Nicola Butrini, Vetro – recensione di Stelvio Di Spigno

Nicola Butrini, Vetro, Interno Poesia, Milano 2022

Nella vita di un poeta, di ogni vero poeta, arriva un momento in cui sopraggiungono i bilanci sulla vita, sull’arte, sulla sorte, persino su Dio. Stanco di registrare suoni e nomi, di ammantarsi di nomenclature letterarie più o meno rispondenti al proprio io, in poche parole, il poeta decide. Taglia gli eccessi frondosi, focalizza il bene e il male, chiama le cose con il proprio nome, comunica invece di esprimersi stancamente. È  quanto avviene con Vetro di Nicola Bultrini, ultimo libro di un autore che nell’ultimo decennio ha approfondito le ragioni della propria scrittura fino ad arrivare a una visione delle cose netta, tersa, senza mai rinnegare la ricercatezza del proprio stile, fatto di attenzione per le cose minime e di pudica riservatezza. Ma giunto a una meta importante con La forma di tutti, nel 2020, il nostro autore si spinge più avanti, conservando l’eloquenza e l’audacia dei giorni migliori dentro un discorso fitto di presenze, che talvolta gioca col registro parlato per accarezzare l’interlocutore interno e confonderlo col lettore, tanta grazia possiede. E il lettore si trova sommerso in questa storia di una vita come se il “tu” al quale si rivolge Bultrini fosse egli stesso. In altri termini sì dà un addio alla fase esistenziale per guardare la vita ad altezza d’uomo. La chiave del libro sta tutta nei titoli delle sezioni: “Adesso ho da dire qualche cosa” dove vengono smascherati i luoghi comuni della memoria, tra ricordi e spaesamento del presente, che infine viene però arginato; “Facciamo un passo indietro”, nella quale campeggia la figura quasi biblica del padre con i vari risvolti della “necessità” paterna; “Quando sogna una cosa che opprime” nella quale, come in un miraggio mattutino, l’esperienza del mondo viene trasfigurata e affrontata con forza, quasi respinta al mittente nella sua sempiterna negatività; “Sia messo agli atti lo stupore”, nel quale questa negatività, nella fede della durata della vita, viene sostituita da una saggezza elementare, quasi contadina, riaffermando in modo perentorio uno spazio spirituale per il proprio sé, spazio che si misura con la capacità di amare di cui l’autore si riappropria. Sarà la “frugale educazione cattolica” di cui parla a inizio libro, un momento di  felicità che “si dice non conosci / quando la indossi ma dopo / si fa rilesso eterno” , ma le possibilità della vita vengono vagliate a una a una, mentre lo stile di queste poesie diventa sempre più vicino alla nostra capacità di comprensione, e alla fine ciò che resta è una forma di sapienza, una “forma di tutti” e per tutti, appunto, che invita a dare un giudizio finalmente equo sulla nostra esistenza, a di là di ogni ragionevole disperazione. E questa urgenza di equità, di giustizia, se così si può dire, la troviamo non a caso in quasi tutte le chiuse dei testi, come a voler costruire, poesia dopo poesia, una piramide dove il bene occupa di nuovo la vetta delle cose da dire, da fare, da tramandare.

Stelvio Di Spigno