Juan Gustavo Cobo Borda (Bogotá, 10 ottobre 1948-Bogotá, D.C., 5 settembre 2022)

Juan Gustavo Cobo Borda uno dei padri della “Generazione senza nome” della poesia colombiana ci ha lasciati

Juan Gustavo Cobo Borda (Bogotá, 10 ottobre 1948-Bogotá, D.C., 5 settembre 2022) è stato un poeta, giornalista e diplomatico colombiano.

Con “La Generazione senza nome”, si definisce il movimento estetico e culturale promosso dai poeti colombiani alla fine degli anni ’60. Il più grande contributo di questo gruppo di scrittori è la presenza di un “io” in ciascuna delle loro creazioni, cioè un sé poetico o narratore che rifletteva sulle parole ivi scritte, per le quali si ritiene che rinnovassero la prosa e la poesia colombiana.

Ho la testa piena di donne.
Tutte pazze.
Tutte così disperate
da avvolgersi nella musica
e ballare fino all’alba.
All’esterno, il riserbo della forma.
All’interno, le più inconcepibili bravate
pur di dondolarsi nella felicità.
Mi scoppiano le vene
al pensare quanto evocano,
come ridono,
come giocano con il fuoco,
lasciando sempre una porta aperta
per rotolarsi felici nel fango
e uscire da un’altra, a testa alta,
immacolate e pure come una magnolia.
Streghe tutte loro,
in una gioiosa sarabanda.

*

Tengo la cabeza llena de mujeres.
Todas locas.
Todas desesperadas
por envolverse en la música
y bailar hasta el alba.
Por fuera, la discreción de la forma.
Por dentro, las más inconcebibles villanías
con tal de hamacarse en la dicha.
Me estallan las venas
al pensar en cuanto sugieren
como riendo,
como jugando con fuego,
y siempre una puerta abierta
para revolcarse felices en el lodo
y salir por otra, la cabeza en alto,
indemnes y puras como una magnolia.
Brujas, todas ellas,
dichosas rumbo al aquelarre.

**

Poetica

Come scrivere adesso poesia?
perché non zittirci definitivamente
e dedicarci a cose molto più utili?
Perché aumentare i dubbi,
rivivere antichi conflitti,
impreviste tenerezze;
quel poco di rumore
aggiunto a un mondo
che lo supera e annulla?
Si chiarirà qualcosa con simile groviglio?
Nessuno ne ha bisogno.
Residuo di vecchie glorie,
chi accompagna, che ferita cura?

*
Poética

¿Cómo escribir ahora poesía,
por qué no callarnos definitivamente
y dedicarnos a cosas mucho más útiles?
¿Para qué aumentar las dudas,
revivir antiguos conflictos,
imprevistas ternuras;
ese poco de ruido
añadido a un mundo
que lo sobrepasa y anula?
¿Se aclara algo con semejante ovillo?
Nadie la necesita.
Residuo de viejas glorias,
¿a quién acompaña, qué herida cura?

**

La nostra eredità

Solo i vecchi in verità odiano con ragione.
Solo loro sono passati per il duro apprendistato
dell’inganno domestico
Oppongono così un’aria paternale all’usura dei giorni
e riescono a restare immuni
al tumultuoso disordine della febbre
la bocca piena di infiammazioni
sputando sangue e maledizioni
mentre le visite iniziano ad andarsene a voce bassa
e riprendono le loro chiacchere nella stanza vicina
cordogli e condoglianze.

*

Nuestra herencia

En verdad sólo los viejos odian con razón.
Sólo ellos han hecho el duro aprendizaje
de la trampa doméstica
Oponen así un aire paternal a la usura de los días
y logran llegar inmunes
al tumultuoso desorden de la fiebre,
la boca llena de flemas,
escupiendo sangre y maldiciones
mientras las visitas comienzan a retirarse, en voz baja,
y reanudan su charla en la habitación vecina:
pésames y condolencias.

**

Ho perso la mia vita?

Mentre i miei amici, onesti a più non posso
facevano cadere dittature
organizzavano rivoluzioni
e passavano, il corpo fatto a pezzi,
a far parte
della banale storia latinoamericana
io leggevo brutti libri.

Mentre le mie amiche, le più belle,
svanivano davanti a chi
indeciso, appena riusciva
a dirle quanto mancavano,
io continuavo a leggere brutti libri.

Adesso lo capisco:
in quei brutti libri
c’erano amori folli, guerre più giuste,
tutto quello che un giorno
dovrà redimere tante cause vuote.

*

¿Perdí mi vida?

Mientras mis amigos, honestos a más no poder,
derribaban dictaduras,
organizaban revoluciones
y pasaban, el cuerpo destrozado,
a formar parte
de la banal historia latinoamericana,
yo leía malos libros.

Mientras mis amigas, las más bellas,
se evaporaban delante de quien,
indeciso, apenas si alcanzaba
a decirles la mucha falta que hacen,
yo continuaba leyendo malos libros.

Ahora lo comprendo:
en aquellos malos libros
había amores más locos, guerras más justas,
todo aquello que algún día
habrá de redimir tantas causas vacías.

**

La colombia è una terra di leoni

Paese mal fatto
La cui unica tradizione
Sono gli errori.

Restano aneddoti
Barzellette da bar,
Forfora e bave.

Uomini che vanno al cinema,
Soli.

Sporcizia e parsimonia.

*

Colombia es una tierra de leones

País mal hecho
Cuya única tradición
Son los errores.

Quedan anécdotas,
Chistes de café,
Caspa y babas.

Hombres que van al cine,
Solos.

Mugre y parsimonia.

**

Juan Gustavo Cobo Borda
Opera poetica: Consigli per sopravvivere (1974), Sala da tè (1979), offerta sull’altare del bolero (1981), Russare al sole come una foca nelle Galapagos (1983), Tutti i poeti sono santi e andranno al cielo (1983), Tutti i poeti sono santi (1987), Almanacco di versi (1988), Disegni casuali che attraversarono i miei occhi (1991), Poesie orientali e bogotesi (1992), L’animale che dorme in ognuno (1995), Furioso amore (1997), La musa inclemente (2001), Guardare con le mani (2006), Poesie illustrate (2008), I poeti mentono (2009), Quando papà ha perso la guerra (2010), Poesie recenti (2011), Poesia raccolta (1972-2012).

 

GENESI ED ESODO
DELLA GENERAZIONE SENZA NOME

JOSÉ LUIS DÍAZ-GRANADOS

Alla fine del 1966 cominciarono ad affiorare isolatamente voci precoci nella poesia colombiana posteriori alla generazione Nadaista*. Sebbene i più giovani di questo gruppo -Jotamario Arbeláez, William Agudelo, Eduardo Escobar e David Bonells Rovira- fossero più giovani di Giovanni Quessep, Miguel Méndez Camacho, Elkin Restrepo, Fernando Garavito, José Manuel Arango e Jaime García Maffla; i nuovissimi poeti colombiani erano nati tra il 1939 e il 1949. Bonells Rovira, nato nel 1946, stava costruendo una specie di ponte tra il Nadaismo e la recente generazione ed era l’unico che aveva pubblicato un libro: La notte di Legno, editato nel 1965.

La sala di Lettere Nazionali, che portava il nome della rivista fondata e diretta dal romanziere Manuel Zapata Olivella, era all’ottavo piano di un palazzo nella Carrera 7ª con la via 20. Lì si leggevano poesia e racconti, frammenti di romanzi e conferenze letterarie di autori affermati e sconosciuti e, la catalana Rosa Bosh – coordinatrice culturale e moglie di Manuel- offriva cocktail settimanali, cui partecipavano i famosi e gli anonimi.

Tra il 1966 e il 1970 conversavamo lì con León de Greiff, Jorge Zalamea, Mario Vargas Llosa, Juan Rulfo, Manuel Scorza, Gabriel García Márquez, Álvaro Mutis e Álvaro Cepeda Samudio, ed altri, e ascoltavamo i primi testi di Óscar Collazos, Germán Espinosa, Luis Fayad, Hugo e Roberto Ruiz, Policarpo Varón, Isaías Peña Gutiérrez, Luis Ernesto Lasso, R. H. Moreno-Durán, Umberto Valverde, Roberto Burgos Cantor, Eligio García Márquez, Gerardo Azcárate Calero e Héctor Sánchez, tra gli altri.

In questa sala, in un cocktail di fine anno, mi si è avvicinata un’adolescente dalla frangia e faccia rotonda e vistosa come una mela, che con un gran sorriso mi disse: “Io sono Maria Mercedes Carranza e dirigo una pagina domenicale nel giornale El Siglo, chiamata Avanguardia”. Iniziò a spiegarmi che pubblicava poesie inedite di giovani autori e mi chiese alcuni testi. Era una pagina molto ben disegnata e lì per due o tre anni sono apparse poesie, racconti, saggi e disegni della più recente generazione di scrittori e artisti. Maria Mercedes e io in particolare, avevamo la stessa ammirazione per Che Guevara e per il film Deserto rosso di Antonioni e suo padre, il maestro Eduardo Carranza mi onorava con la sua amicizia e affetto, a tal punto che Juan Gustavo Cobo Borda una volta mi disse: “Io sospetto che tu sia il piedracielista** della nostra generazione”.

Juan Gustavo pubblicava assiduamente sulla Avanguardia. Era un giovane di 18 anni, dallo sguardo severo dietro i suoi spessi occhiali, che si era appena diplomato nel Liceo Cervantes. Maria Mercedes me l’aveva presentato durante il cocktail della premiazione del concorso “Riopaila” che se non ricordo male fu vinto da Hernando Socarrás per la poesia e da Oscar Collazos e Gabriel Restrepo per il racconto. Io rimasi finalista in quest’ultimo genere.

Cobo era un amico e compagno di studi giuridici del mio paesano Álvaro Miranda. Un giorno, lui ci citò nella rivista Arco, diretta dal poeta David Mejía Velilla, che pubblicava fascicoli a parte con testi di poesia. Mi avevano parlato del talento poetico di un giovane della mia età chiamato Augusto Pinilla e in un caffè vicino alla rivista ci siamo conosciuti e stringemmo d’immediato un’empatia sempiterna. Mesi dopo, Pinilla mi ha regalato l’originale del suo libro inedito: Fabbrica delle ombre.

Noi poeti ci riunivamo spesso, senza formalità, in casa di Cobo Borda, nella mia, in quella delle sorelle Cúellar Serrano e in quella di Miranda. Cobo viveva in una lussuosa dimora che si trovava nel cuore del Chicó e lì avevamo accesso ai libri più desiderati, rari e difficili, oltre che a deliziosi piatti e dolci e soprattutto alla più completa degustazione di pregiati liquori stranieri, proprietà di suo padre, il giurista spagnolo Juan Fernando Cobo Cavón. Un pomeriggio indimenticabile, Henry Luque Muñoz, David Bonells ed io, abbiamo prosciugato le riserve etiliche del professore.

Juan Gustavo era veramente generoso con i suoi pupilli poetici, era il leader del gruppo, nonostante fosse il più piccolo di tutti e pubblicava le nostre poesie in riviste colombiane e straniere.

Un pomeriggio, nella sua accogliente casa e sotto una pioggia torrenziale, ho conosciuto il giovane studente di diritto Darío Jaramillo Agudelo, sempre con l’impermeabile, che mi rimproverava la mia eccessiva passione per il vallenato*** di Escalona e il mio affetto per il padre. Lui era legato alla madre e devoto del tango.

Vicino al Chicó, nella zona de El Lago, avevano una ben fornita libreria chiamata “La Lechuza” il novellista in erba Luis Favad e il suo socio, l’avvocato falangista José María Escobar Navarro. Questo era un altro punto di incontro della precoce pleiade di poeti e lì abbiamo letto gratuitamente tutto Cortázar, tutto Neruda, tutto Apollinaire, tutto Jarry, tutto Fuentes.

Nel marzo del 1968 ho pubblicato Il labirinto, un poema sperimentale editato in “plaquette” che venne salutato con entusiasmo dalla nascente generazione. In questo stesso anno, hanno anche pubblicato i loro primi libri di poesia Giovanni Quessep, Jaime García Maffla, Álvaro Miranda, Elkin Restrepo, Miguel Méndez Camacho, Nelson Osorio Marín e il nadaista Jaime Jaramillo Escobar (X-504).

Miranda e Darío Jaramillo mi accolsero nelle loro case con profusione di poesia, aguardiente e la chitarra ammaliante di Dionisio Araujo Vélez. Scrissero bellissime recensioni e critiche su Il Labirinto, Germán Vargas, Germán Espinosa, Cobo Borda, Luis Fayad e Álvaro Miranda.

Nell’aprile dello stesso anno, Juan Gustavo ci invitò nel giardino di casa sua e lì amichevolmente, ci hanno fatto una foto che ebbe il destino di rappresentare una generazione senza nome, battezzata così dal poeta, giornalista e redattore culturale del giornale El Tiempo, Alvaro Burgos Palacios.

La menzionata generazione fece pubblica apparizione sulla rivista Lámpara, che dirigeva Fabio Hencker Villegas, ma la foto non venne pubblicata e invece si vide bellamente illustrata dal maestro Juan Cárdenas, che fece un disegno di ciascuno di noi, basandosi sulla foto. Dopo, credo che tutti ricordiamo con emozione i primi onorari che abbiamo ricevuto nella vita per dei versi: $200. Posteriormente, il riconosciuto poeta, pittore e novellista Héctor Rojas Herazo ha pubblicato nelle Letture Domenicali una pagina che riconosceva gli integranti della Generazione senza nome, intitolata Bozzetto per una nuova mappa della poesia colombiana.

Nell’ottobre di questo stesso anno vinsi il Premio di Poesia “Carabela” a Barcellona, per l’unico frammento in versi de Il Labirinto e nello stesso mese arrivò Neruda a Bogotá. Ma questa è un’altra storia.

Il giornalista Oscar Alarcón Nuñez, che dirigeva il supplemento Brújula a Santa Marta, pubblicò tra il 1968 e il 1970, poesie e articoli di Cobo Borda, Miranda, Pinilla e miei. Anche il poeta piedracielista e politico liberale, Darío Samper, pubblicò nostri testi di Pemán R e di Armando Orozco Tovar nella Hora del mundo e il supplemento a “Go-Go” del giornale La República. I novelli poeti e le compagne di allora -Juan Gustavo e Clara Cuéllar, David Bonells e Cecilia Escudero, Augusto Pinilla e la pittrice Nelly Rojas, Henry Luque Muñoz e Teresita Rodríguez, una giovane samaria, Álvaro Miranda e María Constanza Rodríguez, José Luis e Clara Samper-, andavamo felici sferzando per le vie di Bogotá, vagando per “La Piñata” in Chapinero e per “La Romana” in Centro, facendo giochi di parole, improvvisazioni, prese in giro e allo stesso tempo creando i nostri propri universi e scrutando influenze e identità alla ricerca di una verbalità particolare.

Erano gli anni ardenti dell’epoca hippy, la marihuana, I Beatles e I Rolling Stones, però anche della nascente Rivoluzione Cubana, il Che, Camillo Torres, il Vietnam eroico, la liberazione femminile, Verushka, e non c’era settimana in cui non facevamo commenti sull’ultimo film di Antonioni o di Buñuel (Zabrinsky Point, Belle de Jour) e i più recenti romanzi del boom (Cent’anni di solitudine, del nostro Gabo, I cuccioli, di Vargas Llosa, Libro di Manuel di Cortázar), sotto il luminoso orientamento del professore José Ramón Llanos, con la recente emozione di aver conversato con Luis Vidales in “El Pasaje”, Aurelio Arturo ne “La Romana”. E la precoce ammirazione per Mario Rivero, Giovanni Quessep, Miguel Méndez Camacho e Raúl Gómez Jattín, che salutavamo nel “El Colonial” di Chapinero con José Stevenson, Manuel Franco Posse, Germán Borda e Manuel Hernández; scambiando due o tre parole con Santiago García, Enrique Buenaventura, Marta Traba e Carlos José Reyes, in “ El Cisne” o prendere infusioni con Poncho Rentería ne “La Sultana” o aver tenuto una piacevole polemica con Jorge Zalamea sulle pagine del giornale El Espectador o aver rincontrato García Marquez in una fugace visita in Colombia, a Fanny Buitrago, a GOG, a Eduardo Mendoza
Varela, o complimentarsi con Alberto Duque López, Héctor Sánchez, Benhur Sánchez e Humberto Rodríguez Espinosa per aver ottenuto onorificenze nel Premio “Esso” per il Romanzo in quegli anni.

Ognuno ha seguito il suo cammino con più o meno riconoscimenti, però devo mettere in risalto una particolarità interessante: nella pienezza delle loro vite, gli integranti della Generazione senza nome hanno intrapreso con successo le loro carriere di romanzieri… Influenza del recente nato boom? È possibile. Però… Che verrà dopo?

da (Letture Domenicali de El Tiempo, Bogotá, 4 settembre del 1994)

*Il nadaísmo come corrente d’avanguardia è un’interpretazione dell’esistenza umana. C’è chi vede nel nadaísmo la versione latina dell’esistenzialismo. Il nadaísmo nacque nel 1960 come opposizione letteraria e filosofica all’ambiente culturale stabilito dall’ Accademia, la Chiesa e la tradizione colombiana, imparentato con vari movimenti delle avanguardie che si sviluppavano in modo parallelo in America Latina e nel mondo. Movimento il cui capo era Gonzalo Arango, il nadaísmo reclutò diversi giovani di differenti regioni del paese, che redassero vari Manifesti con le loro proposte e valutazioni del contesto.

** Pietra e cielo o piedracielismo è stato un movimento della poesia colombiana. Con il nome di Pietra e cielo, che evoca un libro di Juan Ramón Jiménez, si pubblicarono dei fascicoli di poesia, diretti dal poeta Jorge Rojas (1911-1995), quelli che iniziarono a collaborare più tardi avrebbero fatto parte del piedracielismo.

***Il vallenato è un genere musicale caratteristico della Colombia. Il suo nome proviene dal suo luogo di origine, ovvero la “Valle”, territorio in cui nacque.

*

SOLILOQUIO
SU UNA FOTOGRAFIA
La foto di gruppo: da sinistra a destra: Darío Jaramillo Agudelo, David Bonells Rovira, José Luis Díaz-Granados, Juan Gustavo Cobo Borda, Henry Luque Muñoz, Álvaro Miranda e Augusto Pinilla
(Bogotà, aprile del 1968).
ÁLVARO MIRANDA

Poeticamente ci assomigliamo in qualcosa? Beviamo forse la stessa marca di birra o di aguardiente? Abbiamo letto gli stessi versi? Forse una risposta alle domande precedenti non avrebbe nessuna importanza; sarebbe qualcosa così come un gioco d’azzardo per incontrare somiglianze, inutile certamente, la cosa più sicura di tutto, sarebbe nell’imprecisione che fiorirebbe come una verità senza senso. Allora si saprebbe che mai abbiamo corso per lo stesso verso, che mai abbiamo pensato nella stessa latitudine della geografia del cervello per fare o disfare una metafora. Perché allora questo motto di “generazione senza nome”? Forse perché qualche volta, per caso, necessità o volontà, ci troviamo totalmente, senza identità, sullo stesso pavimento di Bogotá, la città che ci ha accolto e solo due fra tutti quelli apparsi nella vecchia foto dei giovani, l’hanno avuta come luogo di nascita.

Sul finire della decade degli anni Sessanta avevano lo stesso disorientamento verso la vita, lo stesso desiderio di un nonsoché per la letteratura e in particolare per la poesia. Che disordine neurologico ci collocava la “P” di poeti, lettera scarlatta sulla fronte? Che daltonico suggerimento metaforico si era incrociato nella nostra iride? “Nessuno”, come disse Juan Gustavo Borda in una delle sue prime poesie, “ha avuto l’adolescenza desiderata. /Giovani animali che misurano le loro forze, che provano astuzie che li rappresentino, /il mondo, nonostante il suo pesare, seguiva lì”.

Il primo punto di riferimento comune della Generazione pendola, con la più grande imprecisione, sta nel fatto di essere stata per quei tempi e anche adesso, un gruppo di nati nella classe media, che si è proposta, come elemento aggiuntivo, di dire che c’era la necessità di “riferirsi a questa tradizione che è la poesia, dove cercavano di diluire il profondo disprezzo per chi scrive”. Alla fine, ogni poeta scopre che la poesia non è salvezza, ma il contrario, vuoto totale dove ognuno decide a modo suo di lanciarsi nell’abisso.

Quindici anni dopo aver posato come piccioni di poeti per il fotografo della rivista Lámpara, nel cortile della casa di Cobo Borda, il narratore Henry Cañizales descrisse con il “clic” di un’altra macchina, quella da scrivere, un micro racconto che intitolò alla “Generazione senza nome”, dove disse: “Visibilmente emozionati rimasero gli amici e parenti più vicini mentre la nuova classe posava soddisfatta per la posterità di un secondo flash, allargandosi da allora, fino a scoppiare con il maneggiare degli anni:

Questo che sta qui alla mia destra, è il mezzo stupidotto di tizio… Quello più dietro, ben al fondo, questo è nientemeno che caio… L’altro a fianco è il cervello sempronio e quello alto con gli occhiali, di fianco all’illustre tizio, assomiglia al defunto sconosciuto… e qui giusto, nel mezzo, non uomo, l’altro quello di seguito questo… questo… sono io, né più né meno”.

Per fortuna, a parte l’illustrazione di Dante con il suo naso da corvo e la sua corona d’alloro, nessuno ricorda il poeta per il suo volto in un dipinto o in una fotografia, ma per il libro che tra caffè e sigarette ha divorato nella sua solitudine; per una poesia che ha messo nella sua memoria come chi trascina una gallina per un’ala; per una metafora che ha assaporato come una buona bistecca, quando tutto il resto, nella vita, al passo del tempo, restava crudo.

Centocinque lontani anni fa da questo gennaio – febbraio del 2000, a Bocas de Ceniza, foce del grande fiume della Magdalena, nel mare dei Caraibi della Colombia, uno dei poeti di indimenticabili canti in lingua spagnola, il bogotano José Asunción Siva, era da cinque giorni con le loro notti alla deriva sul ponte del transatlantico Amérique di 8000 tonnellate e 6000 cavalli di potenza. La sua prua, come uno schiaffo d’acciaio, si è scontrato contro la roccia dell’isola Mayorkí. La notte e il mare oscuro colpivano con rabbia la struttura inclinata della nave. Nell’oscurità di stelle di scintillare salmastro, caimani del fiume e squali del mare circondavano il poeta e agli altri cinquanta passeggeri che erano saliti a bordo in Europa e in Venezuela. Già è affogato un maiale cui gli hanno legato una corda al collo perché creasse un ponte con la lontana spiaggia. I suoi grugniti sembrano sbuffare tra le fauci del vento che non smette di scuotere con la sua lingua umida il volto dei naufraghi. Il nostromo M. Brevet è l’altra vittima: ha voluto riscattare a nuoto una lancia che si era girata, però con una grande sfortuna perché adesso è il suo corpo che va e viene in una pozzanghera scarlatta che brilla sulle acque. Gli occhi e le fauci, uscite dalle profondità, si appagano con questo cadavere dalla pelle bianca. Il nostromo affonda, si riempie d’aria e rigalleggia, alla fine, vicino alla spiaggia dove i suoi marinai gli danno sepoltura. E più in là, nell’angolo dolce e salmastro delle acque che s’incontrano, si perde come luce di luna negli abissi, un baule con l’opera poetica e il primo romanzo che ha scritto il naufrago José Asunción Silva nel suo soggiorno a Caracas come segretario della delegazione diplomatica.

Quindici mesi dopo essersi salvato dal cimitero, il poeta bogotano si fa dipingere dal suo amico, il medico J. E. Manrique, una croce sul petto, nel punto esatto dove si trova il tic tac del suo cuore. Lì dovrà penetrare la pallottola del vecchio Smith & Wesson la notte della domenica del 25 di maggio del 1896. Il naufragio si compie nella sua totalità. Ma nella vita dei naufraghi continua e la poesia lo sente. C’è salvazione? Sì, l’esistenza e l’incertezza continuano perché la parola le calmi, le domini anche se artificialmente.

I naufraghi non sono solo nel mare, vengono anche nello specchio e nella immagine dello specchio. Nel 1970, Darío Jaramillo scrive in una delle sue prime poesie: “Parliamo da un naufragio d’ire, pestando su/ quello che abbiamo distrutto in noi, affermando /l’ultima rinuncia, l’ultima consegna, l’accettazione /incondizionata del silenzio. //pronunciamo una inconclusa litania di colpe /e disastri: /Abbiamo perso nuovamente. /Abbiamo lottato invano, acquisendo abitudini proibite; /reincidendo mille volte in abituali bestemmie. //Abbiamo enumerato vanamente i pronomi, vanamente cercando l’allegria. //Abbiamo visto in noi questo lussuoso disastro che morde /e distrugge e trascina i desideri e la notte”.

La poesia è stata quasi sempre un lusso improduttivo che morde con denti d’oro e di rame la vita e il dimenticabile. Qual è, dunque la fretta degli uomini per salvare dal nulla un violino, un do, un re, un bottone o uno scapolare perché non siano goccia di rugiada, fessura di vuoti nel fango?

Che verità senza senso, che passi sbagliati cercano i poeti, questa generazione, per scivolare nel fondo del mare e leggere pagine buttate di un racconto che solo hanno visto gli occhi di squali e caimani? Che suono vogliono trarre dal caldo silenzio per rinnovare l’eco dello sparo? Alcuni della foto hanno già iniziato la scrittura di racconti da poeti, come mai prima lo aveva fatto un gruppo generazionale che è partito dalla lirica come forma di comunicazione e sospiro.

La poesia è, ha detto Roberto Juarroz. Bisognerebbe aggiungere adesso: la scrittura è. Sia verso o prosa, verso in prosa o prosa versificata, la scrittura è. Forse per loro, Darío, il nostro, il nato a santa Rosa de Osos, ha precisato davanti alla necessità della scrittura: “Succede che inventiamo la nostra propria storia/senza sapere cosa c’è stato prima o chi ha gridato dopo, così, tranquillamente”. Sembrerebbe che un’ostinazione segreta ordinasse di continuare con la scrittura come se si trattasse di un vizio. Augusto Pinilla afferma: “non nego che nelle tue pagine /d’impeccabile poeta maldestro /ho trovato la chiarezza per il cammino”.

Nella poesia le lancette dell’orologio sono avanti. Il poeta va a questo ritmo accelerato sul tempo. Nella sua parola c’è l’anticipo di tutta la felicità e tragedia. Per questo, molto prima di ricevere come eredità il cuore e le mani di un paese, ogni volta più difficile da vivere, Henry Luque Muñoz nel 1980 ha potuto precisare il futuro: “Non hai costruito la casa, /cerchi il nocciolo all’ombra /e ti riconosci inutilizzato
/dallo splendore del riflesso della finestra. /davanti all’altare di polvere e silenzio/che potresti fare bensì soffiare nel fango
/e fare tu stesso il respiro della vita”.

A partire dai primi anni della decade dell’80, quattro poeti della generazione che appare nella foto, hanno scritto romanzi: Jaramillo, Pinilla, David Bonells, Díaz-Granados e Miranda. Sembrerebbe che hanno voluto sommergersi nel naufragio di Silva, in questo mare dove brillano gli occhi degli squali e la solitudine di chi scrive si fa molto più che infinita, segnati, forse, per quello che attraverso una poesia di José Luis Díaz-Granados sintetizza, come la carta e la funzione di uno scrittore in un paese come il nostro:

“Quando scrivi non ti leggono e quando ti leggono non esisti”

Poeti del ‘68. La generazione senza nome (1968-2018) Edizioni Arcoiris, Italia,2018
a cura di Federico Díaz-Granados
Traduzione di Antonio Nazzaro

Poeti del ‘68. La generazione senza nome (1968-2018) Edizioni Arcoiris, Italia,2018
a cura di Federico Díaz-Granados
Traduzione di Antonio Nazzaro