La mia voce è l’afono squittio di un topo oltre l’angolo di un muro

La mia voce è l’afono squittio di un topo oltre l’angolo di un muro

di uno studio di registrazione insonorizzato in cui mugghia il growl di una band doom metal.

Le mie paure urlano lì dentro, truccate come rauchi cerberi infernali,

pronte a divorarmi dall’interno con le loro lingue di lava che fondono il costato.

 

La mia voce è la scala metallica che ronza, spensierata, dal bastone rullato su una ringhiera

da un’incosciente manina infantile che passa, mentre sull’altra si squaglia un gelato tre gusti,

fragola limone e pistacchio, come la bandiera di un’Italia edibile, succhiata avidamente

prima che lo sconquasso tremante di un martello pneumatico la capovolga a terra per lo spavento.

 

La mia voce è la tazza che un carcerato picchia contro le sbarre della sua cella

in una sorta di disperata protesta tiptologica che chiede solo un sorso extra di latte,

l’ultima razione di nutrimento materno prima del colloquio, prima che la rivolta

sia soffocata dal manganello della guardia che in un colpo la riduce in frantumi di ceramica.

 

Ma dov’è il sole?

Inquadrami astro giallo nel tuo mirino primaverile,

sparami addosso un po’ di luce che ne ho tanto bisogno:

l’inverno è stato lungo e ancora dura nel mio corpo.

 

La sera ancora mette i brividi ai miei progetti scalcagnati,

le rotule scricchiolano, disarticolate, nelle buche,

le caviglie calcificate dalle fratture faticano a salire le scale,

le anche irrigidite dalla solitudine hanno messo i paraocchi e non cercano più amici.

 

Ma c’è un ma in tutto questo dolore strascinato che mi segue come l’ombra di uno zombie,

perché questo sole che mi guarda è biondo come i tuoi capelli, amore,

brilla dolcemente come i tuoi occhi d’ambra

e illumina il mio cuore come il tuo sorriso.

 

Ebbene sì, cara poesia – ti parlo in confidenza come se fossi il mio diario –

ho una ragazza e non mi sembra vero.

Te lo giuro, non me lo sto inventando, qualcuno mi dice: «T’amo!»

Adesso, dopo quasi nove anni, nell’ora più buia, quando non sembrava più possibile!

 

Ma tu, cusquinha mia, sei questo,

un miracolo cleptomane che ruba le arance muffe cadute dal banco del fruttivendolo

e che in un soffio di brezza afroditica, contraddittorio come solo l’alito di una dea sa essere,

le fa risplendere come un frutto avvampato appena partorito dalla più calda estate.

 

Raccatta dunque la mia voce, amore, e prendila per mano. Tu, che da rockettara spericolata

incredibilmente la consideri sexy come quella iconica di Eddie Vedder,

sai lanciarti nelle voragini delle mie paure e fare bungee jumping con le mie corde vocali

trasformando col tuo peso di piuma uno squittio impercettibile in un canto epico e grintoso.

 

Nell’ombra mi sei spiraglio.

Nelle sere mi sei veglia.

Nell’inverno mi sei focolare.

Nel dolore, entusiasmo.