«Mi ci pulisco le unghie, faccio
la manicure con questa spilla, prof,
glielo giuro.
Le giuro che non è altro che questo,
tu
mi conosci, cioè, lei…»
Dice, mentre flette l’estremità,
reinserendo quella figlia appuntita
con gesto podalico nel ventre cavo
della spilla da balia.
I segni sul polso
sono un chiaro alfabeto, la minuta d’un addio.
«Stare al mondo è un parto, prof».
È l’ultima parola che per oggi
concede all’universo,
poi rimpicciolisce nel silenzio,
la si dimentica in un angolo,
come un ragno che ci si scorda di schiacciare.
Eppure
ieri era un elefante di risate. E oggi,
sotto quella felpa, ne paga ogni colpa.
Non posso, non posso mettere al mondo
quel che mi tortura, non posso
commettere lo stesso errore
di mia madre. Io sono migliore di lei
a essere peggio.