Giuseppe Carlo Airaghi – Inediti

Giuseppe Carlo Airaghi è nato e vive in provincia di Milano. Ha pubblicato le raccolte di poesia Quello che ancora restava da dire (Fara Editore, 2020), La somma imperfetta delle parti (Ladolfi Editore, 2021), il poemetto Monologo dell’angelo caduto (Fara Editore, 2022) e il romanzo I sorrisi fraintesi dei ballerini (Fara Editore, 2021). È risultato finalista e vincitore di alcuni concorsi letterari tra i quali il “Lorenzo Montano”, “Europa in versi”, “Terre di Virgilio”, “La Recherche”, “Poesia a Napoli”, “Versante ripido”, “Prestigiacomo”, “Premio Arcore”, “Premio Lago Gerundo”.

 

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A quel bambino mi rivolgo

 

C’è sempre un sottinteso
persino nella frasi più innocenti.
Le maestre correggono i compiti
occupandosi solo di sintassi
e ortografia. Il compito assegnato
è diventare un buon cristiano
che non corre lungo i corridoi.

Tutte le presunte certezze impartite
segnate bianco su nero alla lavagna
potremmo ora definirle ipotesi
non comprovate. È troppo tardi ormai
per alzare la mano.

Non resta che conformarci agli esempi,
sbirciare nel cuore del compagno di banco,
copiarne le risposte, sottrarsi alle domande,
controllare il dizionario alla ricerca
di un sinonimo accettabile che consenta
di declinare i verbi all’infinito.

Fuori dalle vetrate potrebbe esserci il mare.
C’è invece un muro bianco
decorato dalle ombre dei platani.
Luce su luce che danza a braccia nude
strette alle cose felici, alla frutta
poggiata sul tavolo della mensa
prima che la buccia avvizzisca
e risuoni la campanella.
A quel bambino mi rivolgo,
alle sue vastissime estati
attraversate correndo, trattenendo
il respiro, guardando dal basso,
sulle punte dei piedi.

A quel bambino racconto la parte
migliore dei ricordi, convinto che basti
voltare le spalle a ciò che non voglio
per decretarne l’inesistenza.

Non ignoro quanto siano tenaci
gli indesiderati, quali e quante
le forze scese in campo a fronteggiarsi
per lasciare una traccia o cancellarla.

In buona fede l’obiettivo è stato
cercare un luogo dove piantare
la mia presenza, dove verranno
a trovarmi per confermare la mancanza.
Come una sorta di nostalgia,
un’assenza dolce che resta,
che promette di mutarsi in ricordo.

A lui mi confesso quando scrivo,
al bimbo innocente che sono stato.
Lui il mio giudice,
il mio interlocutore.
Il mio accusatore.

 

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Il gelsomino

 

Nel cortile lievita una parete
verde di gelsomino. Piantata
la primavera in cui di comune accordo
decidemmo di sfidare la sorte.

Ospitò in estate un nido di merli,
incauti.  I gatti di casa
non gli lasciarono scampo.

Nella serena inquietudine propria
sconfina, d’estate, oltre il muro di cinta
per contrabbandare la gloria immodesta
dei suoi bianchissimi fiori.

La bellezza richiede la cura,
i rami vanno sfrondati, addomesticati,
che non soffochino la parabola
del televisore, non provochino
le lamentele, legittime, dei vicini
per l’incruenta invasione dei loro balconi.

A volte penso dovrei lasciare fare.
Vederla conquistare la via
ricoprire le auto in sosta, i cancelli chiusi,
sradicare i pali confitti nel cemento,
vederla creare precari alloggi
per nuovi nidi di paglia,
dichiarare a squarciagola la rinascita
di un’antica sterminata nazione.

 

*

 

Elegia

 

All’ora di cena cominciavamo a bere.
Oltre la cornice della finestra
tutto il disordine della stanza
si manteneva a malapena in equilibrio
sopra i rami spogli del pino marittimo in giardino.

Con i silenzi edificammo muri
su cui incidere a punta di coltello
il poema delle nostre incomprensioni.
Aspettavamo come ombrelli
lasciati a sgocciolare
davanti alle porte d’ingresso
dei bar sulla spiaggia.
La reciproca fiducia inaridiva
come il pane avanzato a tavola,
persino l’attesa dell’alba sul mare
perdeva ogni senso del sacro.

Per trovare il coraggio di scriverci
attendemmo si consumasse la forza
della separazione, scemasse la magnitudine
dei nostri corpi che regolavano maree,
desideri, orologi da parete.