Lino Angiuli – poesie da “Addizioni” (Nino Aragno editore, 2020) – Uscita editoriale

ANGIULIADDIZCOP Lino Angiuli è nato (1946) e vive in Terra di Bari, dove ha diretto per la Regione Puglia un Centro di Servizi culturali. Collaboratore della Rai e di quotidiani, ha partecipato a fondare riviste letterarie, tra cui il semestrale «incroci», che condirige. Numerosi i libri di poesia in lingua italiana e dialettale e molti i suoi lavori sul versante della valorizzazione della cultura popolare. Nella collana “Licenze poetiche” dell’editore Nino Aragno sono già apparsi Un giorno l’altro (2005), L’appello della mano (2010), Ovvero (2015). La sua produzione poetica, oggetto di tesi di laurea e di corsi accademici, è considerata anche nell’ambito di manuali scolastici ed enciclopedie.

Lino Angiuli
poesie da “Addizioni” 
Nino Aragno editore, 2020

 

Uscita editoriale 

*

Primo quarto

Amore è quando ti attecchisce un gelso in fronte
che i nomi se ne vanno camminando a due a due
il prima e il poi sono occhio e croce la stessa cosa
pure il broccolo tiene in corpo qualcosa da dire

Pure il broccolo tiene in corpo qualcosa da dire
perciò amore è dove gli occhi vedono solo occhi
dove la cincia si mette un marzo allegro in testa
e un mercoledì del calendario sa indossare il rosso

E un mercoledì del calendario sa indossare il rosso
ma amore non è sempre quello che si dice amore
perché a volte si mette addosso certe robe di lusso
mentre sotto la canottiera è tutto macchie di paura

Mentre sotto la canottiera è tutto macchie di paura
e ci vogliono più di centanni per sgamare il trucco
se poi quando ti sfruscia tu non riesci a indovinare
lui allora tira dritto giacché tiene i minuti contati.

*

Vespro

Dentro un giorno speciale da segnare in rosso
perché sono riuscito a chiacchierare col basilico
brindo con mezzo bicchiere di crepuscolo e mi
getto nel golfo di una sera più ingenua che mai
prima di stendermi scarpettutto nella morticella
che alligna azzurrognola tra i sogni apparenti

Che alligna azzurrognola tra i sogni apparenti
coltivati insieme con le cento creature orticole
che mi vogliono un granbene come fossero lei
allentano il morso di alcuni malanni stagionali
e stagionati quali certe notizie da mappamondo
veloci a raggiungerci in sella ai fili del telegrafo

Veloci a raggiungerci in sella ai fili del telegrafo
per dire in fondo sempre le stesse cose nostre
quand’ecco invece i raggi del penultimo sole
in ginocchio davanti ad un ricordino da niente
a recitare il salmo del quattro per quattro sedici
infilano l’aria in corpo come in una cruna d’ago

Infilano l’aria in corpo come in una cruna d’ago
santo subito il crepuscolo con la sera appresso
santi il fagiolino d’ogni razza e la bietola nubile
che traducono tutte le sementi in mille lingue
durante la messa cantata dell’orario vespertino
a conti fatti qui mi fermo qui mi firmo in bianco.

Parola di cappero

Nota dell’autore

C’era una volta un impero fatto di/da uomini, anzi ce ne furono due, anzi… cento, di cui è rimasta solo qualche memoria tra molte rovine da fototurismo, dove dovrebbero recarsi in pellegrinaggio tutti gli aspiranti imperatori della Terra o di condominio, che generalmente ignorano la traduzione di memento mori. E c’era una volta quello che tutti i manuali scolastici chiamano Umanesimo: uno dei tanti sforzi compiuti dall’homo occidentalis nel tentativo, appena riuscito, di caricarsi sulle spalle il peso del proprio destino e creare un mondo… a propria immagine e somiglianza.
Nel frattempo: scoperte, invenzioni, viaggi di ogni tipo, opere d’ogni genere, filosofie, governance prodotte nell’illusione di viaggiare verso quelle “magnifiche sorti e progressive” stigmatizzate da una solitaria ginestra per bocca di una grande mente capace di mettersi a nudo di fronte all’infinito e ai suoi “sovrumani” silenzi, registrarne il battito segreto e tradurlo in magiche parole.
Bene: tutta questa roba, tutto questo cammino detto “civiltà” ha riempito e riempie i molti tomi dell’enciclopedia umana, che, evidentemente, non può affatto coincidere con il libro aperto del cosmo. Infatti, il discendente di Adamo ed Eva ancora si sorprende nel verificare che non è lui la misura dell’universo mondo e quasi mai s’addormenta rammentando di abitare un minuscolo granello di sabbia di cui fa uso sconsiderato e cronico abuso.
Comunque sia, vuoi o non vuoi, egli non si è spostato dal centro del proprio mondo, prendendo alla lettera la fabula biblica che lo incoronò specie dominante. E così accade che, quando si comunica tra umani, si parla sempre di fatti umani; quando si ascolta la radio, si sente sempre la solita solfa umana; quando si agisce, si agisce da umani verso altri umani (chiamati non a caso “simili”); quando si scrivono libri, si scrive soprattutto di avvenimenti e questioni umane alla luce di concetti e parametri umani: uffa!!!
Di conseguenza, quando si intercettano creature dissimili, le si riporta subito alla visione, alla mentalità e ai bisogni dell’uomo. Vento mare cielo ulivi stelle piante formiche fanno da contorno e da fondale alle gesta dell’homo due volte sapiens, ancora ipnotizzato dalla potenza della clava e sempre a caccia di sicurezze e religioni a buon mercato in grado di curare la sua ontologica e biologica paura della morte.
Da questo punto di vista sono state generate, tra l’altro, la geografia antropica, l’antroposofia, l’antropologia, l’antropomorfismo… e pure l’antropofagia, assai diffusa sotto forma di homo homini lupus: tutte manifestazioni di una “civiltà” antropocentrica, che ha violentemente cancellato culture e pensieri altrimenti e diversamente fondati sulla relazione con la madreterra e il padrecosmo!
Non a caso, quando un’altra grande mente si è spinta ad osservare con “sospetto” e distanza la vita, ha intitolato le sue riflessioni Umano, troppo umano. Si chiamava Federico e viveva in Europa, l’Europa da cui erano nati anche Cortés e Descartes.
Insomma, gira e volta, volta e gira, l’essere cosiddetto umano ha molte difficoltà a spostarsi dal proprio ombelico, a centrifugarsi o decentrarsi, a mettersi nei panni o meglio nell’occhio di un’altra creatura, né intende mollare questa posizione protagonistica che pure gli è costata enormi tragedie e tragiche distruzioni prodotte dalle non poche tribù di umani o “upiedi” che dir si voglia.
E allora? E allora parliamoci chiaro a tu per tu. Chi sa, forse, probabilmente, se tu provassi a lasciare questo apparente privilegio, chi sa, forse, probabilmente potresti rivedere la tua condizione, la tua storia e potresti viepiù meditare sulla consistenza della tua esistenza ‘terrena’, restituendo a questo aggettivo il suo significato letterale. Chi sa, forse, probabilmente, a due passi dal miracolo di un carciofo o di una rosa intenti a pollonare, smetteresti di dire “l’uomo e la natura”, come se si trattasse di due ambiti diversi anzi che dello stesso “regno” di cui, peraltro, non sei certo tu il monarca, come continuano a sussurrarti l’arcobaleno, il tramonto, l’orizzonte e come ti gridano nell’orecchio, periodicamente, il terremoto, il tornado, lo tsunami. E aggiungeresti un accento a quella e congiunzione.
Chi sa, forse, probabilmente, passando dal sogno dell’Umanesimo (ché di bel sogno si tratta) a quello del Vegetalesimo (ché di bel sogno si tratta), potresti imparare la fresca lingua del basilico, ne sapresti ascoltare i prodigiosi fatti (fatti con i quattro elementi principali: terra, acqua, aria, sole) e potresti esercitarti nell’arte del silenzio per ascoltarne la voce e comprenderne il senso. E capiresti che i miei cento bocciòli non sono altro che le cento parole, pronunciate in madrelingua capperese, con le quali anche io creo discorsi visioni racconti poesie, mentre lavoro a mandare avanti il mio prolifico e premiato capperificio. 
Ti invito, quindi, a non dire sul/del cappero ma a lasciarmi dire e a lasciarmi essere ciò che sono fino in fondo, fino al fondoterra di cui sono vivace banderuola; non prendermi a tuo uso e consumo ma permettiti di farti prendere da me fino a poter indossare il mio stesso sguardo. Ti invito, anche, ad imitare le mie fontane color verde che bisbigliano verdemente e verdeggiano nell’occhio del cieco passante per ridargli la vista; apprendereda me che si può seccare e si può risorgere perché tutte le creature animate tengono in tasca un certo numero di vite da seminare e coltivare, che all’amore la morte non gli fa impressione alcuna, che si è uguali e diversi nello stesso tempo, che basta poco per dare da campare dignitosamente a tante foglie e a tanti figli… e altre verderie, verdaggini, verditure, verdimenti, verdazioni a portata di cuore, al cui calore potrebbero diventare ver(d)ità. 
Ti invito, infine, a scambiare la tua posizione con la mia, a stare e a starmi non al di sopra ma di fronte o al lato per pregare insieme: ogni ramo un salmo (il mio), ogni bocciolo una parola (la mia), ogni foglia un versetto (il mio). Adesso prendi in mano un silenzio senza romperlo, affidalo al vento, mentre ti getti a corpo morto nel cerchio magico del presente e lasci che io ti raccolga per insegnarti cos’è l’ecosofia, perché io sono il cappero tuo e non avrai altro cappero al di fuori di me. 
Allora, ciao Umanesimo, cerca di farti un po’ più in là e di passare dall’ego all’eco grazie a una sola consonante. Te lo dico per il tuo bene; parola mia!