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Intervista a Raimondo Iemma

Raimondo Iemma è nato nel 1982 a Torino, dove vive. La sua precedente pubblicazione è La settimana bianca all’interno del XIV Quaderno di poesia contemporanea (Marcos y Marcos, Milano 2019, a cura di Franco Buffoni). Nel 2005 ha ricevuto il premio Sandro Penna per la poesia inedita.

 

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MB – Il tuo libro, Nuovi misteri (Interlinea, 2022) si apre con una carrellata di riferimenti a tecniche audiovisive tipiche dei nuovi media: “La poesia comincia / con uno zoom precipitoso”, “Interruppero le trasmissioni […] Nei dispositivi dominava il rosso / con il nero lampeggiante nei titoli. / Presto smisero di funzionare”, “Nel riquadro / della pagine internet di un quotidiano / uno di essi compare”. A queste forme della modernità sembrano susseguirsi altre forme comunicative, più tradizionali – se non primitive: le biro, le agende, e poi le piramidi e gli aruspici (“ora ti dirò cosa non vidi: cavalli scossi / su praterie deserte, un aruspice dinanzi / alle interiora che divinerà, e conti / alla rovescia per il lancio di uno Shuttle”, “In queste agende, / nei costrutti millenari delle biro / decifreranno la lingua dell’inconscio”). Sembra, pertanto, che sia la modernità che l’antichità siano unite dalla costante del mistero e dell’enigma. La poesia, in questo accadere misterioso e irrisolvibile, che ruolo ha? Quello di “sonda del mistero”? O quello di complicazione di esso (“espone il segno per celare il messaggio”)?

RI – Modernità e antichità sono due concetti che contemplo solo sul piano razionale, riduzionista. Su quello inconscio non sono distinguibili. Nel suo delirio, nella Parigi degli anni settanta, il protagonista di Le locataire vede comparire geroglifici, non onde radio. Intendo dire che niente è separato da niente. Nelle tecniche audiovisive di oggi, persino in quelle più avanzate e non ancora appannaggio di tutti, affiora già il decadimento, il detrito. Qualunque tecnica è intrinsecamente obsolescente, ma contiene anche un seme dell’universale. Da millenni istoriamo superfici per trasmettere messaggi, ma da prima ancora emettiamo suoni. Alcuni si avventurano a studiare il “come”, io non ne sono in grado. Quanto alla poesia, tu stesso, per abbozzarne una definizione, impieghi metafore. Hai presente un paziente che tenti di descrivere un sintomo? Non può che usare immagini. In definitiva, la poesia ci ricorda questa condanna.

MB – Una costante del tuo libro è quella della coscienza di essere arrivati al capolinea di un certo momento storico-antropologico. Molte, infatti, sono le referenze a un’idea di “specie in crisi”: “Diranno: è l’inverno della specie…Ma diffido ancora delle profezie / come in fondo diffido di un fiore / il cui simbolo sia morto prima di lui”, “Per questo ogni agguato della specie / rimarrà in se stesso impunito”, “Le nostre foto, testimoniano due cose: / che il benessere richiede fiducia in esso, / e che altre civiltà seguiranno / e le costellazioni a cui saranno devote / non avranno leggi scritte con queste parole”, “ciò che distingue il tipo di società / sono i modi di morire in essa tollerati”. A questo, più che una predizione o una profezia di completo annichilimento della razza umana, sembra seguire un’idea circolare di tempo, vagamente vichiana: “Presto, e chissà quando, si erigeranno piramidi egizie, / acquedotti romani irrigheranno i campi / e una stele reciterà i primi nomi, / le prime costellazioni”. Il corso e il ricorso dell’umanità sono anch’essi enigmi da decifrare? La figura del cerchio è in qualche modo, nel suo tornare sempre allo stesso punto, conseguenza di questa visione enigmatica dell’esistenza? Oppure tutta questa lettura è eccessivamente fantasiosa?

RI – Per me la circolarità è una illusione ottica, e non credo a una interpretazione materialistica della storia. La formulerei come segue: non torniamo sempre allo stesso punto, ma siamo sempre allo stesso punto. Un singolo essere umano, incluso l’io che scrive, può benissimo ritenere di percepire di stare vivendo un passaggio da un’epoca a quell’altra. Forse è sempre stato così. Ma anche questo è un mettere ordine dove ordine non può esserci. Tutto il nostro discernimento è a ritroso. Mi interessa però dipingere un inconscio inquinato dal politico, investito dal linguaggio di questo presunto passaggio. Mi interessa, cioè, l’esperimento che ne deriva. Credo per inciso che le poesie non vadano lette “poeticamente” (ossia: alla lettera), ma questo non è un paradosso, piuttosto una fraterna avvertenza al lettore.

MB – Nel testo compaiono personaggi e situazioni al limite dello straniante che, anche a un lettore non necessariamente colto, richiamano alla memoria le pagine di Kafka. Ambasciatori, governatori, insetti (“Hanno voluto la indossassi subito / e come l’ombra di un insetto ho sentito l’imbarazzo / di chi doveva dirmi che mi stava bene”), palazzi che non hanno vie di fuga o d’entrata (“Occorre spiegare che, penetrando nell’edificio, / non si ha l’impressione di entrare. / bensì di avere acceduto a un altro esterno, / che a sua volta conduce a un terzo fuori, / e così via. […] Nondimeno dire entrare, o uscire, / è tollerato in quanto credenza; / ma farlo no, farlo è impossibile”) e, infine, un “fattore K” che richiama il protagonista del Castello (“Nel solo settore Zeus, e parliamo di quasi duecentomila domiciliati regolari oltre a un numero imprecisato di stealthy prevalentemente di tipo Prisma, il quoziente K è sceso dello 0, 06% in un solo anno”). Mi verrebbe da dire che la declinazione burocratico-(bio)politica del mistero e del groviglio sia il motivo per cui i riferimenti a Kafka siano così numerosi. È così o ci sono altri motivi?

RI – Se vuoi giocare con le K, ti ricordo allora i “terreni K” di Zeder, Pupi Avati, terreni la cui particolare conformazione sarebbe in grado di restituire vita ai morti… Trovo che in Kafka la relazione con il potere sia gravemente erotica, ha svelato tra l’altro la natura di questa relazione. Io, che non possiedo il genio di Kafka, mi fermo almeno un passo prima, ossia all’autocrate in nuce che alberga in ogni essere umano. Vi sono questi riferimenti che hai detto, tuttavia il libro non è “kafkiano”. Gli manca per esempio la componente del ridicolo. Proprio mentre scrivo mi vengono in mente, per associazione libera, questi versi di Auden: “Dovunque vi sia forte / disuguaglianza, i Poveri / corrompono i Ricchi.”. Questo tipo di intuizioni sono interpretabili, ma non interamente spiegabili.

MB – “In un certo romanzo, un uomo” è un incipit che compare cinque volte nel tuo testo. Quest’uomo è, a seconda delle situazioni, “un uomo da poco diplomato”, “succube del proprio datore di lavoro”, “il protagonista del romanzo”, “parte per il servizio militare”, “è vittima di un particolare raggiro”. Questa dimensione “metaletteraria” si riallaccia alle situazioni kafkiane di cui sopra o si riferiscono ad altri richiami (Calvino?)

RI – Almeno fino a qualche anno fa, sfogliando gli annuari dei piccoli paesi, si potevano incontrare note mortuarie in memoria dei recenti defunti. È sorprendente come si possa riassumere in poche righe la vita di una persona, in maniera tuttavia così esatta, senza che nessuno abbia niente da ridire. I testi che tu citi sono “doppiamente” metaletterari, riassumono romanzi che non esistono, eppure potrebbero esistere, quindi esistono. Non tuttavia nel senso di Calvino, se qui ti riferisci al farsi e disfarsi del romanzo, in presa diretta. Forse, nella costruzione di una letteratura simulata, c’è l’influenza di Borges, ma un’influenza passeggera, da codice bianco. Pensa piuttosto, più banalmente, al fatto che l’io che parla è egli stesso un lettore, un lettore d’altre cose che, come qualunque altra, gli rimangono impresse in un modo che non governa.

MB – “Qui c’era un’altra poesia, molto diversa. / Partiva da un fatto reale, che poteva ritenersi / accaduto, poiché nell’infinità degli eventi / era senz’altro possibile. Dipingeva quindi / una situazione, e in seguito il suo equivalente / inconscio: un inconscio, per così dire, / rappresentato. Quella che stai leggendo / (e io dispero ti venga naturale intendermi) è la sua ombra”. Un’altra affermazione simile, che supporta questa idea di poesia come transcodificazione dell’inconscio in forma scritta, è questa: “In queste agende, / nei costrutti millenari delle biro / decifreranno la lingua dell’inconscio”. Questa idea mi sembra molto interessante, e in qualche modo strutturante del tuo testo. Potresti approfondire questo aspetto?

RI – Ritengo non esista alcuna intimità dell’esistenza che sia immune da una dimensione politica. Ossia dal linguaggio. Ma potrei dire anche viceversa. Se una traduzione è possibile, ed è un “se” che è un macigno, il suo meccanismo non è conoscibile, né reversibile. Non sono però per una lettura “psicologizzante” della poesia, o della letteratura in genere. La psicanalisi separa per componenti, la mia operazione è specularmente antagonista.