Libertà e norma: nostalgia di un desiderio, di Eleonora Rimolo

0626KOUNELLIS1 master1050Libertà e norma: nostalgia di un desiderio
di Eleonora Rimolo

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Fate che alla fine di questo prato ci sia altro prato spontaneo o indotto
vi prego, che possa guardare e continuare
fate che ci siano farfalle o spegnetele vi prego oppure
fate che le farfalle sembrino vive e in ottima
forma che lo siano tutte
non voglio vedere nulla a terra vi prego
quello che vedo sembra strano fate che sia bello
vero che dopo c’è una luce più bassa ma più naturale?
ho lasciato il mio amico lontano e al sicuro a lavorare ora ho solo brividi
amici fate che possa vedermi così lontano
Fate che dopo il prato ci sia un mare o una montagna colorata oppure
una città la mia città non so quale fate che nessuno mi veda che nessuno
si chieda perché sono lì fate che siano tutti gentili vi prego tutti gentili e che se ci fosse stato il mio
amico sarebbero stati gentili anche con lui
fate che dopo la città non finisca o se è mare e montagna non finiscano
che verso l’orizzonte sia regolare che sia grigio che il sole si veda appena
ma non è quello il bello che mi aspetta
fate che possa stare immobile come una statua fate che il mio corpo come una statua sia portato fate
che possa essere questo se lo voglio essere fate che possa sorridere senza sorridere perché so di poterlo fare e perché so quanto prato c’è ancora

Federica Gullotta (M. de Freitas – F. Gullotta, Edb Edizioni 2019)

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– Allora cosa devo fare se mi calpestano?

E io dopo che mi avevi posto la domanda
indossai una bella camicia da maestra, inforcai gli occhiali
e guardandoti con fare austero e persuasivo
ti consigliai di attenerti strettamente al tema del filo d’erba
che sebbene tante volte è calpestato
sprigiona sempre con naturalezza il suo profumo
così alla fine ciò che rimane
è soltanto una viva e inebriante bellezza.

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Ora è tempo di iniziare a fare scuola della terra
osservare le zolle che si alzano
e sentire le folate di vento che riempiono le spighe
e arrenderci alle stagioni che cambiano
aspettando che l’inverno passi
per vedere il filo verde crescere
e dopo il disgelo diventare grano.

Ilaria Grasso, da “Epica quotidiana” (Macabor, 2020)

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libertà va cercando, ch’è sì cara, / come sa chi per lei vita rifiuta.
Dante, Purg. I, vv. 71-72

Se è vero, come dice il poeta Adonis, che la letteratura è trasgressione ma anche conoscenza essenziale, perché esiste nel mondo ma ha anche la possibilità di creare e ricreare mondi, di reinventarli, allora è possibile in questo momento pensare alla reinterpretazione di una parola nodale per l’universo letterario dantesco, che è libertà. È decisamente una voce basilare anche per il nostro vocabolario interiore in questo momento storico, e forse particolarmente in queste ultime giornate: Catone l’Uticense, nel I° canto del Purgatorio, in nome della sua ricerca della libertà civile e politica sceglie di darsi la morte pur non di non vedere al potere Cesare, e di conseguenza assistere alla completa distruzione dei suoi ideali repubblicani, per i quali aveva combattuto lungo tutto il corso della sua esistenza. Egli aderisce pienamente, con questa soluzione, alla Legge del suo Desiderio, anche se ciò significa andare incontro ad una perdita, ad uno sconfinamento, ad un abisso: il suo è un gesto totalmente tragico e antidialettico, solitario, che lo porta alla morte e all’annullamento del Sé contro ogni concezione utilitaristica dell’esistenza. La sua è una decisione inflessibile che diventa, di fatto, destino. Dante, invece, è un uomo che cerca la libertà dal peccato e la sua idea di libertà fonde assieme Legge e Desiderio: egli la intende come libertà morale, il cui fondamento è il liberto arbitrio, ossia la capacità di discernere tra il bene e il male. Questo libero giudizio deve fondarsi necessariamente su due forze che devono coesistere ed essere in equilibrio: la volontà, la virtù che vuole – e che spinge alla realizzazione del proprio obiettivo, e la ragione, la virtù che consiglia – e che fa viaggiare parallelamente il desiderio di libertà con l’adesione alla norma. Dante si inchina, su consiglio di Virgilio, con deferenza dinanzi a Catone: sintomo, questo, di rispetto e di profonda considerazione verso il gesto dignitoso ed estremo dell’Uticense, anima destinata al Paradiso, che però guida la sua mano in maniera apparentemente illogica verso il suicidio, e quindi verso la rinuncia alla beatitudine eterna.
Nonostante questo, però, Dio lo pone alle soglie del regno della salvezza come esempio di perfezione umana, a cui altro luogo non si conviene che il confine alle falde del monte del Paradiso terrestre, perché egli è un uomo naturalmente perfetto, e il suo esercizio delle virtù cardinali gli ha permesso di raggiungere la vetta più alta a cui poteva aspirare l’umanità antica prima della rivelazione.
Catone è la figura in cui Dante attua uno dei lati del suo ideale etico: la rigida rettitudine, l’adempimento dell’alto dovere delle leggi della Natura, che per Dante è sinonimo di Dio, in quanto Natura naturata il creato da Dio. È in lei il nucleo dell’essenza umana ed è solo accogliendo e non violando il complesso delle leggi naturali che è possibile ricongiungersi alla propria agognata libertà. Ma qual è adesso il nostro rapporto con la Legge del nostro Desiderio? Quale il nostro bisogno di aspirare alla Natura, alle sue leggi, indipendentemente dagli ideali che la sorreggono dentro ognuno di noi? Il pensiero quasi ossessivo di questi giorni, che emerge dalle scritture e dalle narrazioni più disparate, è quello di riappropriarsi della natura, dei suoi spazi, dell’ambiente che ci circonda e in cui siamo immersi e che non sempre amiamo rispettare, ma che ora più di sempre ci accorgiamo che manca, che è assente – quindi indispensabile. L’effetto di massa del virus, al di là del numero di persone che debilita o che purtroppo uccide, sta nella paralisi relazionale e sociale della collettività. Adottando una strategia della gradualità che – cito il Corriere della Sera – “si basa sulla convinzione che solo un sentimento profondo di paura diffusa potrà rendere tollerabile una forma così severa di reclusione sociale” il Paese è stato trincerato, i contatti umani tranciati di netto, il rapporto con la natura vietato. Cavalcare l’onda lunga del terrore è una strategia che rompe ogni schema sociale, che mostra la viltà di un popolo ormai malato di passività civile, completamente separato da tutto ciò che è sintomo e causa di vita, e non solo di mera sopravvivenza. Certo la ricorrenza appena trascorsa del 25 aprile e l’annuncio di una imminente fase2 ci mettono di fronte alla possibilità di un rinnovato contatto con i nostri paesaggi, con la terra abbracciata dallo sguardo del soggetto che guarda, e si sente osservato, ripristinando una positiva e fondamentale relazione tra l’interno e l’esterno, tra Io e l’Altro. E se è vero, come dice Leopardi, che i moderni con la civiltà e con la ragione si sono allontanati dalla natura e quindi scoprono maggiormente la propria infelicità, è forse pur sempre preferibile provare scientemente dolore a causa del contrasto tra realtà e idealità che vivere in una sospensione della coscienza, in una forzata sottomissione all’istinto animale del “primum vivere”. È in fondo di questo che ci parlano i tre testi qui proposti: Federica Gullotta, con il suo invito collettivo a “fare”, ad “agire” verso la natura, ci prospetta la possibilità di una “social catena” che ci spinga con decisione fuori da questo limbo spoglio in cui siamo stati confinati. I suoi versi aprono spazi di paesaggio, connettono il prato, la farfalla, il mare e la montagna alla dimensione spirituale dell’uomo, che soltanto nel pieno rispetto e nella piena accoglienza dell’alterità può “sorridere senza sorridere”, perché, e di questo credo siamo tutti sicuri – o perlomeno speranzosi, “so di poterlo fare e perché so quanto prato c’è ancora”. Ilaria Grasso propone nei suoi due testi una partecipazione alla cosiddetta “scuola della terra” – perché è solo dall’osservazione della natura e delle sue leggi (il filo d’erba che non si spezza anche se calpestato ed emana il suo profumo, e poi diventa campo di grano, “le zolle che si alzano”, “le folate di vento che riempiono le spighe”) che può nascere letteratura, se è vero, come dice Hugo, che i poeti hanno dentro di sé un riflettore, l’osservazione; e un condensatore, la commozione. Non c’è poesia senza vita, insomma, soprattutto quando la collettività è chiamata quotidianamente a rispondere ad un numero cospicuo di emergenze che ci vedono protagonisti attivi, e a cui dovremmo rispondere collettivamente. La poesia può quindi oggi spingere ad una riflessione comune, a dei motus animi collettivi, insomma ad un qualsiasi sommovimento dello spirito che possa restituire la voce ad un mondo ora embrione, isolato e insoluto, in attesa di nuova linfa, scongiurando il pericolo di piombare in un’“esistenza inautentica”, come la chiamerebbe Heidegger, perché completamente inaderente alla nostra autonoma ricerca della libertà.


Nell’immagine Jannis Kounellis’s “Untitled (12 Horses),” recreated in New York.