Giovanni Ibello – “Turbative siderali”

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Giovanni Ibello, Turbative siderali, Terra d’ulivi Edizioni, 2017
Postfazione di Francesco Tomada

Viene davvero difficile, leggendo Turbative siderali di Giovanni Ibello, pensare che si tratti di una raccolta d’esordio. Solitamente infatti le opere prime si contraddistinguono per un entusiasmo contagioso ma anche, come è naturale, per una scarsa omogeneità che deriva dalla poca padronanza della scrittura poetica. In Turbative siderali, invece, questo non c’è o, meglio, è presente soltanto in parte: esiste una fiducia assoluta nella forza delle parole, una fede quasi adolescenziale – ma Giovanni, per quanto giovane, non è certo un adolescente e dunque la sua fede è conquistata sul campo – in quello che la poesia può sforzarsi di dire, però la raccolta si presenta straordinariamente compatta e unitaria, densissima in ogni suo passaggio. Ciò probabilmente avviene perché da un lato l’autore ha esercitato un lavoro lungo e paziente di rastremazione (“un rito quieto: / che si celebra per sottrazione”), dall’altro possiede la nitida coscienza che le parole non vanno spese a caso, sono preziose, e dunque possono essere fissate sulla carta soltanto dopo averne compreso appieno tutto il valore. Prende corpo dunque un linguaggio che vive nella tensione degli opposti, sospeso fra gli angoli acuti dell’asprezza (“la bocca ad asciugare la tua fica”) e i momenti in cui invece la dolcezza si fa estrema e totalizzante (“misuriamo le distanze coi respiri”), un linguaggio che scava in questa terra di nessuno con l’intenzione di renderla una terra nostra dove cercare una possibile realizzazione. Giovanni Ibello infatti non scrive “di silenzio, ma di vuoto”, anzi sembra voler evidenziare questo vuoto in uno sforzo di consapevolezza: forse il senso intero della raccolta è già racchiuso nel primo verso, “la nudità è dei corpi, tutto il resto è mistificazione”, e quindi la poesia di Turbative siderali demistifica, toglie, in modo da lasciare solamente ciò che è propriamente nudo in quanto umano.

Inusuale inoltre, in un autore così giovane, è la percezione della fine, così presente soprattutto nelle prime due sezioni della raccolta. La vita è un arco teso tra nascita e morte, una sorta di “volo sghembo fra due punti che in qualche modo, ciclicamente, si rincorrono. A noi, persi lì in mezzo, restano la vanità, la fragilità, lo stupore, ma anche la certezza che il semplice “fatto di esistere davvero” ci permette di guardare in faccia dio, non tanto per orgoglio, quanto nel gesto piano e diretto di chi non ha paura.
Il nome di dio viene scritto, non a caso, con la lettera iniziale minuscola. Eppure nella poesia di Giovanni Ibello è presente un forte senso di religiosità, se non altro per quell’idea così evidente che tutti si nasca comunque con un peccato originale e poi si debba portarne il peso, perché non si torna indietro, “non è questo il tempo / di chiedere perdono”. I corpi per questo si riempiono di ansia, e certamente tutto sarebbe stato più semplice senza la tensione verso la ricerca di un senso, oppure anche senza amore, come sembra suggerire l’autore in questi due versi meravigliosi: “Avrei perdonato mia madre / se non fossi nato per amore”. Al tempo stesso però l’amore, per quanto irraggiungibile nella sua completezza – e realizzato il più delle volte nell’abbandono – è un desiderio vitale, è l’assoluto che in alcuni passaggi si paventa e allo stesso modo svanisce in una estrema dipartita, dove perdersi è lasciarsi andare “come si lasciano andare i morti”.
La terza sezione di Turbative siderali, infine, si cala nella realtà di Napoli, e appare davvero come la concretizzazione geografica delle prime due parti. Gli scritti si popolano di figure intente tutte a fare qualcosa (“due uomini rollano erba / sul sedile sbrindellato di una Panda”, il prete “adesca la sua madonna nera”), eppure il sole nero rimane ancora “senza perdono”, e ciò che si nota più chiaramente è “la solitudine degli uomini”. Napoli ci appare come una città che in qualche modo sopravvive ad una guerra che “non finisce / solo perché noi non la vediamo”, ed anzi – sembra dire Giovanni Ibello – dobbiamo, dovremmo sforzarci di vedere. Perché non è accontentandoci di una mistificazione che questa finirà per bastarci, come non è ignorando le contraddizioni che esse finiranno per scomparire: forse è invece tutto lì, nel gesto di saggezza popolare di una donna che estirpa la gramigna dalla mano del mito Maradona dicendo che “l’amore perduto non ritorna”, nel coraggio di abbandonare ciò che siamo stati e lasciare spazio ad un vuoto che può accogliere, diventare “corpo che ritorna seme”.
Francesco Tomada (1966). Suoi testi sono apparsi su numerose pubblicazioni, antologie, plaquettes in Italia, Austria, Slovenia, Canada, Francia, Slovacchia, Svizzera. Ha pubblicato L’infanzia vista da qui (Gorizia, Sottomondo, 2005; rist. 2006) ) e A ogni cosa il suo nome (Sasso Marconi, Le Voci della Luna, 2008 – Premio Città di Salò, Premio Il Litorale, Premio Baghetta, Premio Anna Osti, Premio Gozzano, Premio Percoto).  E’ organizzatore o coordinatore di svariate manifestazioni centrate sulla poesia. Vive a Gorizia.