e necessaria compresenza di ogni spettro cromatico che, malgrado tutte queste accumulate associazioni con tutto ciò che appartiene alla vita, sempre indova nell’intimo una particolare elusività.

Deinde, il bianco dell’autrice si dota di corporeità, nel manifestarsi invernale nella composizione; e si concreta come fisicità in grado di superare ogni candore e caratteristica verginale, ed invita ad essere attraversata con la stessa sostanza di cui i corpi son composti.

L’assenza di vocalità tipica dell’inverno, e della neve di conseguenza, si attua nel nome inteso come attività di battesimo del reale e sembra investire ogni momento significativo dell’esistenza: siamo tanto chiamati a nominare, almeno quanto siamo chiamati per nome in ogni istante della quotidianità.

Il che manifesta l’esercizio professionale ed eroico della parola che riesce, oltre l’attesa e il compianto, oltre il doloroso e consapevole nos canimus surdis virgiliano, a perimetrare una poesia che vuole elevarsi al di là dell’impotenza consapevole del mezzo comunicativo.

*        *        *

NEL SECOLO CHE HAI LASCIATO 1

su tutto il giardino neve
dilatata
silenzio armato nelle pupille
neve, tutta nel sangue
narici oltraggiate
bianco e nero

l’incedere violento
del battito cardiaco
si chiude su di sé

nella luminosa potenza
avviene l’incontro

*

geme la luce
tanto più densa e oscura
oscuro marcire oscuro

assorti nella pietà
gli occhi prendevano
il cristallo antico dello stupore

il cranio stretto fra le mani
povero e antico resto
bellezza disperata
chiamata a scendere

neve affamata ha consumato
il sacro giardino
nel secolo che hai lasciato

*

la notte crollava nei nostri occhi

le braci,
ai piedi della scala della villa
comunale
il profilo degli affanni

dalla violenza della fiamma
la sua forma sovrumana sorgeva
intatta dalla cenere

oscillando fra il dio e il nulla

*

tutto è bianco e nero
la neve sui limoni
tormenta i colori
li contraddice con ostinazione
lasciando impronte
nere di fiele

la somiglianza
era sangue colato fra le dita
il tuo sangue

luce bianca
iride cancellato

*

lasci tutto
abbandoni ogni cosa
tutto dipende da altri
sei un corpo senza capacità
acconsenti
ti fai amputare i piedi

eppure sai, lo sai,
l’amore desidera
il perpetuo bene

*

NEL SECOLO CHE HAI LASCIATO 2

lui è uno di fronte al quale
ci si copre la faccia
crollato nel profilo
sfinito, brace predata dall’ambra
gola automatica
neve deglutita piano piano
vede cose che altri non vedono

ha rinunciato
l’insofferenza della mano
percuote la sua ora

*        *        *

Luigia Sorrentino è nata a Napoli e lavora alla Rai. Ha fondato e dirige dal 2007 il primo blog della Rai dedicato alla Poesia sul sito di Rai news 24 (poesia.blog.rainews.it). Fra le pubblicazioni di poesia: C’è un padre (Manni, 2003), Lacatterale (il Ragazzo innocuo, 2008), L’asse del cuore («Almanacco dello specchio» Mondadori, 2008), La nascita, solo la nascita (Manni, 2009, prefazione di Maurizio Cucchi), Olimpia (interlinea, 2013-2019, prefazione di Milo de Angelis, postfazione Mario Benedetti), Inizio e Fine (i quaderni di Stampa2009, 2016, a cura di Maurizio Cucchi). Le sue poesie sono state tradotte in numerose lingue. Fra i suoi libri pubblicati all’estero: Olimpia (Recours au Poème Editeur, 2015, traduzione in francese di Angèle Paoli), Figure de l’eau/Figura d’acqua (Al Manar, 2017, con inchiostri di Caroline François-Rubino, traduzione in francese di Angèle Paoli ), Début et Fin (Al Manar, 2018, con collage di Catherine Bolle, traduzione in francese di Joëlle Gardes), Olympia (Al Manar, 2019, con disegni di Giulia napoleone, traduzione in francese di Angèle Paoli), Olimpia (RiL Editores, 2020, traduzione in spagnolo di Antonio nazzaro) uscito in Cile e in altri paesi latino americani. Per il teatro ha scritto e pubblicato il dramma Olimpia, tragedia del passaggio (2020), una produzione del Napoli Teatro Festival Italia diretto da Ruggero Cappuccio, messo in scena nel Palazzo Reale di Napoli il 16 luglio 2020.

© Fotografia di Angelo Nitti, 1982