© Fotografia di Dino Ignani

Gisella Blanco – Inediti

Gisella Blanco è nata a Palermo nel 1984 e vive a Roma da diversi anni. È laureata in giurisprudenza, si occupa di critica e divulgazione letteraria poetica, collabora con blog, riviste cartacee e giornali per i quali scrive note critiche, recensioni, articoli, interviste e saggi. Scrive per la rivista Leggere Tutti cartacea e on line, per Atelier Poesia, per Laboratori Poesia, per Liguria.Today, per Poesia di Luigia Sorrentino. È vicedirettrice di Poesia del nostro tempo. Fa parte della redazione della rivista cartacea semestrale Laboratori critici. Ha svolto, come relatrice, lezioni in ambito universitario sulla poesia (Università di Palermo – Dipartimento di Scienze Umanistiche, Corso di studio in Lettere, Insegnamento Istituzioni di Linguistica italiana); nel 2020 ha tenuto una lezione sulla poesia agli studenti di Linguistica Italiana della Sichuan International Studies University di Chongqing (Cina). Particolarmente attenta ai temi sociali, filosofici e femministi, è autrice della silloge poetica Melodia di porte che cigolano, pubblicata da Eretica Edizioni (2020), compare nell’antologia Inno alla morte, pubblicata da Bertoni Editore (2021), nell’antologia “Cuori a Kabul – Poesie per l’Afghanistan” di Graphe.it Edizioni e nell’antologia Italia insulare- i poeti di Macabor Editore 2022. Alcuni suoi testi sono stati tradotti nel Journal of Italian Translantion. Una sua poesia è presente nell’antologia Negli occhi bambini (con una nota introduttiva di Umberto Piersanti per ScriverePoesia Edizioni). Coordina il team di servizi letterari, Scrivere Poesia, in cui si occupa di editing poetico. Lavora nella comunicazione come Spazio Parola. Collabora con il Foglio in qualità di critico letterario.

 

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Dopo i pasti

La goccia scende dalla spugna
sul lavabo, rintocca il passo del vuoto,
m’irretisce lo sguardo, lo spasmo
scalpita tra la torre di piatti
e l’eruzione del caffè. C’è una compensazione
sobria tra le cose, una compenetrazione tardiva
che rimpiazza lo sgomento con l’aspettativa.

Il tintinnio dei vetri rinvigorisce l’allegra
estenuazione della sconfitta, rinvia l’impegno
alla chimera di un altro segno, ancora.
Alla fine del pasto non si digerisce
che lo scarto rimasto a inchiodare
la disattenzione a qualche vezzo
dell’arredo, a qualche vizio dell’assedio.

Il ruminare rarefatto del silenzio
scandisce gli sbalzi invisibili dei muscoli,
negli oggetti e nei presenti, come se
la morte fosse l’unica mobilità visibile.

 

*

 

Il Messia

Guardavo da fuori
come si guarda dalla platea
il palco dei paesi in sequela
scorrere nel rito del ritrovamento:
c’era un dio diverso per ogni parola.
Giunsi alla liturgia festosa di un messia
acclamato dalla folla bianca, provai gioia e
pensai di poter sostare. Le mani tese
in adorazione reggevano dei tentacoli
di metallo, spine spinte nel costato
del cristo in festa. Lo trafissero e la sua carne
da sacro macello venne elevata alla gloria del padre.
Fermò il suo moto all’altezza dell’unico verbo
sconosciuto alla madre. Tutto il popolo
applaudì alla consuetudine della morte.
Guardavo da fuori
come si guarda dal tuorlo del silenzio
ogni altra gestazione.

 

*

 

Paesaggi siculi a Natale

 

Il sole è un’incrostazione sanguigna sulla pelle,
elastico allentato che traina verso la città
da un paese remoto, minuto
come se lo avessero preso a morsi.

Per la fame si inghiottono scorci di mare,
è mattina per le sagome incrinate delle case
che scivolano sulla riva finché non abbuia
tra la ferrovia e l’aria acre di un’ora coinvolta.

Punte di rosso affiorano dalle colline pendule,
festeggiano i venti impedendo la direzione,
è un via vai di moti annoiati, le cosce
della terra si contraggono nell’attimo di verde.

Forse è Natale nella dispersione delle grotte vocali,
si parlano lessici terrosi, inclini allo stridore,
si abbandona il suono a seccare sulla pietra
per essere divorato dalla bocca più sorda.

La brezza raccoglie il poco freddo della tangenziale,
lo consegna alla carcassa del gatto, tira il pelo per l’aria,
pesa troppo questa morte abbandonica,
si resta inchiodati all’occhio vitreo d’asfalto.

Forse è festa per la mareggiata di sale,
ci si alza dal porticciolo scrostando il dolce dal legno,
è un lento lavoro d’abrasione, una mistica inquieta,
la rimozione di sguardi dall’iride corrucciata dello stento.

 

*

 

Ecfrasi

Scrostare dalla pelle il trauma
petecchiale, partecipare di tutto
il rigore del corpo, mostrare
la soglia del mutismo, ribaltare la verticalità
nella posa scomposta dell’abbandono,
sfrangiare l’iride nel terrore oblungo
della gola[1], risvegliare l’ecfrasi
della rinuncia muscolare

Liberarci nel male

 

 

© Fotografia di Dino Ignani

 

[1] Ci si riferisce all’opera L’urlo di E. Munch.