Giuseppe Martella, “Porto franco (Arcipelago Itaca Edizioni, 2022

Postfazione di Rosa Pierno, nota a cura di Federico Migliorati

A un primo sguardo i versi d’esordio di Giuseppe Martella potrebbero richiamare quel divertimento palazzeschiano con la parola che si muove rabida e fremente sul rigo, liberata da ogni orpello linguistico. In realtà per questo profondo intellettuale, la poesia assurge a elemento idiomatico del nostro tempo tramite la quale fecondare in forma iconica un pensiero ritmato e percussivo. Il ricorso massiccio a svariate figure retoriche (anàfore, chiasmi) connota un corpus letterario che si fa apprezzare per una sperimentazione che lungi dal mostrare di sé solo l’apparenza, penetra nei gangli di un’espressività forte e prorompente. Lampi fugaci, taglienti epifanie, mondi contrapposti nella medesima esperienza esistenziale: così la parola giunge scarnificata per un dire dal plurimo senso. La vita quotidiana assurge a simbolo, a elemento di studio, si fa verso vibrante e scostante, lavorìo sommesso che spicca nelle strofe libere, talvolta abitato da calembour. È una prova muscolare di conoscenza e di maieutica del sé quella che Martella pone in evidenza uscendo dalla poesia semplicemente descrittiva-evocativa-interpretativa così in voga al giorno d’oggi per tentare nuovi sentieri da battere con proficuità e coraggio. Corpo e anima sono inestricabilmente uniti: coincidono, servono al verso per architettare un quadro unitario di dissezione-ricomposizione sino a confondere i due livelli. “Non ho una voce mia”, scrive il poeta: il suo, del resto, è un verso che accoglie, ascolta, insiste in una ricezione dall’altro, con generosità e acutezza. Sovente ci troviamo ad assistere a un’apoteosi di elementi rinvenuti inconsciamente, disposti su un tavolo del pensiero, tessere di un mosaico che si incastrano. Scaglie di oggetti, luci che tagliano radenti fessure, mari aperti, punti ciechi, radio che recitano le loro litanie, giochi di fanciulli, “accidenti” casuali di una giornata tipo: è un florilegio di esperimenti, un’empirica forma di dosare parola con parola per argomentare. Sono scariche elettriche, geometrici scarti nell’esistenza a muovere il periodare, il fraseggio frastagliato che non ha come alimento quotidiano che “quel codice prescritto/che mescola gli inferni ai paradisi”, nelle “doglie della vita”. Come in un aforisma socratiano anche Martella coglie in negativo l’incapacità di definirsi (“non so chi sono”) e l’unico elemento tramite il quale addivenire a un’affermazione è quella di ricorrere al perdono che mondi dall’inconoscibile oppure “interrogare la luce”. Il peregrinare nel tempo lascia spazio a una dilatazione dello stesso, intriso di fragmenta di un “penultimo traguardo”: permane, tuttavia, un senso di confusione, di incertezza, tra dolore e piacere, suono e cacofonia, elementi della finitudine e limitatezza connaturati naturaliter all’uomo. A “surclassare” l’Io narrante nel quale percepiamo echi turoldiani (il pellegrino che bussa alla porta, seppur inatteso) restano vòlte celesti e immensità marine, con accenni di antropomorfismo a  obliare un poco il “maleterno di vivere”, e si registra una “meravigliosa turbolenza”, panico desiderio di eternità e immortalità, in un’epoca in cui “tutto è in affitto” e il poeta, come tutti noi, permane “sulla soglia del niente”. Il caleidoscopio di sommovimenti emotivi, di slanci vitali e di torsioni verso l’interiorità lo si coglie nei cristallini versi in cui l’autore, evocando lo spettro luminoso, riassume “ombre e assenze/ ciò che mi sfugge/ciò che mi sovrasta”, tra confessioni ed emergenze vitali, elementi contrapposti e procelloso andare.

 

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Scogliere, sassi, sterpi sui dirupi
serpi, forse annidate
nei calanchi
l’isola mostra i fianchi scavati
le gengive dei denti
avvelenati dal cemento
e sento gemere piano le radici
dei radi alberi, zolle di verde
perse nel mare d’azzurro
chiaro scuro di mare e cielo
con qualche vena di ruggine
negli occhi, qualche stilla di sangue
nell’oro di conchiglia
nell’eco martoriata dei riflussi
delle maree, dei tremiti profondi
delle faglie
nelle aeree schermaglie degli alisei,
nell’antico rifugio degli dei.

 

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E sia questa la festa
la fine della festa
e tutti i doni festoni colorati
vengono buoni come i nodi
che vengono al pettine – si dice –
vengono e vanno – e chi li conduce? –
stanno
come faci, tremule, falci
tralci di vite, recise o quasi
i vasi dei fiori appassiti
nelle dimore vuote, o quasi
in ombra, dove negli angoli
si tace il giorno perché la luce
sfiora – soltanto sfiora – le cose.

 

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Non ho una voce mia, da lungo tempo
ne sono stato derubato nell’ascolto
degli altri, sono ventriloquo figlio
del ventre tuo amato scrittore
votato a tutte le inezie del tuo intendere
disanimato ora sbattuto come un mostro
in prima pagina, come un capodoglio
spiaggiato, come un’enorme conchiglia
vuoto di un mitile essiccato
che echeggia tutte le voci del mare.

 

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Giuseppe Martella è nato a Messina e risiede a Pianoro (BO). Ha insegnato letteratura e cultura dei paesi anglofoni nelle Università di Messina, Bologna e Urbino. I suoi studi riguardano in particolare il dramma shakespeariano, il modernismo inglese, la teoria dei generi letterari, il nesso fra storia e fiction, l’ermeneutica letteraria e filosofica, i rapporti tra scienza e letteratura e tra letteratura e nuovi media. Dopo essersi ritirato dall’insegnamento, da alcuni anni si interessa anche di poesia italiana contemporanea, collaborando con saggi e recensioni a diverse riviste cartacee e online. Una sua poesia inedita, Kenosis, è risultata finalista al premio “Lorenzo Montano” 2020. Altri inediti sono già apparsi su “Il giardino dei poeti”, “Versante Ripido” e la sezione Instagram di “Poesia Blog Rainews. “Porto franco” è la sua opera prima in versi.

 

Federico Migliorati è laureato in Giurisprudenza e giornalista pubblicista. Collabora con testate dell’area bresciana e mantovana nonché con l’Indice dei Libri del Mese, il Quotidiano del Sud e i lit-blog Laboratori Poesia e Avamposto-Rivista di poesia. Membro dell’Accademia Pascoliana, ha curato e dato alle stampe volumi dedicati ad alcuni protagonisti della letteratura del Novecento. Di lui ha parlato, tra gli altri, Maurizio Cucchi.

 

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