Intervista a Elisa Ruotolo

Elisa Ruotolo è nata nel 1975 a Santa Maria a Vico (Ce) dove vive tuttora. Con nottetempo ha pubblicato nel 2010 il suo libro d’esordio, la raccolta di racconti Ho rubato la pioggia (Premio Renato Fucini e finalista al Premio Carlo Cocito; tradotto in Francia e Stati Uniti) e nel 2014 il suo primo romanzo Ovunque, proteggici (Selezione Premio Strega 2014 e Finalista al Premio Internazionale Bottari Lattes Grinzane). È del 2018 il suo primo testo per ragazzi intitolato Una grazia di cui disfarsi. Antonia Pozzi, il dono della vita alle parole (edizioni RueBallu), cui fanno seguito, nel 2019, la curatela del volume Mia vita cara. Cento poesie d’amore e silenzio di Antonia Pozzi (Edizioni Interno Poesia), e la pubblicazione della raccolta poetica Corpo di pane (edizioni nottetempo). Il suo ultimo romanzo è Quel luogo a me proibito (Feltrinelli, 2021).

 

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MB – “07.06.1975: errore anagrafico. / Non è vero che sono nata”; “Io sono quella mai nata”. Questi sono alcuni versi che testimoniano una dimensione del tuo libro di versi Corpo di pane (nottetempo, 2019) che potremmo definire “fantasmatica”. Nei vari testi sembra esserci un’esigenza di nascondimento, una timidezza che sfocia in recessione ontologica (“Vorrei riuscire nella decreazione / più che nella creazione”). E tutto questo, per paradosso o preterizione, diventa l’oggetto del libro o di gran parte di questo, è proprio vero che “scrivere è scomparire / perché lo avete dimenticato?”

E.R. – Faccio riferimento a una sensazione a me particolarmente familiare: quella di essere invisibile, quasi inconsistente nel mio dato esteriore, quindi “mai nata”. Come se la mia ponderabilità fosse misurabile con altri strumenti, quelli che il mondo tende a mandare in dismissione. Mentre scrivevo questa raccolta tale percezione si era aggravata e avvertivo quasi un senso di inadeguatezza, di pudore che sconfinava nella vergogna, alla cui base c’è la dismisura. Chi prova disagio sente che i propri margini non collimano con quelli della realtà, sente di esagerare per eccesso o per difetto. Io avevo lungamente vissuto “in difetto” come chiunque provi a chiedere, a desiderare oltre il consentito. La vergogna nasce dalla smodatezza: quella di voler essere troppo felice, troppo allegra, troppo disobbediente, forse troppo libera. Il punto è che la vita talvolta comincia proprio oltre il consentito, appena varcata la soglia del lecito. Provare a far aderire il desiderio con il concesso è la parete d’urto di ogni vita, e nel contempo l’origine delle più dolenti incrinature e nascondimenti.

 

MB – Il corpo, specie nella prima sezione Posologia del dolore, è visto quasi come un’astrazione di esso, come qualcosa di puro e di intoccabile, di immobile e perenne che pare ricordare – almeno secondo una lettura occidentale – l’anima. Una sorta di recisione del desiderio – con conseguente auto-esclusione dall’agone che, per quanto “sporco” o “impuro”, è la cosa più viva e reale che ci sia – assimila il corpo a un guscio da proteggere (più che da usare per proteggersi) e da allontanare dagli altri: “Stasera ho solo voglia di recinto / – io dentro e gli altri fuori lo steccato. / La mia vita non potrà mai essere vostra”; “Non la rivoglio questa carne che trema”; “Il mio corpo era chiuso / era un corpo da noce – da infanta”. Questa dinamica mi pare fondamentale per il libro, potresti parlarne?

E.R – Sono d’accordo: il corpo è talmente inconoscibile, appartato, intoccabile, puro (per quanto violato dal dolore), da perdere a volte i connotati concreti – salvo poi esigerli nel bisogno di mutarsi in qualcosa che col corpo ha un legame profondo: il nutrimento. È un corpo di certo amputato (la terminologia del medicamento ha quindi una sua giustificazione), e ferito nella sua urgenza di verità, tuttavia mai rassegnato al disconoscimento del desiderio. Forse proprio in virtù di questo credo raggiunga e conservi una purezza innegabile, quella che nasce dalla rimozione del malessere auto inflitto (che, secondo una reminiscenza “ortesiana” mi è sempre parso immorale). Avrei potuto invertire le due sezioni, ma poi ho compreso di voler raccontare il passaggio dall’inconsistente all’esistente: dall’anima alla carne. Il dolore è stato un buon attraversamento, ma nulla lui avrebbe potuto se non fosse intervenuta la grazia dell’amore.

 

MB – Se il corpo è – stando alla domanda precedente – un guscio, una crosta dura, è però, fin dal titolo, un Corpo di pane, quindi un corpo fragile, frangibile, condivisibile, mangiabile da e con gli altri. C’è, in qualche modo, un’emersione ricorrente di un sentimento di con-passione, di condivisione del dolore, di apertura dello steccato: “Ho pietà / ne ho così tanta da poterne morire. / Fa male ogni filo d’erba che sale dalla terra / fa male il buio quando strazia la luce / ma anche il chiaro che lo insidia”. Quasi un controcanto alla prima visione del corpo: sei d’accordo?

E.R. – Sono d’accordo. Inconsapevolmente credo di aver disegnato questa contrapposizione, nel rispetto di una consapevolezza: l’assoluta ambiguità, quasi numinosa, dell’argomento trattato. Per quanto al corpo si attribuisca spesso il senso della concretezza, io ho sempre avvertito che conservasse l’insondabilità dell’invisibile, oltre che la sua sacralità (tanto più autentica, quanto meno irrorata dal moralismo corrente). Il senso della con-passione, dell’offerta quasi liturgica dell’amore e del dolore, spingono verso una sacertà quasi imprevedibile, fatta di umori, di resa al desiderio, di trasfigurazione dell’impuro, di cura della fragilità. In fondo, la posologia esige questo.

 

MB – Posologia dell’Amore è la seconda parte del libro, parte in cui il corpo viene appunto condiviso: “Vorrei essere pane / e lasciare che tu mi prenda”. La storia d’amore raccontata per accenni, però, sembra far ripiombare il corpo nella sua condizione dura e – ora – scalfita, incisa. Il dolore sembra diventare una medicina da assumere secondo una precisa posologia (il titolo della prima sezione). È così o è in realtà una dimensione diversa?

E.R. – La seconda sezione prova a raccontare cosa succede quando si è attraversati dall’amore, cosa si può arrivare a desiderare. A un  corpo chiuso nel dolore, quasi rannicchiato nel suo guscio, fa seguito uno che ha assaggiato un sentimento mai concesso,  restandone parimenti spezzato. Per entrambe le situazioni sarebbe auspicabile una posologia (un dosaggio) che io, purtroppo, non conosco. Ho solo provato a evocarla, a cercarla come potrebbe fare un rabdomante. L’indicazione terapeutica è un tentativo d’ordine, ma chissà se il giusto rimedio non sia quello di condividere, rendersi accessibili, lasciarsi divorare da entrambe le fiere. Chissà se non si debba arrivare al punto di disconoscere la prescrizione, ignorare la cautela e decidere liberamente di quali dosi vivere. La liberazione piena, la guarigione, potrebbero coincidere con la resa.

 

MB – Il tuo romanzo Quel luogo a me proibito (Feltrinelli, 2021) tratta un argomento simile a Corpo di pane ma lo fa senza l’utilizzo del verso. Come la scelta di un mezzo stilistico rispetto ad un altro influenza la dizione di un tema come quello del corpo e della sua vita?

E. R. – È vero, la raccolta poetica e poi il mio ultimo romanzo, affrontano lo stesso tema. Credo di poter dire che Corpo di pane sia stato il primo approccio a un argomento per me difficile da affrontare: il mio rapporto col corpo e col mondo. Lo scarto tra ciò che ero/sono e ciò che sentivo /sento d’essere. Non riuscendo a raccontare, ho cominciato a mettere insieme le parole: grappoli di sensazioni, scene che – come schegge – portavo da tempo confitte nella carne, hanno preso forma. Sono entrata nella stanza della poesia con il rispetto con cui si accede a una cattedrale, consapevole che il mio passo ingenuo ne potesse scombussolare il silenzio. La mia misura fino ad allora era stata la prosa, tuttavia il dolore che attraversavo poteva essere incarnato solo dal verso, che col suo respiro misurato, con il suo battito in parole, poteva raccogliere la mia verità più intima. Poesia e prosa sono due linguaggi differenti e credo che ciascuno abbia provato rispettivamente a dare e a dire la complessità di un umano non solo privato, ma universale. Entrambi sono stati uno svelamento onesto, un affondo e una confessione: quasi una cura. Oggi so che l’unica forma di condanna resta quella del silenzio, perché il racconto (sia esso poetico o narrativo) è comprensione, è perdono.

 

 

 

Si ringrazia Riccardo Piccirillo per la gentile concessione della foto dell’autrice.