Nino Iacovellla – “Latitudini delle braccia” (deComporre edizioni, 2013) Lettura di Clery Celeste

IACOVELLANino Iacovellla – “Latitudini delle braccia”
(deComporre edizioni, 2013)

Lettura di Clery Celeste

La poesia di Nino Iacovella nel suo “Latitudini delle braccia” (deComporre edizioni, 2013) è una poesia che viene dal sangue. Dal sangue come memoria genetica, come memoria emotiva e collettiva. Siamo quello che altri sono stati prima di noi: ce lo vogliamo dimenticare, vogliamo crederci unici e capaci di andare avanti, vedere solo presente e futuro prossimo. Il trauma è insieme ferita e movimento, il trauma dei nostri avi si muove dentro di noi, viene pulsato e distribuito lungo tutto il nostro corpo. Non può essere dimenticato. Nino Iacovella fa esattamente questo procedimento: trova la cellula del dolore e la fa uscire, le dà un nome, una forma, una collocazione. La rende sua e attraverso la scrittura la rende anche nostra, ci ricorda che siamo ciò che c’è stato prima e che il passato ci appartiene.

Latitudini delle braccia è un ottimo esempio di quella che si definisce poesia sociale; il nodo centrale del libro viene teso tra due estremi che comunicano, Iacovella ci racconta le tragedie taciute della seconda guerra mondiale e il disagio attuale di una società priva di comunicazione, dove le cose prendono il sopravvento su tutto. Si arriva a confondersi con esse, a non capire più i confini tra un movimento automatico delle scale mobili e il movimento della cassa toracica per respirare.

Nino ha scelto di aprire il libro con un testo che riguarda la strage della stazione di Bologna del 2 agosto 1980: un inizio che è il punto di perfetta fusione tra l’impotenza della tragedia subita e della violenza in questa nostra epoca attuale dove “Nemmeno la tua solitudine poggia/ più sulle proprie gambe.” In questo testo è raccolto tutto quello che verrà poi svolto lungo il libro: la solitudine esistenziale odierna è solo un’altra forma delle atrocità subite nel passato, quella che era ferocia ora si è trasformata in indifferenza e assenza. Può sembrarci un paradosso ma nei testi che trattano i massacri della grande guerra quello che ci arriva oltre al dolore della vista del sangue e di corpi privati della dignità e delle membra è in realtà la condivisione. Ci si aggrappa a qualsiasi cosa come “la lingua rigida di una filastrocca/ ripetuta ad oggi chiusi,/ per non inciampare tra le lacrime”, si resta uniti più che si può, con quello che rimane dei corpi e del cuore privato del sangue.

La poesia di Iacovella ci appare dura e scarnificata, si cerca di arrivare all’osso della parola, alla parola necessaria. Nonostante questa tensione costante ci sono dei momenti in cui l’autore non riesce a resistere alla tentazione della dolcezza, da dura la poesia diventa liquida, come una chiamata alla vita e alla bellezza a cui non si può resistere nonostante tutto. C’è vita oltre, c’è vita nonostante.

La seconda parte della raccolta si sposta lentamente verso il più grande disagio attuale della società: la solitudine interiore. Viviamo in un mondo che ci obbliga a comunicare con tutti e allo stesso tempo con nessuno. Siamo soli dentro, tra le nostra budella, come dice Nino “siamo corpi accecato dall’indugio:/ né cose che sanno andare via,/ né cose che sanno restare”. Gli oggetti prendono sempre più spazio, si confondono con gli uomini e acquistano più dignità delle persone. L’unico contatto possibile è “il vuoto nelle mani,/ piccoli petali di dolore,/ i ricordi incendiati nel palmo” ma allo stesso tempo la necessità di comprensione, o più semplicemente di essere amati, arriva e “I tuoi occhi mi riportano nei posti/ dove non sono mai stato”. I testi di Iacovella trattano il sociale su più fronti e lo fanno in modo preciso, con una versificazione estremamente curata, la scelta delle parole è stata lenta e razionata. Niente è lasciato in sospeso: il ritmo è costante e teso in tutto il libro, leggendolo si ha la necessità di continuare la lettura e allo stesso tempo di ritornare sui testi.

Ringrazio Nino Iacovella per la sua poesia, c’è bisogno di dire tutto questo, di farlo senza pietismo e senza una emotività estremizzata. Una poesia che è un sussurro di aiuto perché stiamo rischiando di diventare “un ordine che spinge ad accalcarci/ gli uni contro gli altri”.