Giorgio Galli – Storia della voce

82506366 10157010471081033 1424299520010747904 oGiorgio Galli è nato a Pescara nel 1980 ed è laureato in Scienze della Comunicazione a Siena. Vive a Roma dove ha esercitato la professione di libraio. Ha pubblicato La parte muta del canto (Joker, 2016) e Le morti felici (Il Canneto, 2018). È fra gli autori del Repertorio dei matti della città di Roma a cura di Paolo Nori (Marcos y Marcos, 2015) e dell’antologia critica Perturbamento a cura di Marco Ercolani (Joker, 2016).

Giorgio Galli
Storia della voce

Una delle storie più affascinanti dentro quel treno in corsa che è la Storia riguarda la voce umana registrata. Possediamo le registrazioni delle voci di persone nate dal 1809 in poi -qualcuno qui in sala si meraviglierà, ma rovistando in rete non è difficile trovare le voci di Bismarck, Caikovskij, Tennyson, dell’imperatore d’Austria Francesco Giuseppe e di William Ewart Gladstone, oppure quelle degli ultimi schiavi liberati negli Stati Uniti. Non sappiamo -va da sé- con quali accenti, prosodie e velocità si parlasse nel Cinque, Sei o Settecento, e men che mai al tempo di Cristo o di San Francesco. Ma, se un’idea possiamo farci ascoltando queste voci dell’oltretomba, è che ci sia stato un salto drammatico intorno agli anni Cinquanta del Novecento, poco dopo la seconda guerra mondiale. Vale a dire che c’è meno differenza fra due registrazioni datate, poniamo, 1890 e 1950, che tra altre due datate 1950 e 1970. E’ una trasformazione che in realtà si inizia a percepire nei film hollywoodiani già negli anni Trenta, e che può essere sintetizzata come il passaggio da un tono eroico a un tono erotico, o da un tono energico ad uno più rilassato. E’ un cambiamento che possiamo osservare anche in musica: nel 1940 molti jazzisti trovavano troppo tranquillo il sax di Lester Young, oggi troviamo eloquente la tromba sussurrata di Chet Baker. Nel 1940 un direttore d’orchestra “classico e composto” era quel pugile del suono che rispondeva al nome di Arturo Toscanini: le nuances di Karajan non erano nemmeno pensabili.

Si conservano le voci registrate di quasi tutti i presidenti degli Stati Uniti da Benjamin Harrison in poi. Ascoltando i presidenti ottocenteschi, si possono apprezzare vigorosi effetti agogici: sia Harrison che William McKinley, entrambi morti nel 1901, rallentano e riaccelerano in maniera ostentata. Il pensiero va alle registrazioni musicali coeve, in cui pianisti e cantanti usavano tempi molto più liberi di quelli odierni, e un rubato più estremo e arbitrario. Il primo presidente americano a incidere un discorso senza rubati e senza toni enfatici, usando il classico accento mid-atlantic in voga fino agli anni Cinquanta del Novecento, è William Howard Taft, che nel 1912 dichiara vicina l’abolizione della guerra. I fatti lo avrebbero smentito due anni dopo. Ma forse non è un caso che il primo a parlare in modo “più moderno” sia stato un Presidente che voleva abolire la guerra. In effetti, uno dei cambiamenti più evidenti, tra l’epoca di Taft e la nostra, è che allora la vita militare era parte normale della vita di tutti, e la vita militare impone toni enfatici.

E’ curioso, ma effetti agogici simili a quelli di Harrison e McKinley li troviamo in Italia nella voce di Pietro Mascagni, in un disco del 1940. Nel cinquantenario della Cavalleria rusticana, il compositore fu chiamato a inciderla per l’etichetta His Master’s Voice -l’odierna EMI- e fece precedere la registrazione da questo discorso:

«Ascoltatrici ed ascoltatori gentili: sono Pietro Mascagni e vi rivolgo la parola per dirvi che la mia Cavalleria rusticana compie i cinquanta anni, ed e? legata, nella mia memoria a tante dimostrazioni di simpatia che non ho potuto resistere all’invito della nobile Voce del Padrone e mi sono deciso a presentarla in dischi, per intero e per la prima volta, sotto la mia personale direzione. La mia creatura, che prende vita dagli artisti piu? celebrati e da masse orchestrali e corali che non hanno rivali nel mondo, rimarra? per tanto – quale immagine mia– meglio e piu? di qualsiasi ritratto con firma autografa. Ed io, che di autografi ne ho fatti tanti, non ne ho mai rilasciato alcuno con maggior piacere, perche? e? il piu? vivo che si possa dare ed e? quello che meglio mi rappresenta, nella doppia veste di autore e di direttore della musica mia. Vi saluto cordialmente prima di alzare la bacchetta. »

La prima volta che ho ascoltato la voce di Mascagni ho pensato due cose: che il compositore doveva essere un grandissimo sbruffone, e che quello era il modo di parlare dell’epoca fascista. Sulla sbruffoneria avevo ragione; sullo stile fascista, sì e no. E’ vero che Giuseppe Giacosa e Giacomo Puccini, nelle loro registrazioni rispettivamente del 1900 e 1910, risultano molto meno altisonanti; tuttavia il loro stile non è troppo dissimile. Entrambi parlano a voce lenta e piena, scandendo le parole, separandole l’una dall’altra e quasi fermandosi su ognuna. A un primo ascolto quel modo di parlare può sembrare inespressivo e monotono, perché l’intonazione non conosce incrinature e vibrazioni, rimane costante. Bisogna farci orecchio per scoprirne l’interna musicalità.

Abbiamo fatto un salto dagli Stati Uniti all’Italia. Ma possiamo farne un altro fino in Russia. Nel 1908 il conte Lev Tolstoij si fa incidere mentre legge un suo racconto, e due anni più tardi perfino lo zar Nicola II lascia una breve testimonianza della propria voce durante una parata militare. Entrambi usano una voce stentorea e una prosodia intensamente musicale. La loro pronuncia è al limite del canto. Useranno un tono diverso i comunisti, quei realisti antiromantici, sovvertitori dell’ordine costituito, quando prenderanno il potere radendo al suolo la vecchia società con tutto ciò che rappresentava? No, amici miei: la voce di Troskij in esilio è solenne e romantica -più in francese, lingua che conosceva bene, che in inglese, che padroneggiava meno- e Majakovskij sembra lanciare maledizioni o incantesimi quando declama le sue poesie per il grammofono. Se ci spostiamo nei Paesi di lingua tedesca, e prendiamo in considerazione gli anni tra il 1900 e il 1930, ci accorgiamo che il più pacato di tutti è l’imperatore Francesco Giuseppe. Lo scrittore satirico Karl Kraus, in un filmato del 1930, urla i suoi scritti satirici con una mimica minacciosa e agitando nell’aria il pugno chiuso. La voce di Sigmund Freud, più vecchio di Kraus di due decenni, è stata trasmessa una sola volta dalla BBC nel 1938, quando lo psichiatra era in esilio in Inghilterra a causa dell’ostilità dei nazisti. In un inglese dal fortissimo accento tedesco, il padre della psicanalisi parla con cadenza lenta e solenne, ma senza strepito, con un incedere più simile a quello di Francesco Giuseppe che a quello di Karl Kraus. Si può dire, pur se con la dovuta cautela, che dalle incisioni tardo-ottocentesche rileviamo un tono eroico e lirico, mentre nei primi decenni del Novecento si afferma un tono più guerriero -il che è in linea col corso generale della Storia in quegli anni.

Le voci degli attori testimoniano un simile passaggio dal tono lirico a quello marziale. Sarah Bernhardt, nata prima di metà Ottocento, nelle incisioni degli anni Dieci e Venti, più che recitare, canta senza mai abbandonare il vibrato. All’epoca quel vibrato interminabile doveva sembrare struggente; oggi, alla lunga, fa l’effetto di una pecora che bela. La musica cambia -è il caso di dirlo- con gli attori nati a fine Ottocento. Perfino Charlie Chaplin, quando fa da narratore per la seconda edizione de La febbre dell’oro, racconta le disavventure del tenero Charlot con un piglio più adatto a un raduno dei Cavalieri dell’Ordine del Grand’Alce Imperiale che alla storia di un povero vagabondo. Ma permettetemi un ricordo personale.

In terza media, la mia insegnante di Storia fece ascoltare in classe le voci di tutti i leader politici durante la Seconda guerra mondiale. La sfida era di riconoscere dal tono della voce quali leader erano democratici e quali no. Quali sembravano fomentare il popolo e quali ragionare con il popolo. Mussolini e Hitler erano fuori questione, troppo riconoscibili. Ma la voce di Roosvelt non sembrava troppo democratica. “Dev’essere lo stile dell’epoca”, si giustificò la professoressa. In effetti, l’unico leader democratico, in base alla sua voce, pareva Stalin. La differenza fra “lo stile dell’epoca” e il nostro rendeva inintelligibili le intenzioni espressive dei parlanti.
Non saprei dire di preciso quando è iniziato il cambiamento. I film sembrano stabilire una prima linea di demarcazione attorno al 1938, e una più evidente verso il 1955. A partire da quest’ultima data, prevale una prosodia più intima e rilassata, che dura fino all’affermarsi dell’informalità sfacciata che trionfa dal 1968 in poi. C’è da stupirsi? Il mondo, dopo la guerra, è stanco di marzialità e di toni eroici; è desideroso di godersi il proprio intimo e di vivere in pace. Ai valori pubblici si sostituiscono quelli dell’interiorità, al dovere subentra l’intrattenimento, ad autodisciplina e fierezza si preferisce una sempre maggiore naturalezza. E si arriva ai giorni nostri, quando una certa fragilità è percepita come piacevole e rassicurante e una voce più stentorea può apparire supponente e arrogante. Il parlare di un tempo era un parlare all’esterno. Si è passati a un parlare più interiore, e ci fa strano immaginare che i personaggi di Dostoevskij, che sembrano parlarsi fra loro in tono di confessione, usassero nella concezione dell’autore toni declamatori. Fino a un certo periodo, piaceva alla gente ascoltare al cinema, alla radio o in TV persone che avevano qualcosa in più di loro. Oggi ci piace ascoltare persone come noi, fragili ed esitanti. Dopo aver visto le catastrofi scatenate da dittatori che si credevano superuomini, il mondo ha deciso di imboccare un’altra strada. Non immune, come ci insegna la cronaca, dal rischio di una dittatura dell’uomo comune, di un autoritarismo dei mediocri. Oggi ci piace che un politico o un personaggio pubblico esitino un po’ mentre parlano, e che usino un tono informale. Ci piace che qualcuno si corregga mentre parla perché così vediamo che ci pensa, che cerca la parola e l’idea giuste, che desidera essere più profondo e preciso possibile. Ci piace vedere il processo del pensiero, mentre in antico il processo del pensiero si tendeva a nasconderlo e a mostrare soltanto il risultato.

Le voci di cui abbiamo parlato fino ad ora erano tutte voci pubbliche: vale a dire incise per essere riascoltate in un contesto pubblico, in una specie di piazza. Anche il cinema era una specie di piazza. Ma cosa succedeva a quelle voci quando parlavano fra loro, dentro casa? E cosa è successo quando, dalle piazze e dai cinema, sono finite a parlare in televisione, arrivando dentro le case e parlando come si parla nelle case?

Molti coetanei di Trotzkij e Majakovskij hanno avuto la fortuna di morire nel proprio letto in un’epoca in cui lo stile di comunicazione era diventato più informale. Possiamo sentire le loro voci in documentari e interviste. Sono politici, letterati, imprenditori, ma anche persone comuni chiamate a testimoniare su certi avvenimenti storici o fenomeni di costume: Louis-Ferdinand Céline, Roberto Longhi, Sandro Pertini, Enzo Ferrari, Otto Frank -il padre di Anna-, Max Brod -l’amico di Kafka-, Lina Merlin -la senatrice che abolì le case chiuse-, queste persone hanno rilasciato interviste tra il secondo dopoguerra e gli anni Ottanta, ed è evidente che il loro parlare era diverso dal nostro. Mettevano aria tra una parola e l’altra, e facevano sentire i segni di punteggiatura -mentre noi tendiamo ad abolirli. Sembravano eseguire una partitura porgendo attenzione alle arcate. Gli “ehm, uhm, ahm” caratteristici del nostro parlato, dal loro erano quasi assenti. Si prendevano il tempo per pensare una parola prima di pronunciarla. Noi siamo abituati ad attribuire una certa cantilena, tipica dei nostri nonni, alla loro età avanzata, ma in realtà era il modo di parlare di una volta. Per questo la voce di Mascagni nel 1940 era sì una “voce fascista”, ma rifletteva anche uno stile che era stato precedente al fascismo. Da quanto tempo era in vigore quello stile? Non possiamo stabilirlo. Istintivamente, viene da dire che era in vigore da sempre e che è stato stravolto nel giro di pochissimi anni. Non possiamo provarlo, ma è possibile che sia così. Esiste una specie di rullo, una “registrazione” -si fa per dire- di un famoso organista del Settecento realizzata con un nastro perforato, come se fosse un carillon: in quella registrazione possiamo apprezzare il fraseggio aristocratico e le libertà agogiche, come nei discorsi di Harrison , McKinley e Mascagni.

Ci abbiamo guadagnato o perso, nel cambiamento? Un po’ tutte e due: era ora di finirla coi toni altisonanti, le pompe e le cerimonie di una macchina sociale che oltretutto opprimeva i tre quarti dei suoi componenti. Ma era necessario arrivare a questa morte dell’anima, a un punto della storia in cui il suono della voce umana è del tutto anaffettivo?

Ci sono due esercizi che possiamo fare. Il primo consiste nel verificare se anche in passato i vecchi si lamentavano del modo di parlare dei giovani -come facevano i miei nonni, che dicevano “Voi giovani parlate così veloce e a bassa voce, che non si capisce niente”. Il secondo consiste nell’ascoltare come parlano le persone in Paesi meno ricchi dei nostri, in cui i mezzi di comunicazione di massa arrivano più lentamente.

Per il primo esercizio, c’è uno scambio di lettere tra due grandi attori italiani dell’Ottocento, Tommaso Salvini e Adelaide Ristori. E’ il 1899. Salvini scrive: “Ai nostri tempi si faceva meglio o peggio? Sono peggiorati gli Artisti, o il pubblico? Siamo noi che avemmo torto, o lo hanno loro?” La Ristori risponde: “Volete sapere quello che io penso di questa nuova interpretazione dell’arte nostra? Molto male! La nevrosi è la malattia che sconvolge il cervello umano in questo fin di secolo! Il pubblico è attaccato da questa orribile malattia e guasto il vero gusto del bello nell’Arte rappresentativa. Io, modestamente, sono d’avviso che l’attuale forma di interpretazione è falsa e acrobatica” Dunque c’è sempre stato chi si lamentava del modo di usare la voce dei più giovani, e magari, se potessimo ascoltare Shakespeare e Dante, scopriremmo che entrambi preferivano uno stile non declamatorio, forse non simile al nostro, ma nemmeno a quello dell’Ottocento.

L’altro esercizio potrebbe dare un risultato anch’esso sorprendente: nei Paesi più poveri ci capita non di rado di sentire voci stentoree -avete mai detto “Gli arabi e i greci sembrano litigare sempre”?– e a volte un’enfasi a noi sconosciuta: e non solo nel parlare, ma anche nei gesti troviamo una chironomia ieratica, cerimoniale, tra teatro e chiesa: eppure siamo in mezzo alla strada.

Chi è più vicino alla naturalezza dunque, noi o loro?


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