Giuseppe Di Bella – Inediti

Giuseppe Di Bella, compositore, cantautore e poeta siciliano. Ha studiato per un periodo (dal 2003 al 2005) a Bologna, presso la Facoltà di Lettere, dove non si è laureato per intraprendere un lavoro a tempo pieno presso la casa editrice “con-fine” per cui ha curato come caporedattore una rivista d’arte contemporanea diffusa in 13 paesi nel mondo e una collana di poesia dal nome “Sete”.  Tornato in Sicilia ha diviso la sua attività tra la ricerca musicale e quella poetica, cercando di riunirle e tornare alle origini delle due fonti. Ha prodotto diversi lavori discografici e libri, tra cui “Il tempo e la voce” (lavoro di traduzione in volgare siciliano del ‘200 e musicalizzazione di 12 liriche della Scuola Poetica Siciliana) e Orfeo, un concept album sul mito in forma di melodramma contemporaneo, entrambi finalisti di diversi premi nazionali tra cui il Tenco e il Parodi. Dal 2005 al 2012 ha collaborato con la casa editrice Bolognese con-fine e diretto assieme ad Alex Caselli una collana di poesia che ha pubblicato diversi poeti tra cui Paolo Maccari e Fabrizio Bajec. Nel frattempo è stato anche recensore per l’Annuario critico di Giorgio Manacorda. Nel 2011 ha pubblicato il suo primo libro di poesie, “Le gradazioni del bianco,” Premio Nazionale Gesualdo Bufalino presso l’università di Catania, nel 2018 il libro-cd “Fuddìa”, e sta lavorando da un anno e mezzo a un lavoro interamente poetico dal titolo “Veleni e contrattempi”, ispirato a un verso di Paul Éluard. Di recente pubblicazione sono suoi lavori discografici come “Sette Arcangeli” e una composizione dal poeta David Maria Turoldo, musicata dal compositore Marco De Biasi e prodotta per l’etichetta palermitana Almendra music.

 

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Neve

 

Ho scoperto solo uscendo che fuori nevicava
e il cane era una volpe, la strada un quadro russo
nel silenzio che estendeva fino a me le voci
dalle auto, in un continuum.
Ma la tua icona era la stessa, persa
da quando qui non era altro che il mondo
e ogni balzo stanco e rumoroso
si alzava e consumava in un vangelo
Non c’è più niente, adesso, a parte il soffio
di una volta gotica ad arcate
che stende la sua ala sulla notte
come se fosse vero che noi siamo
opera, testimonianza e scelta
e non destino emerso, acqua d’inconscio.
Non ci sarà più spazio, dopo
non ci sarà nient’altro
che la violenza estetica del mondo.
E me, che non perdono, e lei che dice:
“io sono la realtà, non sono un sogno…”

 

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Benzodiazepine

 

Serotonina o Valium è lo stesso
evocherei anche un Deva se servisse
qualunque cosa spinga oltre il contesto
e faccia respirare un mare un fiume
di calma e ottundimento
perché se il paradiso non è questo
allora è un volo implume, un muto affresco
lassù che non lo puoi toccare o crepa
che torce il collo in una insana piega
per contemplare il bello come un fatto
che ti appartiene senza alcun contatto
ed io non voglio più che sia quel nome
o quel colore di oro e panna cotta
se entro nella nuvola di gesso
di un oratorio del Serpotta
Allontanare il male è un’altra lotta
e adesso che ho paura lo comprendo
rimango qui con lei, che trema in gola
tra il dubbio e la parola, finché dormo
e mi è vicino il luogo in cui non è
visibile o tangibile alcun torto
e mi riposo come fossi morto

 

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La nebbia

 

L’iconostasi bianca si solleva sopra i tetti
Del mio quartiere ebraico-popolare
Titanica, cangiante, come il corpo
Di Tifeo che lentamente avanza e si trasforma;
Prima la testa d’asino, le ali, poi si amplia
Virando dove le luci arancio dei lampioni
Ne fanno un’astrazione incandescente.
Da noi la nebbia è detta “la paesana”,
Perché culla ed ottunde eternamente.
A volte è un diadema che aureola
Il dorso madonita, altre è una sindone marmorea
sullo skyline del borgo verso oriente.
In quelle albe non c’è niente a parte il rostro
Delle cime più alte. La sua aderenza
È il simulacro contro l’immanenza
Esautora la terra, il vaniloquio ansante delle fronde.
Allora nella notte della Vergine puoi scorgere
Figure filiformi nere, statue di Giacometti
Dondolare al centro di una piazza
E spaventare i vecchi che osservano dai vetri.
Se in sogno la scenografia impalpabile
Ospita la fiera dei morti, potrai comprare oro e garantirti
La gioia e la fortuna per cento anni. Ma
Chi sfora la misura sarà l’amante stesso della morte.
La nebbia né metafora né archetipo o barriera,
Soltanto il segno di quest’atmosfera
La sua essenza profonda. Il rovescio della gioia
L’interno della fodera da cui spiare i giochi
E tutti i sentimenti che divengono
sentori oltre un abbaglio primordiale.
La nebbia è tutto quello che si tace,
Esteso alla quarta dimensione.
Stanotte sembra un fumo parigino, seduce e scorre
Mentre mangio una mela al davanzale.
Dieci anni fa, Daniele, ti ricordi…
Quel cielo sopra il promontorio dove
La luce dell’insegna al neon dell’ambulante
Dal basso proiettava un Teatro d’ombre,
Le nostre due figure sulla nebbia
Come sullo schermo panoramico
Nel cinema agli esordi, e lo stupore
Di bimbi o di aborigeni
Davanti all’immagine che avanza…

 

 

Fotografia tratta dal sito di Almendra Music