Intervista a Gabriele Borgna

Gabriele Borgna  (Savona, 1982) vive a Porto Maurizio (Imperia). Del 2017 è la silloge  d’esordio Artigianato Sentimentale (Puntoacapo Editrice, prefazione di Giuseppe Conte), presentata al Salone Internazionale del Libro di Torino e al Festival Internazionale di Poesia di Genova. È curatore del Concorso Internazionale di Poesia Parasio – Città di Imperia, e membro del comitato scientifico del Festival della Cultura Mediterranea. Fa parte della redazione del lit-blog “Poeti Oggi”. Numerosi i riconoscimenti attribuiti al suo scrivere nell’ambito dei maggiori concorsi letterari nazionali. Suoi testi sono presenti in antologie, riviste e siti letterari italiani ed esteri.Il suo ultimo libro Manufatti del dissesto è stato pubblicato da Minerva nel 2021.

 

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MB – Il tuo ultimo libro Manufatti del dissesto, edito per Minerva da pochi giorni, è un libro alto, alla latina. Si basa su una contrapposizione tra opposti, tra una verticalità rivolta verso il cielo, e una che gravita verso il basso, verso il fondo. È un libro, come dici nella breve intervista che apre il testo, che si innesta nella tua terra, la Liguria. Parli di questi luoghi come “luoghi [che] sanno vivere fronteggiando l’abisso”. Poi aggiungi “a chi scrive non resta che ricalcarne gli accenti”. Potremmo parlare della tua poesia, allora, come mimesi del paesaggio?

GB – Nel mio scrivere non vi è parvenza di una parvenza che allontana dal vero, bensì un tentativo di restituzione della realtà delle cose che ne determini conoscenza, trascendendo dalla realtà particolare all’universale. Direi quindi un concetto di mímēsis più aderente alla visione aristotelica, che determina apprendimento, che si inserisce dentro una visione panenteista, dove la parola diventa rappresentazione intelligibile di un dialogo muto con il paesaggio – e quindi con la natura – e con un Dio tutto disseminato in esso.

 

MB – “Senza spasmi un’altra lingua irrompe / dall’utero del non ancora”; “Non amore, non vita / non domani”; “Epitaffio in bottiglia per dopodomani”. Il presente, nel tuo libro, è perennemente scagliato indietro o in avanti, privato della dimensione orizzontale del momento per essere teso a metà tra un passato che ritorna e un futuro che si nega. La tua lingua, impastata di poeti liguri come Sbarbaro, Montale, ma anche Conte e Morasso, è in bilico anche essa tra il passato della tradizione e il presente andante. Sembra di riconoscere in essa lo stesso moto di “aggregazione, mutamento / incessante, disgregazione” che caratterizza i pendii liguri. Come vedi la tua lingua poetica in questo amalgama di tradizione e futuro, di versi endecasillabici e di rotture improvvise?

GB – Tornando ad Aristotele, il tempo “per un verso è stato e non è più, per un altro verso sarà e non è ancora”; inclinando appena lo sguardo possiamo renderci conto di come il tempo non esista in sé, e che a farlo esistere sia l’uomo. Preferisco pensare ad “un presente a tre tempi dove tutto si incontra”, rubando a me stesso le parole. E la poesia è qui per argomentare tale tesi: “amo solo la voce delle cose”, appartiene al lessico di ognuno dei maestri citati poco sopra. Ed al mio. Ma soltanto uno ne è il vero padre. Abbiamo una morfologia comune – linguistica e del territorio – che per sua natura non può e non vuole essere lineare, tutta fatta di trasalimenti e bellezza; dove si palesa a più riprese la conoscenza delle leggi del dire, sferzate da un vento creativo che sgretola e solleva in piena libertà.

 

MB – La dimensione dello scorrere e del disfarsi dona a questa poesia dissestata una conformazione cellulare, fibrosa, corporea insomma, che la rende viva e organica, aperta alla natura e al suo mutamento. In questa metamorfosi mi pare di trovare un forte lascito eracliteo, una coincidenza di contrari che riesce a creare manufatti dal dissesto (sintagma che potrebbe già essere una interpretazione del titolo), immagini stabili in uno scenario che va a picco. Proprio a questo riguardo, quanto è importante il momento della caduta (la prima sezione si chiama appunto I tempi della caduta) e della dispersione prima della (eventuale) trasformazione del dissesto in altro?

GB – Lo stigma del pensiero filosofico marchia in maniera piuttosto netta questi miei manufatti, poiché credo che la poesia possa e debba avere, oltre ad un’intensità espressiva non comune, un certo valore conoscitivo. Molteplici le influenze per un’unica finalità: prendere coscienza che stiamo rovinando, fisicamente e moralmente. E che sono incessanti le modificazioni di ciascuno di noi e di ogni manifestazione del creato. Il tema della caduta e il suo racconto, è profondamente radicato nel nostro retaggio culturale cristiano: francamente non lo condivido nella sua accezione di peccato originale trasmesso e non commesso. Nella caduta vedo piuttosto la disarmonia umana con la natura, la nostra ossessione di lotta alla finitudine, idee che ci hanno allontanato e ci allontanano dalla necessaria comunione con il divino che è nella totalità delle cose.

 

MB – La seconda sezione si intitola Ostacoli e appigli. Dopo la caduta, o durante di essa, si trova qualcosa a cui ancorarsi. Sembra che l’amore, specie quello per il figlio (ritratto in versi molto belli come: “Assedio e misura / di un’età rivissuta / fra i tuoi ricci”) riesca a dare uno slancio ulteriore, come dice Luzi “aiuta a vivere, a durare”. Non a caso una bella chiusa recita: “È bastata la partitura dei tuoi intenti / per smentire la morte / e insegnarmi la vita”. Non che questa pausa dalla caduta sia definitiva (“in fondo al fuoco / il futuro è cenere), ma sembra nei tuoi versi che questo fuoco d’amore aiuti a reimmettersi nel circolo tra alto e basso, tra acqua del fondale e superficie che vi si specchia. Sei d’accordo?

GB – Assolutamente sì. “L’amor che move il sole e l’altre stelle” è la forza che ci aggrega al resto del cosmo, la via per mordere l’esistenza in tutta la sua pienezza, la variabile impazzita di dolore e felicità (da qui i già citati Ostacoli e appigli) capace di armonizzarci con altri corpi, con altre anime. Eros, filìa e àgape sono fin dall’antichità i tre elementi costitutivi del concetto di vero amore che per nostra natura andiamo cercando per resistere “mentre questo viverci si oscura e tracolla”. Amare significa cercare una luce nel prossimo, nel mondo ma anche in noi stessi, capace di illuminarci e illuminare la vita donando una prospettiva per leggerla ed accettarla per quella che è stata – è – e sarà.

 

La foto dell’autore è di proprietà dei Fratelli Bodart.