Gli “sciacalli” di Montale. Riflessioni su oscurità e chiarezza in poesia – Atelier n. 20, dicembre 2000 – di Umberto Fiori

Nessuno scriverebbe poesie

se il problema della poesia

fosse quello di farsi capire.

Eugenio Montale

 

Nel febbraio del 1950 Eugenio Montale forniva, sul «Corriere della Sera», la chiave di lettura di due poesie tra le sue più oscure, il mottetto Lontano, ero con te quando tuo padre, quarto della serie nelle Occasioni, e il sesto, quello «degli sciacalli», rivelandone i moventi e ricostruendone il contesto1. Quali reazioni abbiano prodotto allora le due “spiegazioni”, non mi è noto; posso dire che a me, quando le trovai nel volume di scritti Sulla poesia (1976) diedero un senso di liberazione, ma anche di delusione, e di irritazione. Fin da ragazzino mi ero chiesto cosa c’entrassero gli sciacalli con la signora a cui il poeta si rivolgeva, chi fossero “i” Cumerlotti e “gli” Anghébeni (che istintivamente associavo a Capuleti e Montecchi), e perché intorno a loro scoppiassero spolette e accorressero squadre. A imitazione degli adulti, continuavo anch’io ad ammirare gli abiti nuovi dell’imperatore, pensando: capirò da grande. Invece, niente: nonostante l’età e gli studi l’enigma restava, e chiedere lumi a qualcuno diventava sempre più imbarazzante.

Poi, finalmente, ecco le spiegazioni dell’autore in persona. Com’erano chiari, gli aneddoti su «Mirco» e sulla genesi delle sue poesie. Gli «sciacalli», che prima incombevano come lugubri divinità egizie, erano in realtà due buffi cagnetti che sarebbero piaciuti a Clizia, se solo fosse stata lì, a Modena (e invece – ci informava Montale – era distante «tremila miglia»); il «servo gallonato» era un maggiordomo che aveva risposto a Mirco con forte accento emiliano, Cumerlotti e Anghébeni due villaggi della Vallarsa dove il poeta era stato soldato, eccetera eccetera. Ecco svelato l’arcano. Ora sì che si capiva. Anzi, si capiva anche troppo. I misteriosi mottetti erano a ben vedere – come lo stesso autore suggeriva – episodi di «un romanzetto tutt’altro che tenebroso». Ma allora, perché alzare una tale cortina fumogena? Perché non rendere un po’ più comprensibili, nel testo, i riferimenti?

Certo, i versi erano più affascinanti delle loro spiegazioni. E dunque – mi chiedevo – l’essenza della poesia contemporanea si riduce a questa secchiata di pece buttata addosso alla realtà? L’incanto poetico è un effetto del buio, come il babau?

Evidentemente, le cose sono molto meno semplici di così. E tuttavia, se si considera la poesia (e quasi tutta l’arte) del Novecento, non si può non vedere come – nel Futurismo quanto nel Surrealismo, in Trakl quanto in Eliot o in Pound, nell’Ermetismo quanto nei “Novissimi” – i risultati estetici nascano da un programmatico “oscuramento”, da una zelante distorsione e decontestualizzazione dei dati del senso comune, da un’esplosione del loro ordine familiare: esplosione dolosa, perseguita con metodo, con lucidità, anche quando vuol passare per gioco di sublimi fanciulli o per allucinata incursione oltre il linguaggio, verso l’indicibile. L’arte del ventesimo secolo sembra attenersi innanzi tutto al precetto di rendere pressoché irriconoscibile, al primo impatto, la realtà che rappresenta e anzi di condursi come se non ci fosse alcuna realtà determinata da rappresentare. L’opera non ha referente: basta a se stessa. Cose, persone, affetti, eventi, situazioni, luoghi possono offrirsi in lei solo a tratti, attraverso un gioco di specchi, un sistema di labirinti, una rete di scorciatoie e di passaggi segreti.

Le ragioni di questo “oscuramento” sono abbastanza evidenti e note: da sempre in arte, perché la rappresentazione sia efficace, occorre che la realtà si ri-presenti, che la sua presenza dia segno di sé, esca dall’ovvio, diventi sorprendente, problematica: istanza generale a cui si intrecciano, nel ventesimo secolo, la nozione sempre più acuta di una intrinseca complessità del reale (nonché del soggetto che ne fa esperienza) e la volontà di rispecchiarla.

Ma I’“oscurità” di molta poesia contemporanea nasce anche (auspice primo Mallarmé) dall’intento di purificare quanto possibile il linguaggio poetico da tutto ciò che ancora lo rende affine alla prosa e alla lingua d’uso («Donner un sens plus pur aux mots de la tribu»2). In contrasto con il linguaggio della comunicazione (ordinaria o letteraria che sia), la parola poetica identifica la propria essenza nella polivocità e nell’autoreferenzialità, e rifugge da ogni troppo esplicito e univoco “significato” che limiti e offuschi in lei il predominio del significante. L’ideale è quello di conseguire uno status estetico il più possibile vicino a quello della più asemantica delle arti, la musica. Con essa, la poesia entra addirittura in competizione («Je sais, on veut à la Musique, limiter le Mystère; quand l’écrit y prétend»3, annota Mallarmé). Basta pensare a titoli come Romanze senza parole (Verlaine), Quattro quartetti (Eliot), Musica da camera (Joyce), Mottetti (Montale), Oboe sommerso (Quasimodo) per avere un’idea del fascino che l’arte dei suoni esercita sulla poesia moderna e contemporanea.

Il primato della musicalità – o per meglio dire del “suono” come portatore di un senso ulteriore, non dicibile – pervade e informa gran parte della poesia del Novecento, che si vuole sempre più intraducibile, sempre più refrattaria alla parafrasi. Se quello che conta è l’ineffabile suggestione auratica che le parole producono con le loro alchimie sonore, il cosiddetto significato è un aspetto inessenziale, se non addirittura una zavorra di cui liberarsi, una scoria ingombrante e imbarazzante, da rimuovere attraverso la frammentazione, l’obliquità, l’ellissi. Ogni riferimento troppo diretto a ciò di cui la poesia “parla” viene puntualmente respinto come frutto di un volgare fraintendimento.

Montale ci mostra questo atteggiamento in modo esemplare, nell’articolo citato, quando lamenta che alcuni recensori si domandassero, negli anni in cui i Mottetti furono pubblicati, chi fosse Anghébeni, chi fosse «la ragazza di Cumerlotti» ecc. Di fronte all’oscurità della poesia, scrive il poeta, «la critica si comporta come quel visitatore di una mostra che guardando due quadri, per esempio una natura morta di funghi o un paesaggio con un uomo che passa con l’ombrello aperto, si chiedesse: Quanto costano al chilo questi funghi? Sono stati raccolti dal pittore o comprati al mercato? Dove va quell’uomo? Come si chiama? E l’ombrello è di vera seta o di seta gloria?»4.

Ridicolizzare le inquisizioni di certa critica è fin troppo facile; ma le richieste di chiarimento sul piano dei “contenuti” e del contesto sono davvero tutte triviali e illegittime? È poi tanto impertinente e goffo pretendere che il poeta ponga un limite ragionevole alla propria oscurità? Nemmeno Montale sembra esserne tanto sicuro, come testimonia la sua (tardiva) decisione di dar conto degli elementi che nei due testi risultavano incomprensibili.

La sorpresa e il sottile imbarazzo che queste “spiegazioni” producono nel lettore la dice lunga sul rapporto invalso nel Novecento tra poesia e senso comune, tra l’autore e la “materia” del suo poetare. Proprio a questo rapporto accennava anni fa Giorgio Agamben, prendendo spunto dal Ricordo della Basca di Antonio Delfini.

«Quando la poesia era una pratica responsabile – scriveva Agamben – era inteso che il poeta fosse ogni volta in grado di dar ragione di ciò che aveva scritto. I provenzali chiamavano razo l’esposizione di questo chiuso fondamento del canto, che Dante intimava al poeta, sotto pena di vergogna, di saper all’occasione “aprire per prosa”»5.

La razo, testimonianza di un debito della poesia con la ragione, col senso comune, con l’extrapoetico, è sostanzialmente estranea alla poesia contemporanea, per la quale «aprire per prosa» un testo equivale più o meno a violarne l’essenza, a ucciderlo (le due razos di Montale sono una preziosa eccezione). La poesia è diventata allora – per tenerci al discorso di Agamben – una «pratica irresponsabile»? I poeti contemporanei sono davvero refrattari a rispondere del loro lavoro sul piano razionale? Tutto il contrario, si direbbe. Gli autori più eminenti del Novecento si segnalano, anzi, per un’alta consapevolezza critica, intellettuale, filosofica. Se si tratta di chiarire aspetti estetici, teoretici, stilistici, compositivi delle loro opere, le risposte non si faranno attendere; ma appena il senso comune si impunta di fronte al mistero di Cumerlotti e Anghébeni (che tanto misterioso poi non è, come si è visto) e chiede chiarimenti, apriti cielo. Eh, via: se si capisse tutto, se non restasse almeno un po’ di oscurità, che ne sarebbe della poesia? Già, già. Forse però non tutte le oscurità sono uguali, non tutte sono necessarie e pertinenti; forse c’è oscurità e oscurità. Nel suo articolo, Montale precisa infatti che in questione, nei due mottetti, è “un certo tipo di oscurità”, quella «che nasce da una estrema concentrazione e da una confidenza forse eccessiva nella materia trattata»6.

I due testi risultano oscuri, insomma, solo perché la loro “materia” (il rapporto tra Clizia e Mirco, il passato di Mirco ecc.) si è concentrata al massimo (come è sacrosanto che avvenga in poesia, sottintende Montale) tralasciando numerose informazioni, indispensabili – lo si è visto nelle spiegazioni – a chiarire il contesto di riferimento. L’autore ammette di aver avuto («forse») una «confidenza eccessiva nella materia trattata»: le cose di cui parlava gli sembravano insomma talmente significative (così interpreto io), erano talmente chiare e pressanti nella sua testa, da spingerlo a pensare che anche il lettore avrebbe dovuto intuire che cos’erano Cumerlotti e Anghébeni, gli «sciacalli al guinzaglio» e via dicendo. E, se non lo intuiva, peggio per lui. Che cosa pretendeva, che gli si spiegasse tutto? La poesia non è mica un romanzetto (anche se dei romanzetti, evidentemente, ha qualche volta bisogno).

I due mottetti e le loro spiegazioni sembrano metterci di fronte a un’alternativa: o si è diretti, espliciti, comprensibili, cioè impoetici, o si è poetici, cioè oscuri. A me pare che questo dilemma nasca da un atteggiamento verso la “materia” della poesia, verso il suo “chiuso fondamento”, che è forse il momento di rimettere in discussione.

Ciò che trovo interessante, nelle argomentazioni di Montale, è che la realtà dell’oggetto del poetare, la sua integrità di “vissuto”, la sua autonoma sensatezza, non vengono mai messe in dubbio. La cosa da dire “c’è“. È là, fuori dalla poesia, prima della poesia. È chiara, è dicibile. Si tratta di stabilire come dirla, quanta parte rivelarne, quanta lasciarne coperta. La decisione verrà presa – come all’autore sembra ovvio – tenendo conto in primo luogo delle istanze proprie della scrittura poetica. Se la materia è sovrabbondante e intricata, bisognerà tagliarla, sintetizzarla; se è troppo romanzesca o prosaica, bisognerà poetizzarla isolando un elemento qua, uno là, omettendo il contesto, rimescolando i tasselli del puzzle. Il “meno” di chiarezza sarà ampiamente compensato da un “più” di musicalità e di mistero. La poesia si produrrà come un “valore aggiunto” al materiale grezzo della prosa, della realtà, della vita.

In cima ai pensieri del poeta, comunque, (su questo mi sembra il momento di tornare a riflettere) non c’è la cosa da dire: c’è il verso da costruire, il risultato poetico da ottenere. In una tale prospettiva, quella che abbiamo chiamato la “materia” della scrittura si riduce grosso modo a un pretesto, che mostrerà il suo valore solo nel testo che eventualmente a partire da esso si produrrà. Preso di per sé, l’oggetto del poetare è scarsamente interessante: un “romanzetto” appunto, che, esposto in termini immediatamente comprensibili, si riduce a poca cosa.

Poca cosa, ma sorprendentemente chiara, e certa.

Ciò che mi colpisce, nelle due razos montaliane, è la sicurezza, la semplicità con la quale l’autore racconta le “occasioni” dalle quali le due poesie si sarebbero originate; mi colpisce la sua fiducia nella parola più comune, nella possibilità di essere compreso. Dietro testi oscuri come i Mottetti ci si potrebbe ragionevolmente aspettare una “materia” ben altrimenti complessa e sfuggente, una “cosa” ai limiti del dicibile, che giustificasse le difficoltà imposte al lettore come obiettive difficoltà del dire. Invece, ecco il “romanzetto” di Clizia e Mirco.

Lascio ad altri il compito di valutare l’intrinseco interesse di questo intreccio amoroso; quello su cui vorrei riflettere è il rapporto tra ciò che “era da dire” (oggetto delle spiegazioni in prosa) e ciò che effettivamente viene detto in poesia (i due testi).

Nei versi, il “chiuso fondamento” che abbiamo appreso grazie alle spiegazioni dell’autore non è stato semplicemente sintetizzato, concentrato, stilizzato: è stato stravolto. Troppi elementi decisivi sono stati omessi. Riprendendo e rovesciando l’esempio utilizzato da Montale contro la critica “ingenua”, potremmo dire che è come se qualcuno ci mettesse di fronte un quadro tutto dipinto di color tortora e pretendesse che noi vi vedessimo una natura morta con funghi.

Una volta “tradotta” in poesia, la cosa poetata è diventata irriconoscibile. Se l’autore non ci avesse soccorso con le sue informazioni, noi saremmo ancora alle prese con l’enigma di Cumerlotti.

Dal suo punto di vista, intendiamoci, non avremmo perso molto: la “materia” del poetare, infatti, non è di per sé poetica. Solo la poesia è poetica. Se è vera poesia, deve bastare a se stessa. Nessun debito deve legarla al comune buon senso, alla vita vera dalla quale nasce, al “romanzetto” del mondo, delle persone e delle cose7.

A questo modo di ragionare siamo talmente abituati che fatichiamo a capire dove stia il problema, perché non vediamo alternative. E, se pure le vedessimo (o le intravvedessimo), i nostri pregiudizi ci spingerebbero subito a ricondurle al realismo più rozzo e ingenuo, al più gretto e antipoetico senso comune. E, tuttavia, sono esistite – anche nel nostro Novecento – prospettive diverse.

«Il mondo mi pareva un chiaro sogno / la vita d’ogni giorno una leggenda», scrive Sandro Penna8.

Quando dice «mondo», Penna intende – lo vediamo nelle sue poesie –, la realtà più familiare e più ovvia, la realtà come più o meno tutti la concepiscono; intende il cielo e i cinema, il mare e le portinerie, i prati e gli orinatoi.

Che il mondo così inteso debba apparire al poeta come «un sogno» è in fondo quello che ci aspettiamo: di per sé, infatti, la vita quotidiana è in genere per noi l’esatto contrario della poesia. Se ne può parlare, certo, a patto però di riscattarla e di renderla interessante attraverso un’adeguata trasfigurazione onirica, fantastica, estetica, intellettuale. E però, Penna non ci propone qui la sua personale trasfigurazione, il suo sogno del mondo: dice che la vita di ogni giorno (cioè l’impoetico per definizione) pare a lui, già così com’è, una leggenda (cioè materia di poesia); dice che il mondo stesso (prima ancora di essere “filtrato” dall’arte) gli pare un chiaro sogno. Si badi: quel “parere” va inteso qui non come “sembrare ma non essere”, bensì nel senso di “offrirsi, manifestarsi, mostrarsi nella propria vera natura” («Tanto gentile e tanto onesta pare»); a qualcuno questa potrà sembrare una forzatura; ma se non interpretassimo così, dovremmo poter immaginare una implicita smentita («mi pareva questo, invece era quest’altro») che nel contesto non avrebbe alcun senso. Dunque, non è il poeta con la sua arte a trasformare la vita quotidiana in una leggenda, a sognare il mondo (o a fingere di sognarlo) per rendere più seducente una realtà di per sé banale, prosaica: è la vita di ogni giorno a mostrarglisi nella sua natura di “leggenda” (cioè materia di poesia), è il mondo stesso a manifestarsi in se stesso come un sogno; non però un sogno contorto, indecifrabile, irriferibile: un sogno “chiaro”.

A partire da questa lettura dei due versi citati, possiamo forse cercare di capire che cosa volesse dire Penna quando – in un intervento del 1959 – dichiarava la sua meraviglia per come in una poesia «tutto è bene spiegato»9.

Che la sua possa suonare a molti come una frase da scolaretto la dice lunga sull’idea di linguaggio poetico che si è imposta negli ultimi centoventi anni e ancora oggi prevale. «Spiegato?». Ma la poesia non deve spiegare. Un saggio o un articolo “spiegheranno”, e anche un romanzo o un racconto, a loro modo ed entro certi limiti; ma la poesia non può ridursi a spiattellare le cose che ha da dire. La poesia è puro linguaggio, è musica, non è una relazione, una didascalia, un verbale. E, poi, spiegare che cosa? Che cos’è questo “tutto” che, secondo Penna, sarebbe “bene spiegato”?

Il “tutto” di cui parla Penna è quello che il poeta ha da dire. È la “materia” della poesia nella sua determinatezza, nella sua integrità. È il «chiaro sogno» della vita di ogni giorno. “Spiegare” significa qui dispiegare fedelmente in parole la sua “leggenda”, in modo che nulla di essenziale manchi («tutto è bene spiegato»). Significa essere fedeli al modo in cui ogni cosa «pare», alla chiarezza del sogno che il mondo è.

Va da sé che la chiarezza della poesia (fine implicito dello “spiegare”) non può essere equiparata a quella di un testo scientifico o di un resoconto in prosa. Non è chiarezza concettuale, didascalica. E tuttavia, comporta un rigore, una fedeltà alla cosa. Rigore e fedeltà che nascono non da una pedissequa aderenza all’oggetto e neppure da intenti banalmente “comunicativi”, ma dall’amore, dal rispetto profondo che lega la poesia alla forma che essa ha riconosciuto nel suo movente.

E però, la poesia non è pittura, non è scultura, non è un’arte figurativa. In che modo la “forma” di ciò che va detto può essere fedelmente rappresentata?

Se vogliamo farcene un’idea, dobbiamo forse risalire di qualche secolo la corrente, e tornare a leggere quei celebri versi del Purgatorio in cui Dante dichiara: «I’ mi son un, che quando / Amor mi spira, noto, e a quel modo / ch’e’ ditta dentro vo significando»10. È dall’amore che nasce la poesia. E l’amore nasce dalla “presenza” di una cosa (sia essa Beatrice, la siepe dell’Infinito o, come nel caso di Penna, i fanciulli). L’esperienza d’amore dapprima fa ammutolire la lingua di fronte al suo oggetto, le fa sentire dolorosamente il suo limite («ogne lingua devèn tremando muta», all’apparire di Beatrice); ma proprio questo silenzio poi, a chi lo sa ascoltare, «ditta dentro».

Il suo dettato (il dictamen, la “materia” della poesia) non è un impulso informe, una generica “ispirazione”: ha in sé un «modo», una misura, un passo, un respiro, una sintassi profonda, una “logica”, la stessa che anima la cosa. La poesia, che non vuole tradire l’amore che la muove, ascolta con la massima attenzione («nota») quel «modo» e lo significa, lo spiega, lo dispiega in segni. La “materia” del dire poetico, insomma, la “cosa” che la poesia ha da dire, non è materiale grezzo da “elaborare” poeticamente: ha già in sé la propria articolazione; è già, in qualche modo, composta. È già “leggenda”, è già poesia. Non si tratta di poetizzare il “romanzetto” della realtà rendendolo più oscuro, più seducente, ricavandone la poesia come un valore aggiunto: si tratta di riconoscere la forma vera di ciò che muove a dire, e corrisponderle.

Molta poesia del Novecento sembra avere smarrito ogni fiducia nel “reale” come fonte e paradigma della significazione poetica. Di più: sembra sfuggire programmaticamente il reale o, comunque, tenerlo a debita distanza e prenderlo con le pinze, come ciò che è eminentemente impoetico. D’altra parte, a ben vedere, il reale (o il suo spettro) le è indispensabile a creare per contrasto l’immaginario di cui si nutre (o crede, o finge di nutrirsi). A forza di servirsene come di una pura antitesi o come di un materiale da elaborare, essa ha cessato di guardarlo in volto, di ascoltarne la forma, di leggerne la “leggenda”. E d’altra parte, paradossalmente, si ha l’impressione che questa poesia creda alla solida esistenza di un cosiddetto reale, alla sua (seppur grigia) verità, alla sua dicibilità (in prosa!) ancor più ingenuamente della poesia apparentemente più “realista” (se non fosse così, perché temerne i cattivi influssi?).

Molta poesia fugge la “realtà” (e al tempo stesso le accorda un credito sorprendente), perché tende a identificarla con la scena radicalmente “spiegata” (cioè, in questa prospettiva, rischiarata e profanata) che discorsi ben più autorevoli del suo – la scienza, l’ideologia, la chiacchiera quotidiana – hanno costruito negli ultimi due o tre secoli. Quanto più i saperi “forti” (filosofia, scienza) si imponevano come detentori esclusivi della verità del mondo, tanto più la poesia veniva confinata nel letterario, nell’estetico, nell’immaginario, nel “poetico”, sottraendole ogni confronto diretto con una realtà condivisa. Al poeta moderno, così, tutto ciò che è comune finisce per sembrare ovvio, pregiudicato, banale, trito, prosaico (quando ne parla, è quasi sempre attraverso il filtro dell’ironia). Sul piano esistenziale, egli partecipa ogni giorno, come chiunque altro, alla realtà del mondo umano, ma questa partecipazione è proprio ciò che gli sembra minacciare perennemente l’autarchica bellezza dei suoi versi.

Un esempio lampante (e struggente) di questa lacerazione tra la realtà ordinariamente umana del poeta e le istanze di una parola “pura” si ritrova alle origini stesse della poetica del Novecento: è il Tombeau d’Anatole che Stéphane Mallarmé cercò di scrivere tra il 1879 e il 1880 e non riuscì mai a compiere11. La “materia” – il lutto per la morte di un figlio di otto anni dopo una lunga, penosissima malattia – paralizzava la parola poetica con la sua terribile urgenza, con il suo inevitabile patetismo, con la sua insostenibile ovvietà. Il significato, fino allora tenuto a bada e schivato dal poeta del Fauno con la suprema eleganza del matador che schiva il toro, aveva colpito al cuore. La “cosa” da dire c’era; anzi, c’era soltanto lei, e non poteva essere detta non perché indicibile, ma perché (apparentemente) troppo dicibile, troppo comune, troppo umana per diventare poesia. Nei duecento brevi frammenti che costituiscono il tormentatissimo abbozzo del poemetto incompiuto, la prevedibilità dei sentimenti di un padre privato del suo bambino, le esclamazioni, le domande straziate e smarrite, le lacrime che accompagnano ogni lutto, sembrano soverchiare di pagina in pagina la ricerca di una parola autenticamente poetica. E, quando pure la parola poetica riesce faticosamente a emergere e a prendere forma, la sua composta bellezza risulta comunque dissonante, scandalosamente inadeguata alla materia bruciante con la quale si misura. Mallarmé, propugnatore di una poesia impersonale e “pura”, annota sgomento: «Quoi, ce que je dis / est vrai, – ce n’est / pas seulement / musique – » («Come, quello che dico / è vero – non è / soltanto musica –»)12.

Per tutto un Novecento che in Europa possiamo far cominciare dagli ultimi decenni del secolo precedente, l’invadenza della realtà più elementare, più ordinariamente umana, sembra costituire una perenne minaccia all’integrità della poesia. La poesia rifugge il reale, lo nega, oppure lo stravolge, lo esorcizza, lo vampirizza; se vi si accosta, è quasi sempre attraverso il filtro dell’ironia o di un’ideologia, sia essa il marxismo, la psicanalisi o la linguistica. Con le cose così come si presentano ogni giorno a tutti, raramente si misura.

Si dirà: dove sta il problema? Quale credito, quale autorevolezza possiamo ancora concedere alla “realtà” così concepita? Non si starà per caso proponendo alla poesia una tardiva, anacronistica forma di “realismo”?

Mi rendo conto che parlare di “realtà” alla fine di un secolo come quello appena trascorso significa passare per ingenui, per sprovveduti. Ma come vogliamo chiamare ciò in cui ogni giorno conveniamo, l’orizzonte entro il quale le nostre facce si danno a vedere le une alle altre?

È la “leggenda”, il «chiaro sogno» di questo persistente «luogo comune»13, io credo, a fare appello oggi alla poesia.

Intendiamoci. Non è mia intenzione, qui, prendere partito per una poesia “realista” in contrapposizione a una poesia “pura”, “astratta”, “assoluta”, sostenendo la scelta con argomenti. E poi, quali argomenti potrei addurre? La “realtà” a cui penso non ha nessuna oggettività, non ha nessuna autorevole interpretazione del mondo alla quale rinviare, se non quella che ogni giorno si fa segretamente, misteriosamente valere presso ognuno di noi (salvo poi sottrarsi quando la si voglia afferrare). È la realtà, oscura e trasparente, del lutto di Mallarmé, degli orinatoi di Penna. Le res che la costituiscono non sono misurabili, la loro presenza non è un dato di cui si possano fornire o pretendere prove. Eppure, per certi aspetti, è ancora più imperiosa di quella dei cosiddetti fatti.

Neppure è mia intenzione propugnare una poesia “chiara” e “facile” in contrapposizione a una “oscura”, “difficile”, una poesia “comunicativa” contro una cifrata, esoterica, chiusa. Porre la questione a partire dal problema della cosiddetta “comunicazione” darebbe luogo – io credo – a malintesi inestricabili e soprattutto sterili. La comunità, la comunanza che di ogni comunicazione è necessario fondamento non è mai un «dato» (sociologico, culturale, linguistico) nemmeno per la poesia che apparentemente le si affida e osa dire come tutti “strada”, “prato”, “casa”, osa dire «Io mi sono seduto qui per terra» (Sbarbaro), sfidando l’oscurità che in questa chiarezza si cela.

Non voglio negare che il primo livello, dal quale la differenza emerge, sia proprio quello della “leggibilità” di un testo, della sua trasparenza, della sua coerenza logica, della sua comprensibilità; su questo piano, mi sembra legittimo pretendere che il poeta non intorbidi inutilmente, decorativamente, le sue acque, e che sia in grado – almeno fino a un certo punto – di dare conto di ciò che ha scritto; ma se ci limitassimo a rivendicare i diritti del lettore e i presunti doveri di chi scrive, resteremmo alla superficie del problema, anzi ne traviseremmo sostanzialmente la natura. (Oltretutto, le ragioni dell’oscurità sono spesso troppo serie per essere liquidate sommariamente come oggi qualcuno tende a fare e, d’altra parte, la chiarezza è sempre pronta a farsi vuota maniera, proprio come è accaduto a un certo oscurismo novecentesco).

Ciò che volevo rimettere in questione, con questi appunti, è il rapporto della poesia (del poeta) con la sua “materia”. La domanda è: oltre a un modo per dirlo, la poesia ha qualcosa da dire? E, se ce l’ha, come si configura? È il “vero” che sfidava la musica nel Tombeau d’Anatole di Mallarmé o è mero “contenuto” che nella parola poetica non può che dileguare («abolirsi» è il verbo mallarmeano)? È puro pretesto, materiale grezzo da plasmare per produrre bellezza o ha invece una dignità, una forma, un’esistenza autonoma al di fuori della poesia? E ha senso, allora, pensare a una fedeltà, a una corrispondenza della scrittura poetica al “dettato” che da questa materia proviene? Ha senso pensare alla poesia come “spiegazione”, come perfetto dispiegamento della cosa poetata?

Insomma, che ne è di Euridice? Ha mai avuto un volto, uno sguardo, un passo? La sua presenza (la sua mancanza) nel canto di Orfeo, la sua rappresentazione, la sua significazione, come si lega alla sua vera forma perduta, alla sua realtà? La voce che la invoca, invoca qualcosa, o nulla?

Umberto Fiori

Note

1 Eugenio Montale, Due sciacalli al guinzaglio, «Corriere della sera», 16 febbraio 1950, poi nel volume Sulla poesia, Milano, Mondadori, 1976, p. 84.

2 «Dare un senso più puro alle parole della tribù».

3 «Lo so, si vuole limitare alla Musica il Mistero a cui lo scritto ambisce».

4 Eugenio Montale, op. cit., p. 87.

5 Giorgio Agamben, Idea del dettato, Idea della prosa, Milano, Feltrinelli, 1985; cfr. anche Il dettato della poesia, Categorie italiane, Padova, Marsilio, 1996.

6 Eugenio Montale, op. cit., p. 87; cfr anche, a pag. 80 dello stesso volume, la lettera a Renzo Laurano su un altro mottetto, il quinto: «Questo nostro carteggio Le proverà come nascono certe pretese oscurità in me: da eccesso di confidenza. Origine tutt’altro che intellettuale!». «Non ho mai cercato di proposito l’oscurità», dichiara Montale (Parliamo dell’ermetismo, «Primato», a. I, n.7, 1° giugno 1940); ma che quella delle Occasioni sia in qualche modo programmatica, è lo stesso autore a raccontarlo nella Intervista immaginaria («La rassegna d’Italia» a. I, n.1, Milano, gennaio 1946): «Temevo che nelle mie vecchie prove quel dualismo fra critica e commento, fra poesia e preparazione o spinta alla poesia (contrasto che, con sicumera giovanile, un tempo avevo avvertito anche in un Leopardi) persistesse gravemente in me. Non pensai a una lirica pura nel senso ch’essa ebbe anche da noi, a un gioco di suggestioni sonore; ma piuttosto a un frutto che dovesse contenere i suoi motivi senza rivelarli, o meglio senza spiattellarli» (entrambi gli interventi si trovano nel volume Sulla poesia, Mondadori, Milano, 1976).

7  Lo stesso Montale, d’altra parte, sembra rimettere in gioco questo vincolo, mentre discute (Sulla poesia, op. cit., p.105) un giudizio di Gide su alcuni versi di Eluard («Dovrà dunque la poesia […] sacrificare qualunque apparenza di significato comune al solo incantesimo verbale?») o recensisce perplesso un poemetto di Saint-John Perse, osservando: «I poeti e in genere gli artisti d’oggi (non tutti, ma molti fra coloro che contano) si sono convinti che l’arte non è data dal contenuto, dal “soggetto”, ma dal modo di trattarlo, dal grado di cottura della pietanza; ed hanno cercato, in conseguenza, di ridurre al minimo l’occasione o il pretesto che dà l’avvio all’opera poetica. I poeti di un tempo spiegavano e commentavano il loro stato d’animo nel corso stesso della loro poesia, ogni loro lirica era una ben dosata miscela di poesia (intuizione) e “letteratura” (tessuto connettivo, commento esplicativo). Oggi i poeti come Perse vogliono darci la musica, il tono, negandoci la materia grezza, il dato, il pretesto. Su questa via esistono evidentemente infinite gradazioni; i surrealisti, per esempio, pretendono di pescare direttamente nel pozzo di San Patrizio del subconscio senza alcun intervento della ragione; altri, come Perse e certo Eliot, non rinunziano alla coscienza, al nesso razionale che lega le immagini, ma si rifiutano di incorporare i nessi logici del poema» (Il “Nuovo Colombo” della poesia francese, «Corriere d’informazione», 26-27 marzo 1951, poi in Sulla poesia, op. cit., p. 394).

8 Sandro Penna, Il caldo, il freddo delle sale d’aspetto, in Stranezze, Milano, Garzanti, 1976, p. 61.

9 L’intervista fa da introduzione alle poesie di Penna nell’antologia Poesia italiana contemporanea, a cura di Giacinto Spagnoletti, Parma, Guanda 1961, ed è stata ristampata nel testo La poesia che parla di sé, a cura dello stesso Spagnoletti, Salerno, Ripostes, 1996.

10 Dante Alighieri, Purgatorio, XXIV, vv. 52-54.

11 Stéphane Mallarmé, Per una tomba di Anatole, Milano, SE, 1992.

12 Stéphane Mallarmé, op. cit., frammento 192, p. 177.

13 Riprendo questa nozione dal libro di Rocco Ronchi, Luogo comune. Verso un’etica della scrittura, Milano, EGEA, 1996.