“La via della poesia come incontro con l’essere”, Il linguaggio nella filosofia di Heidegger

A cura di Lucrezia Lombardo

Il linguaggio non è semplicemente ciò che nomina, non è un mero mezzo, né qualcosa d’interamente derivabile dall’esperienza. Esso e’ piuttosto il luogo in cui l’essere si dischiude e ciò che rende possibile l’esistenza del mondo. Noi siamo nel linguaggio, nasciamo nel linguaggio e di esso continuiamo a nutrici, non solo in senso culturale, bensì in quanto struttura innata nell’uomo, che ne mette in luce la tendenza a nominare le cose e a conferire ad esse un significato che oltrepassi la loro causale presenza su questa terra. Secondo Heidegger, infatti, le parole sono il luogo che rende possibile la realtà stessa del mondo. “Solo dov’è linguaggio vi è mondo”, scrive il filosofo nell’opera “Holderlin e l’essenza della poesia” (1936), come a sottolineare la portata ontologica del linguaggio in quanto “grembo” in cui si dischiude l’essere.

Le parole, così, nel secondo Heidegger costituiscono non meri strumenti denotativi, ma realtà capaci di portare alla luce ciò che è nascosto, ovvero l’essere stesso. E proprio il problema dell’essere è il fulcro del pensiero heideggeriano sia prima della “svolta”, nell’opera “Essere è tempo” (1927), che dopo di essa. Eppure, se da principio il filosofo si preoccupa d’inquadrare  l’errore fondamentale della metafisica occidentale in quanto appiattimento dell’essere all’ente (entificazione dell’essere), nel periodo successivo alla svolta, Heidegger approfondisce, con maggiore incisività, il tema del linguaggio, sostenendo che l’uso assertivo di esso (uso tipico della metafisica e della scienza) non è in grado di cogliere l’essere e finisce a propria volta con il reiterare l’errore di fondo dell’ appiattimento  dell’essere (entificazione di esso). La ricerca è dunque ora rivota alla parola poetica, la sola capace di sottrarsi alla tendenza metafisica alla riduzione e alla nomenclatura categorizzante, che limita “l’orizzonte di senso” appiattendolo effimeramente alla mera presenza. Il potere evocativo della parola si identifica, così, col linguaggio poetico -né quello metafisico, né quello scientifico possono ormai bastare-, poiché solo la poesia riesce a portare alla luce l’essere dell’ente, senza tuttavia ridurlo a qualcosa di definitivo, bensì avvicinandolo e cantandone al tempo stesso l’assenza. La poesia rende sempre nuovo ciò che nomina, in quanto il suo nominare non è un definire ma un e-vocare, “un chiamare sacro”, simile alla preghiera, che mette in comunicazione la realtà degli enti e quella dell’essere. La poesia è difatti il modo originario con cui il mondo viene ”battezzato” dall’uomo e con il quale esso prende vita.

Questa revisione del linguaggio, che lo riveste della capacità di dischiudere i significati, viene elaborata da Heidegger a partire dalla svolta (Kehre) delineata nel saggio “L’essenza della verità” (1943). A partire dalla “svolta”, l’autore utilizza la poesia -specie quella di Holderlin, grande visionario- come emblema della possibilità di accedere all’essere degli enti e all’essere in sé. La parola poetica si fa difatti ponte tra enti ed essere, tra immanenza e trascendenza, in virtù del proprio “potere” evocativo: attraverso di essa il linguaggio non si applica ai significati, ma li genera. La poesia  non è dunque derivabile dall’esperienza, ma è l’esperienza a collocarsi nella parola, poiché solo a partire dal linguaggio essa prende forma. Mediante la parola è resa possibile l’esperienza degli enti e l’esperienza dell’essere, qualcosa che tuttavia non si fa mai cogliere in modo definitivo e che resta, in ultima istanza, comprensibile solo tacendo e svuotando il proprio ego. È in questo giaciglio di silenzio che l’essere si rivela e nel linguaggio poetico, nel vivere poeticamente, lascia la traccia più vivida. Con la sua analisi, Heidegger intende così spalancare la porta all’essere proprio a partire dalla poesia, via privilegiata e attività deputata a “portare alla luce ciò che è nascosto”, come l’etimologia  della parola – poiein – indica.

 

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Lucrezia Lombardo nasce ad Arezzo nel 1987. Dopo la maturità classica si laurea in Scienze filosofiche a Firenze con il massimo dei voti. Lavora quindi come curatrice, autrice di testi d’arte contemporanea e come giornalista, specializzandosi con vari corsi di perfezionamento e con un master in gestione dei beni culturali. Attualmente l’autrice scrive per alcune riviste letterarie internazionali, insegna Storia e Filosofia presso un liceo e collabora con vari atenei privati come docente di Storia della filosofia contemporanea, oltre ad aver conseguito una specializzazione triennale come Counselor psicologico a indirizzo psicobiologico. Dal 2020 Lombardo è co-direttrice e curatrice della galleria d’arte contemporanea “Ambigua” di Arezzo e si occupa di poesia da diversi anni, sia come autrice, che come redattrice (collabora infatti per la rivista letteraria italo-francese “La Bibliothèque Italienne” ed è responsabile del blog culturale del quotidiano ArezzoNotizie). Le sue raccolte poetiche: La Visita (Giulio Perrone 2017), La Nevicata (Castelvecchi 2017), Solitudine di esistenze (Giulio Perrone 2018), Paradosso della ricompensa (Eretica 2018), Apologia della sorte (Transeuropa 2019), In un metro quadro (Nulla Die 2020), Amor Mundi (Eretica 2021), con prefazione del poeta e regista Mauro Macario.

 

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