La vita desolata di Eleonora Rimolo: Prossimo e remoto. di Carlo Di Legge

La vita desolata di Eleonora Rimolo: Prossimo e remoto.
di Carlo Di Legge

La raccolta si apre con la sezione del microcosmo, in epigrafe i versi di Pasolini: la vergogna – è tale, che bisogna “essere folli per essere chiari”.
Si articola attraverso tre sezioni, la prima già menzionata e la terza a quella simmetrica, macrocosmo appunto, piuttosto ampie, con l’intermedia isola, alquanto breve rispetto alle altre due, con i suoi sei componimenti.

Non si può leggere Prossimo e remoto, edulcorando il messaggio che, come ogni vero libro di poesia, esso porta. Ma, obbedendo alla strada indicata dal titolo, come mi sembra voglia letto; anche se il vissuto di ogni lettore interferisce nella lettura, è ovvio, ma allora deve parlarsi di approssimazione al libro. Allo stesso tempo faccio una proposta di prima schedatura che mi pare significativa.
Parafrasando il titolo dell’ autore inglese, si dovrebbe dire: La vita desolata di Eleonora Rimolo. Cosa autorizza tale lettura? Ma tutto il contesto: ovviamente. P. e. Microcosmo (venti poesie, pp. 5-24) inizia con, a p. 6, “l’amore che non parte” e immagini di rotaie, treni, stazioni ferroviarie: nell’immaginario collettivo, figure-simbolo di ciò che passa, la vita fugace e instabile; a p. 7 “oggi una pena pende dalle nuvole larghe”; a p. 8, entrando in camera d’albergo, “tu non c’eri” sebbene vi sia “un corpo semplice”; a p. 10, fame a cui un mini-simbolico cane ogni volta deve ritornare. Il ricordo di immagini cancellate porta a dire “cosa sono gli anni” (p. 11, in corsivo) e si potrebbe continuare, la lista elenca ogni aspetto manchevole e anche sgradevole del vivere.
Comunque, anche se si parte dalla fine, ovvero dalle notazioni all’apparenza aperte, come squarci di possibilità e di speranza: “lo giuro che vi amo” (p. 61), “l’unica certezza dell’essere vivi/ è questo amore che divide che moltiplica e non divide” (p. 62) , “voglio essere madre anch’io” (ivi) –, tuttavia necessita vedere, perché resta proprio impossibile fare diversamente, che tutto il libro dice la vita di-sperante e degradata, quel degrado di cui i viventi umani e gli animali, le cose e i vegetali (cfr. 28, 46…) sono specchio e figura.
Solo alcuni esempi di cui quasi ogni pagina è piena: presenze morte che spiano, destino avverso, nullità delle fasi d’esistenza, degrado nel paragone all’animale (cfr. 15) e vegetale (cfr. 42, 48) o del paesaggio che racchiude e non lascia riemergere (cfr. 14, 33) o della caverna (cfr. 56), degrado nel tempo (cfr. 16), del tempo che non scorre (cfr. 23), dello spazio-tempo (cfr. 30), presenza o imminenza della morte (cfr. 26, 33, 47) e insufficienza della vita (cfr. 53, 59, 60), guerra fuori, difficile morire quando/come si vuole, ma morire per un padre (con l’ironico “ancora”? – p. 51), lamento (ululare?) stonato delle sirene, famiglie tremanti nel freddo, un padre mancato dal “sorriso/che da sempre ti lava la faccia” (p. 36), sfascio allucinatorio delle cose (p. 37), erosione delle costruzioni (p. 38) spavento (p. 43, 45), dolore (p. 57), parola o resto come d’un fossile (cfr . 44) e resto infinito, inesauribile (alone) d’ogni vivente (cfr. 60) …
A volte la ricercata provocazione delle immagini, l’intenta sgradevolezza portata ai limiti del respingente, le figure feroci (cfr. 35) usate, lasciano luogo al piacere della grande immagine.

Di rado, molto di rado, anche questo si presenta, una lirica che vola più alta della freccia nel febbraio:
“Vorrei pensarla anch’io questa giornata amico mio/come freccia senza bersaglio lanciata nel pomeriggio/che non conclude mai la sua discesa ma vive alta/nel sogno della durata: è difficile dire quando/questa luce andrà via finché il riflesso negli occhi/inganna e sembra eterno un febbraio…” (p. 50).

Di conseguenza occorrerà dire: nonostante le finali parole o figure amore, famiglia, maternità, la questione abissale della vita secondo questo messaggio non può cambiare.
E allora subentra la lettura altra, compresente nel titolo, quella del remoto, della remota umana sapienza che sempre è presente al verso di Eleonora Rimolo.
Che è visibile nella presenza del ritmo e del metro, di solito evidente, come usa chi ha scuola delle antiche lingue mediterranee.
Che sta nella forza dell’alterazione, l’archetipo adombrato da De Angelis nella postfazione. Arche-tipo: ciò che non varia nelle epoche della storia e tende a restare o a tornare.
Che è l’avviso presente nella citazione di Qohélet 63, tutto è vano.
O l’antichissima sapienza, per cui si racconta di Sileno maestro di Dioniso, sprezzante dei beni ma non dei piaceri terreni, il quale, interrogato sulla verità, risponde che la cosa migliore per un uomo sarebbe di non nascere affatto, e la meno grave è di morire al più presto.