La poesia dialettale – da Atelier n. 19, settembre 2000 – di Giuliano Ladolfi

  1. La letteratura dialettale in Italia inizia la sua secolare tradizione nel Cinquecento, quando a proposito della questione della lingua fu accettata la proposta di Pietro Bembo: il fiorentino del Trecento e, in particolar modo, il Canzoniere del Petrarca e il Decameron del Boccaccio dovevano essere assunti come modelli della poesia e della prosa. Tale posizione diede ufficialmente inizio alla letteratura italiana (con recuperi precedenti) che unì, sotto il profilo culturale, la penisola divisa sotto l’aspetto politico e le diede la consapevolezza di appartenere ad un’unica tradizione.

Gli altri idiomi furono relegati al rango di dialetti, concetto inteso in accezione diversa a seconda delle varie epoche. Fino alla pubblicazione dei Promessi Sposi la koiné toscana al di fuori della regione d’origine si caratterizzava per tre elementi principali: a) veniva usata quasi esclusivamente nella comunicazione scritta; b) non era soggetta a variazioni; c) si limitava ad un lessico scelto. Si identificava, pertanto, nella lingua della cultura, appresa a scuola e mantenuta in esercizio sui libri, usata per trattare argomenti elevati, rigidamente estranea alla comunicazione quotidiana.

Il Romanticismo nel suo impeto patriottico e unitario avvertì l’esigenza di colmare lo iato tra espressione scritta e parlata e trovò nel romanzo manzoniano una concreta prospettiva di soluzione.

Dagli Anni Sessanta del Novecento per merito della televisione, della diffusione della cultura, dell’emigrazione interna, dell’aumento degli scambi interpersonali, più di metà della popolazione ha iniziato a usare l’italiano nelle relazioni quotidiane. Le generazioni nate in questi decenni raramente parlano il dialetto che per loro è diventato un vero e proprio idioma straniero.

Molteplici e varie sono le cause, differenziate anche dal lato geografico:

  1. a) la necessità di possedere uno strumento di comunicazione più esteso della regione in cui si vive;
  2. b) il pregiudizio scolastico che il dialetto sia la corruzione di un modello perfetto di lingua;
  3. c) l’opinione che il parlare in dialetto sia manifestazione di un comportamento rozzo e triviale e, contemporaneamente, l’espressione in italiano il segno di cultura e di emancipazione sociale, anche se si propongono situazioni contrarie: nel capoluogo lombardo è “snob” parlare in milanese;
  4. d) la convinzione che il dialetto sia povero di modalità espressive, perché non permette di discorrere di argomenti culturali, come filosofia o letteratura.

Al contrario i sostenitori del dialetto oppongono ragioni diverse:

  1. a) il dialetto è vivo, parlato, mentre l’italiano è stereotipato;
  2. b) permette un rapporto più stretto tra parola e cosa, non mediato da secoli di cultura;
  3. c) possiede termini vivaci, espressivi;
  4. d) ritrae la nativa parlata e la tradizione del popolo.
  1. Come elemento fondante del discorso non possiamo condividere la seguente divulgata definizione: «Il dialetto è una variante subordinata e per usi limitati di una lingua, circoscritta ad un determinato territorio». Non voglio né desidero entrare nell’annosa e mai risolta questione della differenza tra lingua e dialetto tentando di catalogare il sardo, il napoletano, il veneto, il piemontese. Mi si conceda la convenzione di indicare con il termine “lingua” l’italiano e al termine “dialetto” ogni altri tipo di espressione, ad eccezione dei “vernacoli” toscani, storicamente legati all’idioma ufficiale.

Il dialetto non è «una variante subordinata di una lingua»; non lo è né sotto un profilo costitutivo né sotto un profilo storico. Il piemontese, tutti le sue sfaccettature, non è nato come variante del toscano, ma ambedue vantano la filiazione diretta dal latino volgare, né è subordinato all’italiano, perché costituisce il modo di espressione di una popolazione che ha elaborato una sua civiltà.

In tutto questo discorso occorre porre un punto fermo: ogni idioma è espressione di una civiltà e cioè del «complesso delle istituzioni, competenze o credenze, modelli di comportamento e anche delle attività materiali che caratterizzano il modo di vita di un gruppo sociale» (Vocabolario della lingua italiana, Treccani). All’interno di tale impostazione non possiamo opporre a una cultura ufficiale una mancanza di cultura, ma solo una cultura diversa, che si è attuata in un linguaggio, in modelli comportamentali, in una visione del mondo e in particolari tradizioni, perciò ogni tipo di cultura possiede uguale importanza e dignità.

Il dialetto storicamente è stato il prodotto, il mezzo più efficace di trasmissione di una cultura contadina che, come afferma il grande antropologo Levy-Strauss, riflette la correlazione tra la struttura degli atteggiamenti e il sistema della sintassi della modalità di comunicazione del gruppo considerato.

I dialetti italiani, quindi, sono espressione di una civiltà contadina che è tramontata con il processo di industrializzazione degli Anni Sessanta, il quale, a sua volta, ha decretato il successo della lingua italiana “standardizzata”, come probabilmente la civiltà postindustriale determinerà il trionfo dell’inglese come mezzo di comunicazione del “villaggio globale”. Lo stesso toscano nell’evoluzione storica ha mutato la sua ragion d’essere perdendo al di fuori della regione d’origine la sua natura “dialettale”.

  1. Solo all’interno della civiltà industriale e postindustriale è oggi proponibile il dibattito sulla poesia dialettale. Ogni altra posizione sarebbe astratta. Diverse per condizioni storiche e culturali sono le posizioni non dico di Dante o del Porta e del Belli, ma quelle stesse di Pier Paolo Pasolini, di Virgilio Giotti, di Delio Tessa, di Biagio Marin, di Giacomo Noventa: la realtà socioeconomica è mutata trasformando anche la fenomenologia del dialetto.

Ne erano consapevoli Andrea Zanzotto, per cui il poetare in petèl acquista il significato di un ritorno alle origini, e Franco Loi, che usava il dialetto come mezzo lavorare sulla parola e per reagire all’asfittico lessico italiano.

Paradossalmente, proprio nel periodo della morte dei dialetti, si assiste ad una fioritura di pubblicazioni poetiche in tali idiomi. Molteplici possono essere le motivazioni, non disgiunte troppo spesso da un vezzo di preziosismi in vena nostalgica.

Non è possibile far risorgere il dialetto sic et simpliciter e tutti i tentativi, pur generosi, pur encomiabili, lo confermano. Neppure l’Umanesimo è riuscito a risuscitare il latino, perché privo di una forte motivazione capace di coinvolgere la totalità della popolazione, come è avvenuto nel secolo ventesimo per l’ebraico. È evidente, quindi, che il poeta dialettale contemporaneo si ponga in posizione decisamente diversa rispetto a chi ha usato il dialetto dal Cinquecento sino a metà del Novecento. Per le nuove generazioni scrivere in dialetto corrisponde a un’azione simile alla composizione in latino o in greco classico, con la differenza che lo strato più anziano della popolazione lo parla ancora. Non si tratta di disprezzare, ma soltanto di chiarire i termini della questione e lo fa una persona di lingua madre dialettale che ancora lo usa nella famiglia d’origine e nel cerchio delle amicizie infantili.

  1. La poesia dialettale possiede nel novero delle letterature mondiali uguale diritto di cittadinanza della poesia italiana. A mio parere, non è corretto considerare la letteratura in friulano, in veneto, in napoletano come una variante (troppo spesso) minore della letteratura ufficiale. La tradizione letteraria dialettale, infatti, ha diritto a una sua storia particolare, storia non solo di scrittori, ma anche di forme retoriche, che prevede scambi con la lingua della cultura ufficiale (ma quale letteratura europea non ha intrattenuto scambi con quella latina?), ma in assoluta autonomia.

Alla luce di questa convinzione mi pare deviante associare la produzione poetica in lingua con quella in dialetto di Pasolini, per esempio, e dedurre una spontaneità della seconda rispetto ai calchi retorici della prima, per il fatto che occorre esaminare preventivamente anche la tradizione poetica friulana orale e scritta prima di giungere alla conclusione. Chi, non appartenendo alla medesima comunità espressiva, potrebbe con sicurezza negare che un verso che appare spontaneo non sia ripreso da una locuzione o da un proverbio o da una canzone o da una filastrocca, tutte codificazioni retoriche secolari?

Si rende, pertanto, indispensabile non solo uno studio glottologico approfondito degli idiomi in via di estinzione, ma anche una ricerca filologica sistematica che produca diverse storie letterarie a cui ascrivere gli autori di idiomi regionali. Secondo tale impostazione, non parrebbe legittimo inserire in antologie di “letteratura italiana”, come l’ottima di Pier Vincenzo Mengaldo, poeti dialettali, a meno che sotto la dicitura Poeti italiani del Novecento non siano compresi gli scrittori in versi che sono o sono stati in possesso della cittadinanza italiana. Sarebbe importante conferire loro autonomia.

Se tra qualche anno il bilinguismo dei nostri giovani permetterà loro di scrivere indifferentemente in italiano e in inglese e, se qualcuno di essi si segnalerà nell’una e nell’altra espressione linguistica, le composizioni in inglese faranno parte della letteratura inglese e quelle in italiano di quella italiana senza escludere intrinseci rapporti.

  1. Il problema fondamentale affrontato in questi appunti non concerne la situazione passata, ma quella attuale. Non si vuole assolutamente mettere in dubbio l’importanza della poesia dialettale né quella del Novecento né quella dei secoli precedenti, la cui grandezza senza dubbio si riconosce, si cerca, invece, di porre in discussione il rapporto con il dialetto con le nuove generazioni che, nella maggior parte dei casi, si esprime quotidianamente in lingua. Questo non significa togliere al singolo autore la possibilità di addurre ragioni valide della propria scelta; in ogni caso le motivazioni dello scrivere oggi in dialetto sono diverse da quelle del passato, per cui occorre abbandonare i pregiudizi di natura romantica sulla poeticità dell’idioma popolare. Il dialetto, essendo la modalità espressiva di una civiltà estinta, corre il pericolo di far risorgere rigurgiti di Arcadia e di diventare manifestazione di intellettualismo.

Alla cultura letteraria rimane, in ogni caso, la grave responsabilità di conservare e di trasmettere ai posteri le testimonianze di un modo di guardare il mondo che ha caratterizzato la nostra storia per quasi mille e cinquecento anni. Se, come sostiene Heidegger, il linguaggio è la casa dell’essere, valorizzare la letteratura dialettale significa riscoprire le radici della nostra cultura e del nostro essere postmoderni.

Tra tutti gli esseri viventi solo l’uomo possiede un’ontologia “storica” e, se non la coltiva, egli regredisce allo stato belluino con conseguenze tremende per la sua stessa sopravvivenza: non ha futuro chi non ha passato.

Giuliano Ladolfi