Intervista a Riccardo Frolloni (a cura di Michele Bordoni)

Riccardo Frolloni nasce nel 1993 a Macerata. Pubblica la plaquette Languide istantanee Polaroid (Affinità Elettive 2014) e Corpo striato (Industria&Letteratura 2021). Ha tradotto Sul non perdere le ceneri di mio padre di Richard Harrison (‘roundmidnight edizioni 2018) e Non praticare il cannibalismo, antologia dell’opera di Ron Padgett (Del Vecchio Editore 2021). È stato direttore del Centro di poesia contemporanea dell’Università di Bologna e ha lavorato per la School of Continuing Studies dell’Università di Toronto come lettore e assistente. Scrive per la rivista musicale ImpattoSonoro. Insegna italiano e latino nei licei.

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MB – Corpo striato (Industria & Letteratura, collana Poetica, 2021) è un libro che parla di un evento, la morte di tuo padre, che viene a prendere precise connotazioni fisiche, materiche, corporali, appunto. La presenza del corpo, già dal titolo, è centrale, e ho trovato molto interessante il fatto che l’appendice contente alcune tue fotografie ha il titolo di Apparato. La fotografia stessa, oltre a essere un tramite di un’assenza (seguo Roland Barthes), è anche un ancorarsi al reale, alla materia (alcuni “capitoli” del tuo libro sono chiamati Materiali), al corpo insomma. È un tentativo, tramite la scrittura, per fare quello che dici nella prima poesia, ovvero “non svenire ora, resta sveglio, svegliati”?

RF – Esatto. Scrivendo posso padroneggiare una materia scivolosa, o meglio, aerea come la morte, si riesce a rendere fisico qualcosa che fisico non è, cioè la morte. Noi vediamo le conseguenze della morte, ma il fatto in sé è inconsistente, e come tale è inafferrabile. Con la scrittura, invece, possiamo costruire tutta una infrastruttura intorno alla morte e narrare di chi resta, di ciò che era, e a volte, anche di ciò che è effettivamente la morte. In questo modo, grazie a questo controllo demiurgico, ci si tutela dal mulinello del dolore e si resta svegli, per quanto possibile.

 

MB – Un tema che spesso incrocia quello della morte è quello del movimento (“il movimento / che solo la morte può zittire” ; “era movimento quello che mancava a mio padre”). Il corpo striato del titolo, come ricorda Stefano Colangelo nella sua prefazione, è l’apparato di nuclei che regola il movimento e altre figure nel testo (Nilla ad esempio) ricoprono una grande importanza proprio in relazione a questo. Legato al movimento è l’elemento (mi verrebbe da dire l’archetipo) del vento (“Padre, dammi la forza, / fuori c’è un vento un vento un vento”), che atterrisce e spaventa. Nei capitoli denominati Sogni ho notato una interessante tensione fra l’elemento aereo del vento (in alcune poesie tu ti vedi nell’atto di spiccare il volo, di planare) e quello terreno della montagna (“la merda delle vacche”). Mi sembra che i Sogni abbiano un ruolo centrale nell’economia del libro. Suggestione pseudo-psicanalitica o un minimo ci ho preso?

RF – Hanno di certo un ruolo centrale, dato che è proprio nel sogno che io vivo il fantasma di mio padre o le tracce che lascia e che inseguo. Volente o nolente, nel sogno incontri chi devi incontrare, nel segno non hai possibilità di scelta, vivi ciò che c’è da vivere e basta. Perciò tutti gli elementi diventano parlanti, da quelli più insignificanti a quelli più eclatanti, fai pensieri sconnessi che dicono tutto o non dicono niente. I movimenti, nel sogno, sembrano più esagerati, sia in eccesso che in difetto, e allo stesso tempo estremamente effimeri e incontrollabili. Nel sogno anche chi non può più muoversi si muove, chi non può più parlare continua a non parlare, un silenzio che però dice molto.

 

MB – Verso la fine del libro, ai “capitoli” Sogni, Materiali e Movimenti si aggiungono quelli denominati Fasi  e Memoria (oltre a due poesie dal titolo Preghiera). In queste due sezioni ho percepito un certo influsso di alcune figure della teoria della letteratura (come il Blanchot del pensiero del “fuori” in alcuni passaggi: “La poesia non si può interrompere, le voci celesti assillano, e il dire in qualche modo qualcosa. Il poeta ha inteso questa parola, pensa io posso, ma pensare è scrivere senza bisbigli e la poesia dice gli esseri tacciono”) o proprio di alcuni concetti – se vogliamo – accademicamente riportabili sotto il dominio dell’analisi del testo, quali fiction e non fiction. Il tuo libro diventa così (anche) una profonda riflessione sulla letteratura in generale, sulla poesia in generale, sullo scarto fra ricostruzione letteraria e controllata (“Lo scrittore pare avere il controllo della sua scrittura”) del narrabile e impotenza di azione nella vita. Ti andrebbe di parlarne?

RF – Scrivere questo libro mi ha portato, per forza di cose, a ripensare il mio percorso e il senso dello scrivere. Non ricordo bene i giorni di scrittura di queste poesie, lo stato psicologico era quello, direi, di una “follia calma”, come quando sai che non sei agganciato alla realtà ma allo stesso tempo non sei neanche in un’altra realtà, si dice “tra il sonno e la veglia”. La poesia in prosa intitolata fasi racconta delle diverse fasi del dolore attraverso le fasi della scrittura, infatti passo da una prima fase più analitica, metapoetica e critica, all’ultima che è, di fatto, una poesia scritta in prosa, sconclusionata, caotica. Come scrivo nella nota finale, tutto il libro è, per forza di cose, una fiction o un’auto-fiction che dir si voglia: ovviamente non può ridursi mio padre nelle mie parole, così come io non posso auto-rappresentarmi adeguatamente, così come i luoghi, ecc. Mi interessa piuttosto intessere dei discorsi che si intrecciano, avendo la poesia come collante. In questo, la traduzione di Sul non perdere le ceneri di mio padre nell’alluvione di Richard Harrison è stata fondamentale. Qui il poeta ricorda il padre morente di demenza senile che recita in continuazione dei versi di Shakespeare al figlio, che è ovviamente il poeta stesso. Dunque morte e poesia, ma anche narrazione e auto-narrazione, in una sorta di passaggio di testimone e, allo stesso tempo, di manifesto poetico.

 

MB – La ferita al corpo striato del personaggio di Nilla appare come una metafora centrale del libro che non procede linearmente ma per salti, linee spezzate, voli, dirupi. Come l’occhio del ciclone che sta fermo al centro del turbinio, la morte immobile è al centro del movimento del tuo libro, sottraendosi di continuo alla dizione (“e non una parola”). Nella sezione intitolata Fasi parli in questi termini della morte: “Insistiamo in genere sulla causa accidentale della morte: incidente, malattia, infezione, tarda età, rivelando così una tendenza ad abbassare la morte da fatto necessario a fatto casuale. Ogni morte è la perdita di un mondo, ma c’è dunque un solo tipo di morte, la morte del tu, la morte in seconda e non in terza persona, l’esperienza della morte di secondo grado”. Mi torna in mente ancora un certo Blanchot sul Rilke del Malte, che parlava della morte impersonale nella modernità. Qui invece mi sembra esattamente il contrario; l’impersonalità della terza persona è sostituita dal tu. L’inserimento di personaggi della tua memoria, della tua casa, dei materiali della tua infanzia (“Manlio lu ferraccià”) mi pare funzionale a una dizione di secondo grado della morte, una sorta di familiarizzazione con essa invece di una liricizzazione della stessa, di una sua allegorizzazione. Ancora suggestioni?

RF – Ho ripreso esattamente da Blanchot, ma anche da Kirkegaard e da Bauman. Nel libro si parla della morte del tu, perché la morte del terzo non ci tocca. Il terzo può essere «il terzo che ci cammina sempre a fianco» di Eliot, un fantasma dunque, ma non ci tocca. Invece qui volevo mostrare la morte dell’interlocutore primo, di quella persona che è totalmente altra da te, ma con la quale hai un dialogo, verbale o non verbale che sia. Ovviamente, la morte del tu, implica la sopravvivenza dell’io, quindi sempre una morte di secondo grado. Ricostruire il mondo perduto di mio padre, e quindi il paese, le storie di famiglia, i paesaggi, ma anche le foto che ho inserito in fondo al libro nell’apparato, sono un modo per riprodurre (seppur solo un’ombra, in proiezione) quel mondo del tu per sempre perduto, o meglio, fare mio quel mondo, rifarlo a modo mio.

 

MB – Non ho potuto non notare alcuni frammenti di Luzi (specie quello degli anni Sessanta, che anche tu hai studiato assai a fondo) che ogni tanto emergono nel testo: “dal fondo delle campagne” (come il volume edito nel 1965), “vedi, non trovi in fondo a te una parola” (da In due da Nel Magma del 1963), il magma…Tu sei anche traduttore di poesia americana (Richard Harrison, Sul non perdere le ceneri di mio padre nel 2018; Ron Padgett, Non praticare il cannibalismo del 2021. Quanto queste esperienze di – se vogliamo, se ha senso – uscita dalla lirica hanno influito su questo libro?

RF – Mi affascina quel modo lì di scrivere, lo copio. Mi sembra più limpido, mi veicola chiaramente un messaggio senza perdere il godimento del verso, del respiro. Credo che alcune poesie di Nel magma siano tra le più belle del Novecento, e spesso me ne ripeto a memoria dei pezzi. Tradurre un testo significa entrarci a piene mani nel testo di un altro, ma anche sprofondare i piedi nella propria poesia, nei propri versi. Devo tantissimo ai testi che ho tradotto, a quelli che ancora devo pubblicare, mi rimescolano. La prossima su cui sto lavorando è Hannah Sullivan, una poetessa inglese di trent’anni, neo-modernista, vincitrice del Premio Eliot 2018 con la sua prima opera di poesia, Three poems, tre poemetti folli, magmatici, ipnotici, un genio. E già qualcosa nella mia sensibilità sta cambiando.