Giuseppe Cinà, “L’arbulu nostru – Il nostro albero” (La Vita Felice, 2022)

Nota di Giuseppe Barbera

L’agricoltura mediterranea, per affrontare la complessità dei sistemi produttivi contemporanei anche in risposta alle indicazioni comunitarie del Green Deal, è in cerca di strategie alternative che tengano insieme le potenzialità materiali e immateriali dell’agroecologia. In suo nome, infatti, si tenta di trovare, studiando e innovando i sistemi tradizionali, le soluzioni. Molti sono i saperi necessari. Storia, antropologia, urbanistica, geologia e altri ancora non sono, già essi, di ordinaria e diffusa competenza ma per una conoscenza multidisciplinare bisogna ulteriormente allargare l’orizzonte culturale fino a intendere e comprendere le opportunità offerte dall’arte e dalla letteratura che accrescono e diversificano i saperi oltre il prevedibile, arricchendoli di immaginario e profondità senza confini di tempo e spazio.  Ciò avviene anche esplorando conoscenze abbandonate, lingue in disuso, emozioni capaci di risvegliare saperi antichi e sollecitare nuove attenzioni.  Sono conoscenze che la storia mediterranea ben intende, anche se dimenticate o oscurate dai temi e dai linguaggi della tecnoscienza così come si è evoluta nei secoli. Si è dimenticato, ad esempio, come per secoli siano state la poesia e la prosa a trasmettere il sapere agricolo. «Così poetavo il coltivar le campagne … così poetavo gli alberi» cantava Virgilio in versi capaci di spiegare la natura, l’agricoltura e le sue leggi molto più efficacemente di quanto oggi facciano milioni di pubblicazioni scientifiche spesso indispensabili solo a costruire carriere accademiche.  Si è anche dimenticato di quante cose svelassero le lingue antiche e i dialetti ad esse collegate: non solo conoscenze ma anche memorie, sentimenti, emozioni.

Ecco, allora, perché il libro di Giuseppe Cinà L’arbulo nostru/ Il nostro albero (testo in dialetto siciliano con traduzione a fronte, ed. La vita Felice, 2022, 14 €) può diventare, a chi è abituato ma non assuefatto al linguaggio efficentista ma riduzionista del sapere agricolo moderno, preziosa indicazione e strumento.  Che “le dolcezze e le ruvidità dell’ulivo trovano perfetto riscontro in quelle del dialetto siciliano” e che “la poesia sia strumento di conservazione e innovazione della lingua” è l’intenzione ben condivisibile di Cinà a partire dalla costatazione di quanta ricchezza vi sia in tal senso nelle terre in cui l’olivo è “principio fondativo della patria mediterranea”. In effetti, nel Mediterraneo nessuna altra coltura ha segnato il paesaggio al punto da definire “una civiltà dell’olivo”, “scena del teatro dove si è compiuta la storia”. Sono parole di Braudel (le prime) e di Vidal de la Blanche (le seconde). Da qualunque punto di vista si guardi al suo paesaggio, non si può non incontrare l’olivo ed è la sua presenza a tracciarne i confini più del clima, della topografia, della geopolitica. Il clima è troppo variabile, pur all’interno della regola comune della lunga e arida stagione estiva; le forme topografiche (i crinali e i bacini idrografici) avrebbero escluso imprescindibili aree; i confini politici sono per loro natura mutevoli. Non si può ricorrere neanche alla vegetazione naturale, fin troppo alterata per risultare indicativa. L’eccezione però, fin dai tempi di Plinio, è proprio quella della presenza dell’olivo sia nella forma selvatica che in quella coltivata. La natura pone infatti l’oleastro come elemento caratterizzante delle più diffuse associazioni vegetali della macchia mediterranea e l’uomo lo ha ovunque addomesticato. L’albero dono di Atena che i Greci preferirono al cavallo, vive dai confini del nord a quelli del sud del mare nostrum.

Così è stato per millenni ma la natura e la civiltà mediterranea sono adesso minacciate dalla nuova epoca dell’Antropocene, da un dissidio difficilmente sanabile tra l’uomo e la natura. Lo stesso olivo ne è vittima: dopo millenni di equilibrio ambientale garantito dalla cura dell’uomo, fenomeni come i cambiamenti climatici e la globalizzazione hanno modificato i caratteri consolidati dell’olivicoltura mediterranea. La monocoltura e un insieme di trascuratezza colturale e culturale, sottovalutazione ecosistemica, demagogia, antiscientismo hanno concorso alla presenza negli oliveti pugliesi di un batterio devastante di origine esotica (la Xylella) mentre nuove aree produttrici sono in espansione sui mercati internazionali invogliate da condizioni climatiche divenute favorevoli, dalla mancanza di vincoli storici o paesaggistici, dal successo economico degli oliveti ad elevata densità che affollano migliaia di alberi in sistemi di breve durata ma interamente meccanizzabili, in spregio al ruolo ambientale, alla circolarità ecologica, al ruolo di contenimento del carbonio nel legno e nel suolo.

Servono quindi le poesie e quelle di Cinà non possono non colpire chi è abituato a considerare il mondo dell’olivo diviso in parti contrapposte. Da una, alberi che hanno l’imperativo di produrre quantità e qualità in sistemi monocolturali intensivi; dall’altra, esemplari plurisecolari di paesaggi trascorsi, salvaguardati nel continuo crescere del consumo di suolo da una ipocrita generosità che li risparmia dall’abbattimento. Sarebbe bene, infatti, tutelare non solo la singola monumentalità ma oliveti e paesaggi tradizionali e, di ciò consapevoli, si istituiscono “registri nazionali” senza che ad essi segua consapevolezza di un valore insieme colturale e culturale e misure di sostegno che premino la multifunzionalità. Il valore degli oliveti tradizionali, in coltura promiscua ed estensiva, non è somma di quintali di olive, ettolitri di olio, tonnellate di carbonio sottratto all’atmosfera, biodiversità salvaguardata, memorie conservate. Serve un apprezzamento sistemico per misurare e comunicare multifunzionalità, complessità materiale e immateriale e se non si può fare a meno di economisti, agronomi e climatologi servono anche artisti e letterati. E poeti perché, come scriveva Primo Levi, “chi ha sangue di poeta sa trovare ed esprimere poesia anche parlando di stelle, di atomi, dell’allevamento del bestiame e dell’apicoltura”. Serve che lettere e arti riprendano lo spazio che hanno avuto nella comprensione del mondo naturale e dei rapporti con l’umano. Oggi, nuove scienze immaginano alberi coscienti, senzienti, con i quali diventa possibile comunicare.  Alberi che parlano, amano, apprezzano la musica, hanno paura e memoria. Convinti di comprenderli meglio, con linguaggio ambiguo si rendono i vegetali umani, assoggettandoli al nostro universo cognitivo ed emotivo e al nostro lessico. Con atteggiamento neocolonialista li obblighiamo alle lingue dei dominatori e ci imponiamo ad essi. Li vogliamo simili a noi così da continuare a essere i padroni della Terra: despoti assoluti di piante e animali che con noi, invece, partecipano a un unico sistema, legati dalle leggi della ecologia. Se volessimo prenderne effettiva cura, come avviene negli ecosistemi, riconosceremmo che bisogna stringere alleanze e non imporre domini.  Vanno allora cercati o ritrovati efficaci linguaggi complementari perché sappiamo che, per i campi che esplorano, quelli del paesaggio agrario e dei giardini, dove il materiale si unisce con l’immateriale, un nuovo alfabeto si trova solo nell’incontro tra discipline scientifiche e umanistiche.

Cinà non ha dubbi sul fatto che “l’ulivo e la sua poesia stanno in campagna” non nei laboratori, negli studi e negli uffici. Il libro, poesia dopo poesia, percorre il rapporto tra l’uomo e l’albero dai tempi del mito ad oggi, mai nascondendo pensieri che attraversano la storia e si confrontano con le incertezze del futuro al punto da offrire indicazioni agronomiche e paesaggistiche che, seppure attente alla tradizione, sono perfettamente in linea con il sapere agroecologico contemporaneo. L’autore usa la sua poesia, ma ne rafforza l’intento “politico” richiamando quella degli altri: il letto dell’Odissea, i frutti da non cogliere di Saffo, il placido ulivo di Pascoli, il film di De Santis “Non c’è pace tra gli ulivi”, gli olivi di Sciascia “che hanno a che fare con la fede”.

Nella prima poesia, il rametto di ulivo portato da una colomba sull’Arca ricorda che ancora adesso, e in attesa di nuovi diluvi, “siamo ancora vivi, diamoci aiuto!”. Nella seconda, lascia la parola ad Omero, consapevole che nessuno potrebbe dir meglio. Più oltre ricorda il taglio sacrilego di un olivo sacro, riprendendo una orazione greca. E nella storia mediterraneo conferma l’eterno incontro/scontro con la diversità: “occhi nativi…occhi marinara” scrutano arcieri nascosti dietro una duna di sabbia e “dal fondo della barca non armi/ ma rami di ulivo alzano i marinai in cerca di asilo”. Ma la domanda è sempre quella: Vengono in pace o c’è inganno?  Vennu mpaci o c’è mbrògghiu? In altri versi, la sensualità degli amori mediterranei: verrò a letto tutta profumata di succo d’oliva e ginepro, “stasira mi vegnu a curcu tutta mprofumata”.

Ai propugnatori di nuove scienze incerte, a quelli che vorrebbero risolvere la violenza antropocentrica annullando la diversità e vorrebbero gli alberi simili a noi, fa rispondere il filosofo Empedocle che ha ben chiaro cosa si intenda per intelligenza vegetale: “mangia senza bocca/ respira senza polmoni, sta in piedi senza ossa/ non ha un cervello ma è intelligente/ non si muove ma manda i suoi figli per il mondo/ sente l’umidità, la gravità, la chimica…  Studiatelo, scoprite la via delle sue stelle”. Infatti in campagna i filosofi abbondavano. In quella “rusticana scuola d’Atene” che erano i frantoi, “Burgisi e sanzali s’accapigliavano” accordandosi infine sul fatto che «È sempri la natura chi cumanna!”.

Le ultime sezioni del libro percorrono i momenti colturali, le scelte agronomiche. I luoghi di impianto, che un tempo si riteneva dovessero secchi e pietrosi: “li vecchi lu sannu l’alivu voli muntagna.  Il momento dell’innesto del domestico sul selvatico a lu celu di luna criscenti. Il continuo dibattere tra gli esperi (li dutturi di l’alivi), ancora inconsapevoli di un futuro che potrebbe affidare tutto a macchine potatrici: il Dott. Caleca sentenzia che l’albero di olivo non va spogliato troppo, così fa frutto tutti gli anni; il Dott. Bensorte assegna di arieggiare l’albero e tenerlo al centro aperto a sole e vento; il Dott. Laudicina ordina «Datemi subito una durlindana/ diamo addosso a questi tronchi grossi,/ tagliamo i rami disamorati/ spazio alla linfa e ai rami giovani!/ È l’albero che ci guida, seguiamolo! (È l’arbulu  ca nni diriggi, iàmuci appressu!) E per ogni luogo, a scegliere tra la biodiversità accumulata nei secoli, quella che meglio si adatta: Cerasuola, Biancolilla, Piricuddara, Minuta, Nasitana, Buttuni di addu, nonché le Giarraffa e Zaituna che dagli arabi hanno preso il nome.

E infine i nemici della contemporaneità. Non più l’invincibile mosca, la vendetta mafiosa o la rogna ma l’emigrazione (che al momento della raccolta li costringe a Parigi), i trapianti che portano gli alberi secolari a morire di freddo nei giardinetti dei ricchi in Padania. E gli incendi che però non distruggono la speranza che dalla ceppaia nascano nuovi polloni a ricostruire l’albero: “Ma che possiamo fare?/ Salvare i vivi/ e seppellire i morti,/ questo tocca fare”. E i vivi e i morti si trovano a che fare con la motosega Stilh MS 170, gli incendi e i Canadair Viking 415. E poiché i paesaggi mutano, l’antropocene avanza, neanche il tratto di costa siciliana tra Castellammare del Golfo e San Vito lo Capo (lo scenario degli olivi di Cinà) sfugge alle sorti incerte dell’albero più illustre del Mediterraneo, a un destino che non è solo locale, nel tentativo di dare all’agricoltura funzioni di equilibrio globale. Lo aveva intuito il botanico svedese Linneo che, considerandolo albero senza confini, gli aveva dato nome di Olea europaea.

 

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Li dutturi di l’alivi

Pàssanu pi l’oliviti
li specialisti di la rimunna
tistiannu (lu sceccu puta e Diu fa l’ògghiu)
e addìttanu ricetti senza appellu.

Lu Dutturi Caleca sentènzia
ca l’àrbulu d’alivu un va spgghiatu
troppu assai, accussì fa fruttu ogni annu.
Lu Dutturi Bensorte assigna
di sciariari l’àrbulu e tinillu
di dintra apertu a suli e ventu.
Lu Dutturi Caronia distina
d’apparaggiari li cimi sparaggi
e nchiariri li frunni ngramagghiati.
Lu Dutturi Laudicina ordina
«Dàtimi sùbbitu na trullintana
damu ntesta a sta lignami grossa,
tagghiamu li rami sdisamurati
strata a la linfa e a li rami picciotti!
È l’àrbulu ca nni diriggi, iàmuci appressu.»

Dissi l’alivu a lu zu Ciccu
tàgghiami lignu ca ti fazzu riccu.
Sè, lu viddanu ascuta li raggiuni di l’àrbulu
sdisiccuma, cimiddìa, sdirrama
l’esperienza si cummina cu la ’notomìa
ma nnall’invernu di li campagni
lu scunfortu fuchìa e pi lu viddanu chi resta
o rinasci cu quarcunu di nuatri
chiddu chi cumanna daveru è la felicità
di canciari lu munnu cu li propri manu
grapennu finestri nna lu paraddisu.

 

 

I dottori degli ulivi

Passano per gli oliveti
gli specialisti della potatura
scuotendo il capo (l’asino pota e Dio fa l’olio)
e dettano ricette ultimative.

Il Dott. Caleca sentenzia
che l’albero di olivo non va spogliato
troppo, così fa frutto tutti gli anni.
Il Dott. Bensorte assegna
di arieggiare l’albero e tenerlo
al centro aperto a sole e vento.
Il Dott. Caronia stabilisce
che vanno pareggiate le cime disuguali
e sfoltire le chiome intricate.
Il Dott. Laudicina ordina
«Datemi subito una durlindana
diamo addosso a questi tronchi grossi,
tagliamo i rami disamorati
spazio alla linfa e ai rami giovani!
È l’albero che ci guida, seguiamolo.»

Disse l’olivo allo zio Cicco
tagliami legno che ti faccio ricco.
Sì, il contadino ascolta le ragioni dell’albero
toglie seccumi, accorcia cime, taglia rami
l’esperienza viene a patti con l’anatomia
ma nell’inverno delle campagne
lo sconforto incalza e per il contadino che resta
o rinasce in qualcuno di noi
quello che comanda davvero è la felicità
di cambiare il mondo con le proprie mani
aprendo finestre sul paradiso.

 

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Alivu di fiura 

 Urtimamenti m’avìanu abbannunatu
ma un fu na cosa troppu tinta.
Cu giusta misura li ràrichi sicutàvanu
a campiari nna li vini di la terra feraci
mentri li frunni asprigni
liccàvanu cu li celi aerei
e lu circu di la luna luminaria
vigghiava supra la notti paisana.

Poi, malamenti sdirraricatu
c’un corpu di scavaturi
mi carriaru nta sti strati
di palazzi àvuti e cuddati sculuruti,
fuddatu nta un biruni di plastica marrò,
a vappariàrimi
cu li me cicatrici gruppusi
di vecchiu gladiaturi
a la trasuta di feri e granni alberghi.

Ora haiu pi cumpagnu stu picciuttazzu nìvuru
scampatu a li flaggelli di terri luntani
puru iddru caddusu e sulu
eleganti pi natura ma vistutu
comu un manichinu cu li scarpi stritti.

Suli o acqua, mutu, unn havi a fari nenti
ma sunnu un lampu di pici, nnall’uri vacanti
li so occhi d’Africa calmi e sintimintusi
un tempu sazzi di orizzonti rusciani
ora smarruti nna li marchiggi
di la fàvula ingannatura unni semu
tutti dui priggiuneri.

 

Olivo di rappresentanza

Ultimamente mi avevano abbandonato
ma non è stata una cosa terribile.
In giusta misura le radici continuavano
a pascolare tra le vene della terra ferace
mentre le aspre fronde
amoreggiavano con i volubili cieli
e il circo della luminaria luna
vegliava sulla notte contadina.

Poi, malamente sradicato
con un colpo di escavatore
mi hanno portato in queste strade
di alte case e scoloriti tramonti,
serrato in un bidone di plastica marrò,
a guappariarmi
con le mie nodose cicatrici
da vecchio gladiatore
all’entrata di fiere e grandi alberghi.

Ora ho compagno questo ragazzone nero
scampato ai flagelli di terre lontane
anche lui ruvido e solo
elegante di natura ma vestito
come un manichino con le scarpe strette.

Sole o pioggia, muto, non deve fare niente
ma sono un lampo di pece, nelle ore vuote
i suoi occhi d’Africa calmi e sentimentosi
un tempo sazi di sanguigni orizzonti
ora smarriti negli inganni
della beffarda favola in cui siamo
tutti e due prigionieri.