Intervista a Paolo Fabrizio Iacuzzi – pt. 1

Paolo Fabrizio Iacuzzi è nato a Pistoia il 10 marzo 1961. Vive tra Firenze e Pistoia. È poeta e educatore, critico ed editor, promotore e organizzatore  culturale. Le sue poesie sono tradotte in varie lingue. Nel 1996 ha pubblicato Magnificat (I Quaderni del Battello Ebbro). Nel 2000  Jacquerie (Nino Aragno Editore). Nel 2005 Patricidio (Nino Aragno Editore). Nel 2008 Rosso degli affetti (Nino Aragno Editore). Nel 2016 Pietra della Pazzia (Pistoia, Giorgio Tesi Editore, edizione fuori commercio). Nel 2018 Folla delle vene (Reggio Emilia, Corsiero Editore). Nel 2020, per Bompiani, Consegnati al silenzio. Ha tradotto LeRoi Jones nell’antologia Kerouac and Co.(Millelire – Stampa alternativa 1995) e Lunch Poems di Frank O’Hara (Mondadori, 1998). Ha scritto saggi e note critiche d’arte e di critica letteraria su figure emblematiche di poeti e scrittori del Novecento. Ha curato l’antologia di racconti e poesie Il tempo del Ceppo (Giunti 1997) e, con altri, Lezioni di poesia (Le Lettere 2000) e Dizionario della libertà (Passigli 2002).
Si è laureato in Letteratura italiana moderna e contemporanea all’Università degli Studi di Firenze. Si occupa dal 1980 di editoria, critica letteraria e promozione culturale. Si è occupato per anni di cultura scolastica sulle riviste carta e web “La Vita Scolastica” e “Scuola dell’Infanzia” per Giunti Scuola. Attualmente lavora presso Giunti Editore. È il direttore artistico e il presidente dell’Accademia Internazionale del Ceppo Onlus e delPremio letterario internazionale Ceppo Pistoia attraverso anche il progetto educativo Lettori Uniti del Ceppo di promozione della lettura rivolta alle giovani generazioni. E’ il curatore delle opere di Piero Bigongiari ed è direttore scientifico del Fondo Piero Bigongiari della Biblioteca San Giorgio del Comune di Pistoia. E’ tra i soci fondatori a Firenze del Centro Studi Jorge Eielson dedicato alla letteratura italo-ispanoamericana per il dialogo fra le letterature e le arti. È presente in diverse antologie, fra cui Poeti a Pistoia negli anni Ottanta (Vallecchi 1989), Di amante buio (NCE, 1993), Nostos (Polistampa, 1997), Poeti nel tempo del Giubileo(Paideia, 2000), Parole di passo (Aragno 2003) ed altre.

Questa qui pubblicata è una versione ridotta dell’intervista che apparirà nel numero 103 di Atelier – versione cartacea.

 

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MB – Nel tuo ultimo libro Consegnati al silenzio. Ballata del bizzarro unico male (Bompiani, 2020), la dimensione intima e personale (che potremmo chiamare “lirica”), quella epica – d’altronde il libro è anche la ricostruzione poetica del tuo albero genealogico, della gens Iacuzzi – e quella giocoso-ludica (penso alla figura di Iac) si intrecciano, anche a livello formale. Ho notato che nel tuo codice metrico-linguistico permane un forte sostrato endecasillabico (spesso poi i versi sono organizzati a blocchi strofici di 4+4+3+3, ovvero il palinsesto del sonetto), contaminato da versi più lunghi costruiti su sei accenti (una resa moderna dell’esametro come in “Perché sono entrato in ospedale ed era un supermarket. / Il carrello mi ha chiesto cosa poteva portare. La morte”) e da alcune poesie più “ludiche” associate alla figura di Iac che fanno riferimento, magari, alla forma “ballata” di cui si parla nel sottotitolo. Queste tre dimensioni e queste tre realizzazioni prosodiche rispondono a un disegno più ampio e schematico?

PFI – Quando tu parli della “componente epica”, ti riferisci all’albero genealogico della gens Iacuzzi ma in realtà c’è anche la gens Pacini. È un albero genealogico che è come le due eliche del Dna. È il tentativo non solo di conciliare ma far nascere qualcosa da queste due gentes. Ho sempre vissuto conflittualmente sia l’una che l’altra. Questo libro è la consegna al silenzio di queste due gentes, quella di mio padre e quella di mio nonno che con me finiscono, essendo l’ultimo discendente, appunto sono “consegnate al silenzio”. Queste due linee sono anche due modi diversi di intendere la paternità. Mio padre, che ha fatto la prigionia in Germania dopo l’8 settembre e che non mi ha mai raccontato molto della sua vita passata (o forse io non ho voluto ascoltarla), e al contrario mio nonno, che era un uomo forte, impositivo, volitivo. Io sono vissuto tra questi due padri, con uno sdoppiamento del padre. In sé il dato autobiografico sarebbe ininfluente se dal piano della realtà non si passasse a quello della fantasia epica, che è lo scontro tra due figure che portano dietro di loro due famiglie. L’epica sì, perché è scontro, lotta, battaglia. Ed è uno scontro corale che ha i suoi eroi e i suoi sconfitti. I personaggi sono una mia emanazione, con i loro diversi nomi, o anche con i miei diversi nomi, più o meno smozzicati e storpiati. Una sorta di “autofiction”, per usare un termine invalso nella nostra attuale narrativa, perché io prendo i pezzi sparsi della mia vita e li faccio germinare in una istanza di invenzione, di finzione, di personaggio non personaggio, di eroe non eroe, di sconfitto non sconfitto. Si tratta di una “ricostruzione poetica”, dove agli elementi della biografia si mescolano molte “protesi”, perché la mia doppia genealogia è puramente inventata: le mie parentele sono epiche, così come nei poemi cavallereschi, nell’epica di tutti i tempi: sono ricostruzioni della fantasia. Anche la dimensione intima e personale, che tu chiami lirica, in realtà è una dimensione doppia, formata da Paolo e Fabrizio. Questa idea che il soggetto sia sdoppiato, doppio, che non può arrivare a una sintesi, quindi un po’ come accade a Dostoevskij. Il sosia, il doppio, il non riuscire da solo a sopportare la soggettività, questo risultato di una doppia genealogia…

C’è la dimensione autobiografica, della mia storia, ma appunto poi la storia diventa epica, e l’autobiografia diventa “autobiopsia”, una sorta di analisi delle zone malate dentro di noi, di quelle zone “eversive”, di quelle che dolgono, che in qualche modo non sono risolte, mai saranno ricomposte in una intera personalità. E così anche questa che tu chiami “dimensione giocosa e ludica” ha a che vedere con il fatto che anche il tragico non è una cosa seria: credo questa dimensione, di cui appunto parla Starobinski nel suo libro Ritratto dell’artista da saltimbanco. Ma lo dice anche Bachtin, quando parla della “dimensione carnevalesca”. Se ci pensi bene, queste tre linee intrecciate insieme danno l’idea del “romanzo.” La mia idea di poesia è quella di un romanzo, perché contiene proprio dentro di sé queste tre linee. L’idea del carnevalesco mi fa pensare che ogni mio libro (da Magnificat a Consegnati al silenzio) si apre sempre con qualcosa di ludico ma anche di tragico. Non so perché ogni mio libro si apre con questa dimensione ludica, come se il saltimbanco che si presenta sulla scena tutte le volte dovesse rovesciare, voltare le carte in tavola. Ora sto lavorando a un ciclo di poesie sugli Arcani Maggiori dei Tarocchi…

In Consegnati al Silenzio c’è all’inizio l’idea del “Campari-campare”, di questo io che va in una clinica di chirurgia plastica e la vede come un supermercato: chi si fa la plastica, chi si fa questo, chi si fa quest’altro. È la vanità della cura, come quella della chirurgia estetica. E naturalmente lì, attraverso la figura di questo doppio senso di “Campari-campare”, c’è un richiamo al titolo del libro di Giudici, Quanto spera di campare Giovanni. Qui si tratta di dire: Quanto sperano di campare Iacuzzi-Pacini. E quindi quanto noi speriamo di campare: sì, perché nel frattempo anche il mio cognome è diventato doppio nella finzione. Ecco dove nasce l’appello del silenzio. La consegna del silenzio: di fronte a questo affannarsi inautentico, della dimensione della “chiacchiera”, c’è il “tu devi tacere”, c’è lo spazio del sacro.

Quando tu parli di “codice metrico linguistico” e di una certa idea della metrica, io potrei dirti che su questi aspetti non sono mai cosciente: non sono mai fino in fondo consapevole della musica e della metrica che viene fuori da una poesia. Non mi metto mai a contare le sillabe. Parlo con l’ascolto di un ritmo che viene fuori, così come i rapsodi di antica memoria. Quello che dici mi sorprende e ti ringrazio di averlo sottolineato: questo ritmo appunto della ballata… Le forme metriche ci preesistono prima ancora che noi ne siamo coscienti. Io, come sai, affianco poesie diversissime fra di loro. Anche questo per me è un mistero, perché la diversità fra una poesia e l’altra implica una diversa voce, una diversa situazione psicologica che viene messa in scena. Ecco perché parlo di “romanzo”. Il romanzo è polifonia. Io non riesco a scrivere delle poesie tutte uguali in un libro, da cima a fondo. Ogni volta che mi metto a costruire un libro mi dico “qui manca una poesia, qui manca questo momento vocale”. Quando arriva la fase del montaggio, il libro si arricchisce di altre poesie e io non so perché senta questa esigenza di mettere altre poesie o di toglierne alcune altre. Il libro si costruisce sulla base di poesie già scritte, che devono trovare dei fili interni per tessere delle trame.

Uno scrive perché si ammala, c’è poco da fare. Quando arriva la poesia, tu ne subisci l’influenza, è un altro che parla; è una dimensione del silenzio perché, quando si scrive, non si soffre. Il momento dello scrivere è un momento di grazia, di guarigione, è quasi simile all’esperienza mistica, un’esperienza del silenzio che fa sì che arrivino questi virus dalla tua vita e ti rimettano in discussione per poter reagire. Tu reagisci a questi virus, il sistema immunitario reagisce. La poesia è una forma di guarigione, incompleta, perché il virus è sempre bizzarro e si nasconde, non si estirpa mai. Si nasconde nelle cellule, nella tiroide, nei gangli vitali del tuo corpo. Lo puoi curare ma non lo puoi far fuori. La poesia è un po’ così, è sempre qualcosa di molto attivo dentro di te, e non la fai mai fuori…

 

MB  – Un saggio che apriva un’edizione delle Lettere su Cezanne  di Rainer Maria Rilke scritto da Mario Specchio si intitolava Figure senza sfondo. Alcune tue poesie mi hanno riportato a quel saggio in cui Specchio – se non faccio confusione con uno scritto stavolta dello stesso Rilke, Appunti sull’armonia delle cose – parlava di uno sfondo-Uno che operava un movimento di assorbimento delle figure in primo piano sul “palcoscenico dell’esistenza”. I versi sono i seguenti: “Tutte le figure sono le figure/ salvate dalla storia per stare oltre i virus”, “scrivere il Ceppo è sfidare il tempo. Bagnare / di parole la lucente meraviglia. Raccontare / ai figli dei figli dei figli all’infinito tante vite”. Mi sembra che la consegna al silenzio sia la definizione di un moto che al contempo perfeziona e al contempo disfa i contorni delle figure, creando osmosi fra finito e infinito, tra voce e silenzio, tra luce e colore. Una sorta di benjaminiano tentativo di “salvare i fenomeni” da parte delle Idee-Silenzio. È così?

PFI – Non c’è solo la scomparsa del soggetto dentro una dimensione del silenzio e del sacro, ma c’è una transazione del soggetto, il suo travestimento molteplice in abiti maschili e femminili, in cui il soggetto o una parte di esso, una sua proiezione più o meno travestita, si mette in scena: le figure allora si compongono nel soggetto del quadro, a volte si compongono come in un Presepio, oppure in un Compianto del Cristo morto, oppure nelle formelle robbiane nel Fregio dello Spedale del Ceppo, e via dicendo in una “vita a quadri”, appunto. C’è un’idea del soggetto come “impuro” e della poesia “impura”, un soggetto che si sporca col mondo perché vuole travestirsi con le figure di esso. Come se la storia dell’arte venisse in soccorso per riportare la vita dentro una dimensione antropologica, rituale, dentro una sorta di grazia dentro il dolore: una dimensione plastica, di composizione, di plastica composizione, perché per me tutta la pittura anche quella astratta ha sempre un rilievo plastico, perché forse sono nato in una città come Pistoia che da Giovanni Pisano a Marino Marini ha sempre avuto questa caratteristica. La pittura in sé e per sé non mi interessa, mi interessa la spinta plastica che c’è sotto.

Ogni volta, in ogni mio libro, è come se io dovessi provocare, dovessi assumermi delle maschere, dovessi portarmi sulle spalle un’identità mia o che faccio mia, che corrisponde a una certa idea della “compassione”. E anche in questo libro, appunto, l’idea dell’ospedale nel quale io mi metto in scena come malato fin dall’inizio. Quindi, c’è un approccio forte, una cesura forte in ogni libro. I libri, quindi, non cominciano con delle poesie introduttive; subito il soggetto è scaraventato sulla scena di un teatro. C’è un evento traumatico che inaugura ogni libro. Tutto questo l’ho pensato, perché sto raccogliendo tutte le mie poesie in un libro… che non so mai quando uscirà, ma arrivati a sessant’anni e al quarto tempo della mia scrittura, per la prima volta occorre guardarsi anche indietro per ripensare sé stessi.