Katarina Sarić – Traduzione dall’inglese di Chiara Catapano

Katarina Sarić è nata in Montenegro nel 1976. Professoressa di letteratura slava e filosofia con master in scienze politiche, è attivista per i diritti civili montenegrini e scrittrice di letteratura socialmente impegnata. La sua attività letteraria si rivolge anche allo spettacolo e al teatro. Ha pubblicato 12 libri tra poesia, prosa, teatro e saggi, la maggior parte dei quali sono stati tradotti, premiati in numerosi portali e piattaforme letterarie.

Chiara Catapano nasce a Trieste nel 1975. “L’aria natia tormentosa” ne influenzò di certo carattere e scelte: il sapore inizi ‘900 della città, il cui orologio s’era fermato e che pareva una parentesi tra Balcani ed Europa, le ha dato la possibilità di crescere sentendo parlare per le strade e nelle botteghe tedesco, croato, serbo, greco. Traduttrice e poetessa, ha pubblicato due raccolte poetiche (Thauma ed.). Suoi articoli, racconti e poesie sono comparsi in riviste italiane e internazionali e tradotti in diverse lingue. Ha organizzato assieme ad prof. Andrea Aveto dell’Università di Genova la riedizione dei “Discorsi militari” di Giovanni Boine (Fondazione del Museo Storico del Trentino). Collabora in modo continuativo con la rivista internazionale “Traduzionetradizione” – http://www.traduzionetradizione.com/, con la rivista Poetarum Silva – https://poetarumsilva.com/, con l’Università di Atene, con diversi poeti greci di cui cura l’opera. Studia presso la scuola di Animologia Immaginale di Trieste. È giurato e traduttrice per il Festival e Concorso Internazionale del Castello di Duino. Ama tradurre. Ama il greco. E forse questo è ciò che conta, nella sua biografia. / https://catapanochiara.wordpress.com/.

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FLASH-BACK

Non sopporto i pomeriggi piovosi
il jazz e gli stessi flash-back ancora e ancora
quando sbirciando indietro, la nostra macchina dentro i tramonti, me arricciata sul sedile, le ginocchia flesse,
fumo al volo la sigaretta
inchiodata al tuo profilo alla tua barba di due tre giorni, a quella  fossetta sul labbro superiore,
al buffo capello sopra il neo del naso,

Non sopporto il chewing gum insapore
le fragole e lo scoppio dei palloncini che dolcemente stuzzica senza inibizioni
carezzandomi al semaforo le cosce
dove il traffico langue
e mi ciondolo
in acrobazie
la testa fuori dal finestrino
con il vento che mi scompiglia i capelli.

Sono rimasti annodati al dolore, e io non sopporto
le lacrime o i ritrovi lungo la via, le patatine da juebox
e il cappuccino dalla macchinetta del caffè alle serate di poesia
e sempre le stesse ferite che mi tagliano le gambe ad ogni nuovo passo,
oppure un amore a distanza.

Non sopporto questa maledetta debolezza che brucia ogni ponte,
inutilmente la sua disposizione
mi sbatte alla sbarra e mi schiaffeggia proprio sul divieto d’accesso
spruzzo di fango attraverso una ferita eternamente aperta
che mi riversa fuori una volta ancora
invece di uccidermi.

Non sopporto la pioggia
né il suono del jazz,
questi flash-back a intermittenza lungo binari immutabili, ancora.
Lo scoppio nelle tempie
e l’odore di bruciato sulla strada
sempre da quelle eterne ceneri.

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CONCHIGLIA

Quando ormai distesa sotto la scorza
lei
utero lacerato dai figli
la paura l’avrà attraversata
donna
madre
vita
raccoglierò l’orlo del vestito plissettato
e ci cucirò un cuore nuovo
per adattarci un evento solenne
come cucito sopra
questa faccia e questa foto
malata di anemia

– Ho bisogno d’aria

la forma della cavità mineraria
è rifusa nell’ultimo
ciclo alchemico
lacrime asciugate dalla culla
Quando il mare sputerà
le ultime ossa dei fossili domestici
io sarò seduta sulla spiaggia
spiumando pietre dalle pietre
in posa come la ragazza della cartolina
in quel cliché
incollato
e inevitabilmente sognante
di bianco
con quella ciocca d’amore sulla fronte
addolcita
mi poserò nella gloria dell’innocenza
della nuova nascita
mentre, in realtà, mi metterei a urlare
a distruggere lo scatto

– Ho bisogno d’aria

sotto le scale di Eracle
i tragici greci glorificavano parricidi
stupri
di madre
terra
donna
giustificati dall’ignoranza
morta è la mia vergogna
e nessuno è venuto
a visitarne la tomba
è finita dritta nella spazzatura
Quando lei s’alza e si allunga
polverosa
violentata
lacera
graffiata
terra
madre
donna
nell’ultimo grido
d’epica tempesta
che rimane senza fiato
Quando il padre e il fratello e l’amico se ne sono ormai andati
io ritornerò in quel nostro vecchio luogo
sotto il ponte di ferro
ritaglierò dal cemento i nomi rimasti incisi a lungo
li porterò via
in Africa
diventerò l’anello del tempo
un verso
che chiude il cerchio
lontano dalla terra dei nostri padri