Intervista a Giuseppe Nibali (a cura di Michele Bordoni)

Giuseppe Nibali è nato a Catania nel 1991. Si è laureato in Lettere Moderne e in Italianistica a Bologna dove è stato membro del Consiglio Direttivo Centro di Poesia Contemporanea dell’Università. Giornalista Pubblicista, dal 2017 al 2019 è stato direttore editoriale della rivista online Midnight Magazine. È direttore responsabile di Poesia del nostro tempo e curatore del progetto Ultima. Collabora con Le Parole e le coseLa Balena bianca e con il magazine Treccani. Ha pubblicato i libri di poesia: Come dio su tre croci (Edizioni AE, 2013), e Scurau (Arcipelago Itaca, 2021).

 

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MB – Umberto Eco, trattando della lingua dell’Inferno dantesco in un suo testo intitolato La ricerca della lingua perfetta, parla in questi termini: “I diavoli parlano la lingua della confusione”. La confusione è, ovviamente, quella babelica, connessa alla perdita di una lingua unica e di origine divina. Il tuo Scurau (Arcipelago Itaca, 2021) sembra ricreare, in presa diretta, la situazione di confusione che si vive all’Inferno: gli idioletti si sovrappongono al linguaggio medico, i riferimenti colti alle parolacce imparate dai bambini a scuola, l’italiano al dialetto catanese, l’uomo si confonde alla bestia. La situazione è quella, biblica, che precede il Diluvio universale o che, forse, è già dentro il Diluvio: “il diluvio continua. Così gli uomini resistono in sacche grosse, con capanne sopravvissute all’acqua che da ogni parte assedia le plastiche”. Nel tuo testo non sembra però esserci nessun Noè, nessuna arca che salvi e riporti l’unità dopo la dispersione, una situazione che ricorda quasi l’adagio di Heidegger che “ormai soltanto un dio ci può salvare”. Ma il tuo testo sembra andare oltre questo dio, che non c’è né ci sarà. È corretto?

GN – Buongiorno caro Michele, mi sembra che la tua lettura sia perfetta. Sei andato a pescare il testo che più sfacciatamente parla del diluvio, quello che è dunque più apertamente apocalittico. Dio non c’è nel testo, come tu giustamente evidenzi, dunque all’uomo non resta che il passaggio tramite le tre porte dell’esistenza: la vita civile di “Antropocene” cede il passo allo stato di natura raccontato in “Predazione” declinato prima in senso hobbesiano e poi, in “Scurau”, in senso voltaireano. È una decrescita, quella raccontata nel mio testo. Una decrescita involontaria ma necessaria. Dai fasti dell’uomo contemporaneo si torno al passato, nel futuro. Non è però, e voglio dirlo con forza, un ammiccamento alla teoria politica della decrescita felice, quanto piuttosto il tentativo, da marxista, di ricordare che ci sono possibilità, ipotesi, prospettive fuori da un neoliberismo che sta diventando lingua unica e inattaccabile. Dicevo a un amico qualche giorno fa: prima qualunque attacco al Capitale ti dava immediatamente il patentino sociale di comunista, oggi di visionario folle. La Babele di cui parli, poi, e di cui avremo possibilità di parlare meglio in seguito, è volontariamente la lingua di Malebolge. Un dettato ctonio, oscuro non in virtù di un cascame neo-ermetico, ma di un percorso sociale, agito da una società.

MB – Continuando la suggestione diluviana, uno dei maggiori fatti scatenanti il Diluvio è il dilagare della fornicazione. Sodoma e Gomorra sono spesso alluse fra le righe dei tuoi versi, un sottofondo perverso e pasoliniano quasi, a cui però sembra fare da barriera la figura quasi archetipica della madre. Lo scontro fra sangue, sesso, morte e orrore e la figura materna sembra accendersi già ancora prima della nascita di ognuno, nel grembo della donna: “Così è fino alla matrice, alla prima carne strappata da uno stomaco”, “Nuatri semu pronti pa tunnara / e fossi nuddu rumpìu l’acqualoru, / fici chiaja a so matri” (Noi siamo pronti per il massacro / e forse nessuno ha rotto la placenta, / ha ferito la madre), “Si, siamo la madre. La morte la morte. La morte”. Questo archetipo è veramente presente o è solo una suggestione?

GN – Non credo esista fatto umano, testuale, artistico lato sensu, che possa prescindere dalla visione archetipica della madre. Il fatto stesso di essere corpi strappati da altri corpi nel sangue è parte del rimosso che la società barra come osceno. Il parto è una mattanza da cui gli occhi civili sono dispensati. Film, libri, strumenti di divulgazioni, addirittura la letteratura medica raccontano il prima e il dopo, gli eventi interni, ma la scena, la sala operatoria, una volta il gineceo, sono luoghi off limits, dove al massimo, se ha stomaco, è consentito l’accesso al marito. Da questa tortura viene fuori ciò che vive, e piangendo. Traumatico è entrare nel mondo per i viventi. Per i sapiens ancora più difficile è la fase dello sviluppo e dell’accudimento. Siamo tra le creature che più a lungo sono dipendenti dai genitori e, soprattutto, dalla madre. In Scurau due madri si alternano: una, quella fisiologica, che è alma mater lacrimosa, che ha il ruolo di regina nel matriarcato sentimentale italiano (mamma, nonna, zie); l’altra, più sfumata, è la declinazione della matria, della madre patria, che tanto ha influito nel Novecento, dai nazionalismi degli inizi alla dialettica USA-URSS e che oggi pare superata. Oggi dove è, che forme ha la madre sociale? È crollata, come le religioni, la Patria, la Madonna, l’Italia. Non sto esprimendo giudizi di merito, sia chiaro, solo cerco di muovermi nel mio tempo. Dove al crollo di un mito se ne sostituisce un altro. La madre privata è elemento fortissimo della società contemporanea: questa guida i pochi, pochissimi figli sempre più a lungo, nella carriera scolastica e lavorativi. L’archetipo materno, declinato in senso jungiano, mi serve, nel testo, per tornare alla comunione con la terra della terza sezione. Qui torna Semele madre di Dioniso, «l’antica divinità della terra, così come la Vergine Maria è la terra da cui fu generato Gesù Cristo»[1]

MB – L’ultima poesia di Scurau narra del modo di scannare un coniglio in dialetto catanese. Gli ultimi versi, che chiudono il tuo libro, sembrano essere la definizione migliore dello stesso: “T’arresta / ntei manu u scantu, n’aranata senza scoccia” (Ti rimane / nelle mani lo spavento, una melagrana senza scorza). La tua poesia è una poesia senza pelle, senza protezione e senza limite, sanguinolenta, non c’è il cuoio ma la carne. Questa idea della carne, della carne da macello, della carne presa e pesata per la vendita, torna in moltissimi punti: “Sgruma tutto l’osso, spolpa le parti del petto non ti fermare / nei calli; tu scheggia gli incisivi sull’osso. Questo amore / con la carne ci ha fatti bestiame umano di denti e radice”, “mandrie / di giovani”, “La violazione avvenga sulla carne, fate spazio tra la sete del ventre: notturno / e buiamente arriverete all’orgasmo. Morte, uomo. La morte”. Europa stessa, riesumata dal mito, “segue le mandrie”. Sembra di vedere questa umanità cadere dal dirupo come i bisonti spinti dagli indiani d’America oltre il bordo dei crateri (non a caso la seconda sezione del libro si intitola Predazione). Mi sembra che anche a livello stilistico la pelle non sia contemplata: verso e prosa si alternano in maniera costante, quasi fondendosi l’uno nell’altro. Ti trovi d’accordo?

GN – Io amo frequentare l’arte violenta. Da Sade al Sartre de Le mosche, da Santa Giovanna dei Macelli alle maschere di Olivier de Sagazan, a Houellebecq, a Siti, Tondelli, L’Altrella, Arrivabene e via dicendo. Ancora: io credo che l’arte sia una cosa violenta, fin dalla sua fondazione dionisiaca, dove (contro Euripide e a favore di Eschilo) l’osceno deve manifestarsi, essere raccontato. Credo dunque che l’arte sia racconto puntuale del rimosso. Credo, con Byung-Chul Han, che «l’arte deve sconcertare, disturbare, inquietare, anche saper far male. È da qualche altra parte. È a casa dell’estraneo»[2]. Ma vedo attorno a me un’opera costante di rimozione borghese, di piccole emozioni, di storia personale. Il mio testo ha come scopo quello di segnare un piccolo trauma nella poesia italiana contemporanea (quella Ciovane!), per capirci: bisogna parlare del mondo, oltre alle piccole scosse che invadono l’io. E il mondo gronda sangue, per questo la cronaca (anche se mai nominata, come bene ha notato Tommaso di Dio nella sua postfazione), per questo tutta questa carne intesa come strumento conoscitivo. La storia degli umani è storia della carne, la propria, quella della preda, la testa del nemico. Sul tuo esempio poi, quello degli indiani, credo che sia proprio così, le comunità amerinde sono, con gli aborigeni australiani e con gli indios, una delle poche comunità che non ha modificato il paesaggio e che ha cacciato secondo natura. Sono sapiens non toccati dalla tecnica più becera, quella foraggiata dalla filosofia positivista. Ci sono, con Robert Eisler, due possibilità per gli uomini, seguire il destino di cacciatori – raccoglitori o seguire Cartesio fino ai suoi esiti maggiormente catastrofici. Nel mio testo l’uomo cambia, un particolare di cui in pochi si accorgono, torna tra i boschi. Ritorna silvano.

MB – Scurau è un fotogramma dell’occidente al suo tramonto (tanto per chiamare in ballo l’ormai onnipresente Spengler), un tramonto tutt’altro che romantico, ma del colore delle feci. La dimensione degli escrementi, del seme, del rifiuto è onnipresente nel libro: “sperma o primo sangue”, “le hanno pisciato dentro il corpo”, “raccolgono dolci piscio / e merde”, “la cacca, mamma, ho fatto la cacca nera” e potrei continuare. Freud accostava alla fase anale l’avarizia, alle feci e agli escrementi il denaro. La correlazione sembra essere una buona chiave di lettura del tuo libro. È così o limitarsi a Freud è insufficiente?

GN – Freud non è sufficiente, pure per noi che ne siamo lettori accaniti, Lacan e Jung lo illuminano e, di tanto in tanto, lo superano addirittura, soprattutto ai fianchi (razionalismo e onnipresenza sessuale), ma in questo caso specifico in realtà io non mi concentro su costipazione e rilascio, cioè sui cardini della fase anale, del piacere del rilascio o della costipazione. Mi concentro sulle feci come feci, sul gesto sessualizzato e pornografico del pissing, che è ormai pratica non dissimile dal rimming o dalla fellatio. Tutti le citazioni che hai riportato, se ci fai caso, raccontano del rimosso e del gesto sentimentale del rimuoverle: lo sperma è mangiato da una innamorata; i genitori cambiano al figlio i pannolini; la ragazza preadolescente che usa Instagram e inizia una vita sociale autonoma racconta alla madre che qualcosa non va nelle feci. Direi dunque, per risponderti, che la correlazione c’è ma che è legata ai doni della secrezione. Se quello che è secreto diventa merce o valuta lo fa nella sua rimozione consenziente. Gli uomini che ti amano ti puliscono se sei loro figlio, loro amico. Ti tengono la testa mentre vomiti e puliscono il tuo vomito, la tua merda. Addirittura mangi o bevi le secrezioni di chi ami. Ciò che è secreto è segreto e torniamo all’osceno e al rimosso.

MB – Scurau, sezione eponima e conclusiva del tuo libro, è in dialetto, il tuo dialetto originario, quello di Catania. Tommaso di Dio, nella sua magistrale postfazione, nota come il dialetto trasli all’interno del singolo e della singola esperienza la confusione diabolica e babelica del mondo, anzi, forse ne è all’origine, in nucleo privato di violenza che si scarica nella dimensione sociale. In qualche maniera, vichianamente, essendo più vicini alla fisicità del mondo, lo stesso dialetto si fa corpo violentato dalla vita. È una scelta che conferma quanto detto da di Dio o, paradossalmente, è un modo di tentare di riabilitare una corpo da mercato (in termini husserliani Korper) in un organismo senziente e autocosciente (Leib)?

GN – Questa è forse la domanda più bella che mi sia stata fatta su Scurau. Cerco di rispondere con ordine. Per prima cosa voglio sfatare un mito (che non è da te costruito) che riguarda il discorso sul dialetto. Il dialetto non è sempre una lingua popolare. Non lo è, soprattutto, nel mio caso. Non è la mia prima lingua, non l’ho imparato a casa con nonna. A casa mia si è sempre parlato in italiano. Mio padre mi correggeva se usavo termini dialettali. Il dialetto era altrove, per le strade, nei quartieri. I bambini che parlavano siciliano erano i figli del fruttarolo. La borghesia siciliana in casa parla italiano e io ho imparato da ragazzo il dialetto. Per questo la mia lingua è stata costruita in laboratorio, un siciliano non riuscirebbe ad amarla come l’hanno amata al nord. C’è dentro il catanese, il malettese, il ragalnese, in una sorta di medio etneo, ma poi ci sono flessioni marsalesi e occidentali. C’è una Babele, per intenderci, dentro la mia lingua siciliana. Ma il tentativo è quello che intendi tu. Comunque. Mi serviva una lingua devastata eppure primitiva, che tenesse dentro il momento di sintesi che il libro figura e ancora una forza originale e necessaria. La differenza che poni poi tra Korper e Leib è necessaria. Il corpo da mercato parla la lingua del mercato, l’italiano, ancora peggio: l’italiano aziendale colmo di anglismi. Ma l’uomo nuovo, che potremmo figurarci con il bambino che alla fine apprende l’arte di scuoiare il coniglio dal vecchio (nell’ultima poesia), non è l’Übermensch, non è il primo della nuova genia, ma piuttosto un cittadino, un civis, del nuovo pagus, del villaggio che si cerca qui di delineare. Fuori dal mondo occidentale distrutto nelle prime due sezioni, ecco una possibilità per la nuova specie, dove il dialetto è la lingua del διαλέγομαι, del discorso tra umani.

[1] Carl Gustav Jung, L’archetipo della madre, Torino, Bollati Boringhieri, 1981, p. 70.

[2] Byung-Chul Han, La società senza dolore, Torino, Einaudi, 2020, pp. 10-11.