Giancarlo Baroni: Classicisti, realisti ed ermetici nella poesia in lingua italiana del Novecento

Classicisti, realisti ed ermetici nella poesia in lingua italiana del Novecento. (Tracce, ipotesi e indizi).

Il lettore comune…differisce dal critico e dallo studioso…Lo guida, in primo luogo, l’istinto di voler creare per sé, derivandolo dai vari elementi in cui potrà imbattersi, un qualche quadro d’insieme…Mentre legge non cessa mai di imbastire una sorta di costruzione malferma e sgangherata che gli dia anche solo per un momento la soddisfazione di assomigliare al vero tanto da consentirgli di amarla, riderne e discuterne.

(Virginia Woolf, Il lettore comune)

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Il Novecento è un secolo complesso che prodotto linee poetiche assai differenti al punto che è assai difficile proporre chiare categorie interpretative. Tuttavia, sembra giunto il momento, secondo le direttive tracciate da «Atelier» fin dalla fondazione, di organizzare la materia secondo alcuni filoni che non pretendono di esaurire il problema, ma piuttosto di suscitare un fruttuoso dibattito.

I poeti classicisti privilegiano la grazia, cioè una misurata, armoniosa, delicata e musicale eleganza, mentre escludono scompostezza ed eccessi principalmente verso il basso; si preoccupano di rendere belle e piacevoli le cose da dire. Il loro tono prevalente risulta controllato anche nel dolore, le forme più usate sono quelle della tradizione, il modello lontano è Petrarca dalla cui poesia, fa notare Francesco De Sanctis, «è sbandito il rozzo, il disarmonico, il volgare, il grottesco e il gotico».

In loro l’eleganza accompagna dunque costantemente il messaggio e cerca di coincidere con il contenuto senza però sostituirli mai completamente, senza annullarli. Li riveste per esempio di ornamenti formali e di suggestioni sonore: la testimonianza dello scrittore diventa anche una testimonianza di stile. La maggioranza dei poeti italiani sembra fare parte di questo primo gruppo, il pericolo di manierismo rimane per loro sempre presente.

Per i realisti, al contrario, gli argomenti da dire e soprattutto il bisogno, l’ansia di dirli contano più del modo in cui vengono riferiti. Se lo stile diventa un ostacolo alla comunicazione lo mettono da parte. Dato che considerano la vita più importante della letteratura, l’eleganza del verso viene subordinata alla sua sincerità, immediatezza, vigore ed efficacia. Tanto che ai più estremisti di loro è consentito rivolgere l’ammonizione che Papini, ai suoi tempi, fece ai futuristi: «Il cerchio si chiude. L’arte ritorna realtà».

Gli ermetici sono infine i poeti oscuri. Nella loro mancanza di chiarezza sta la caratteristica che accomuna autori differenti fra loro come orfici e sperimentalisti.

La realtà di cui la poesia si deve occupare è per gli orfici quella delle essenze spirituali e delle verità ultime, invece che delle esistenze e delle esperienze immediate e concrete come per i realisti. Essenze e verità destinate a rimanere impenetrabili e inafferrabili. Le parole poetiche o si limitano a rispecchiare il mistero comunicando per paradosso la sua inevitabilità, o tentano di rischiararne dei frammenti alludendo a significati più nascosti e profondi e rinviando continuamente ad un altrove. La parlata degli orfici, confrontandosi con l’enigma e l’assoluto, inclina perciò al simbolico, visionario, mitico, sibillino, solenne.

Per gli sperimentalisti invece al centro della letteratura sta la lingua, che venendo esonerata dall’obbligo di comunicare può funzionare in modo autonomo e autoreferenziale. Il significante prevale dunque sul significato, in certi casi addirittura lo sostituisce, e la poesia si trasforma in una specie di laboratorio di invenzioni e di prove libere di spingersi sino all’alchimia e all’acrobazia verbali. Anche quando lo scrittore sperimentalista vuole continuare a trasmettere un messaggio e dei significati, a mantenere un rapporto con la realtà extra letteraria – rapporto che ha suggerito allo studioso Walter Siti la formula accattivante di “realismo dell’avanguardia” – lo fa però di preferenza in maniera indiretta, affidando fondamentalmente questo compito alle parole riflessive e logiche del commento critico. Grazie alle quali impariamo ad esempio che l’inspiegabilità e il disordine del verso sperimentalistico possono essere per esempio interpretati come rispecchiamento del caos e della complessità, come metafora dell’insensatezza del mondo, come grammatica dell’inconscio e dell’alienazione o come contestazione di un sistema sociale e di valori. Sembra derivare da una propensione all’autosufficienza la scarsa comprensibilità di questa poesia e non, come per quella orfica, da un’occulta essenza esterna.

È classicistica la poesia all’apparenza ingenua, colloquiale ma musicale, malinconica ma senza cupezza, della maggior parte dei poeti di gusto e di sensibilità crepuscolare. Govoni («Occupa la mia mente / una dolcezza malinconica…»), Moretti e Gozzano si lasciano sedurre e rasserenare dalla «Bellezza riposata dei solai», da «…le buone cose di pessimo gusto…» di quest’ultimo.

Corazzini invece sembra ingaggiare una specie di corpo a corpo con la morte («Io non so, Dio mio, che morire. / Amen», dal quale sa di uscire perdente anche come artista: «Io non sono un poeta», ripete con insistenza, «Io non sono che un piccolo fanciullo che piange». La sua è forse un’ammissione di sconfitta, non semplicemente di imbarazzo e di inadeguatezza come il «sì, mi vergogno d’essere un poeta!» di Gozzano. Corazzini riesce a trasformare la tristezza crepuscolare in disperazione («disperatamente triste, / in un angolo oscuro»), i riferimenti autobiografici in una confessione dolente ed esibita, orientando la propria poesia verso uno sbocco quasi realistico. «Conviene che tu muoia», dice, «dolcezza, oggi, per me».

Sono classicisti autori eleganti e nello stesso tempo discorsivi come Cardarelli («Ora passa e declina, / in quest’autunno che incede / con lentezza indicibile, / il miglior tempo della nostra vita / e lungamente ci dice addio»), come gli impeccabili Giovanna Bemporad («L’aria è tutta armonia: sarebbe / dolce svanire in questa immensità serena;») e Sergio Solmi che dichiara in modo esplicito la propria «dimensione neoclassica».

Lo sono anche scrittori dotati di delicatezza e garbo come Gatto («Tutta dolcezza e pianto / vorresti le parole / che chiudono da sole / la verità del canto»), come l’epigrammatico Sinisgalli («La luce era gridata a perdifiato / le sere che il sole basso / arrossava il petto delle rondini rase»), Antonia Pozzi («Poesia, mi confesso con te / che sei la mia voce profonda»), Vittorio Sereni («Vienmi vicino, parlami, tenerezza»), di cui Debenedetti sottolineava la «contaminazione della narratività e della purezza», e la eccellente Fernanda Romagnoli («…Il mio poco darei / per un unico verso che resti / testimonio di me, / un attimo passato sulla terra / – lieve – come un coriandolo»).

Appartengono inoltre ai classicisti poeti dalla essenzialità incisiva e limpida e dalla raffinatezza non ostentata: Sandro Penna («…E sopra un tavolaccio / dormiva un ragazzaccio / bellissimo»); Giorgio Caproni («Per lei voglio rime chiare, / usuali: in – are. / …/ Rime che a distanza /…/ conservino l’eleganza / povera, ma altrettanto netta»); Bartoli Cattafi, corrosivo e pungente («Questi piccoli uccelli / vorrebbero in fondo darti la caccia / con un’unghiata / strapparti la faccia / questa è la loro tristezza / quando ti guardano / e abbassano le palpebre gialle»); Fernando Bandini («Ma io quaggiù sono un gracile Atlante, / mi curvo sotto il peso dell’azzurro. / Le mie cose da sempre / vive nel duro universo / come inventarne i nomi, come renderle / leggere?»); Paolo Bertolani, dai «versi – lucertola versi – mandolino» pregevoli tanto in lingua quanto in dialetto; l’antiretorico, essenziale, preciso e contemporaneamente inafferrabile Giampiero Neri («Quella casa isolata / quasi nel centro del paese / era passata indenne / dalla guerra e dopoguerra / come la salamandra nel fuoco, / adesso sembrava un corpo estraneo / venuto da chissà dove»).

Ne fanno parte infine autori la cui vocazione per raccontare resta nettamente dentro i limiti della poesia, rifiutando prosaicità e ruvidezze. È il caso della discorsività «…senza malizia…» ma permeata di finezza di Gian Carlo Conti («Finalmente / dopo tanto buio, tanta noia / me ne andrò come una volta / a correre verso il cielo») e di quella più inquieta e sontuosamente lavorata di Pier Luigi Bacchini («C’è una minuziosa perizia nello scrivere, un’esperienza / d’acuta tecnica, non tutto è verità, / ma serve a rivelarla…»). È la situazione inoltre della conversazione affabile, ironica e colta di Giudici («Tanto giovane e tanto puttana: / ciài la nomina e forse non è / colpa tua – è la maglia di lana / nera e stretta che sparla di te»), di Luciano Erba («poesia sei come uno scoiattolo / resti in letargo per parecchi mesi / quando ti svegli salti in mezzo al verde / vedo appena la tua coda folta, / prima che scompaia dentro gli abeti»), dello svizzero di lingua italiana Giorgio Orelli («questo “lombardo” della Svizzera» lo chiama Anceschi nel saggio Di una possibile poetica lombarda) e quindi di Raboni con la sua «…sospettosa tenerezza» («Va piano piano alla finestra / a vedere se nevica ancora, se continua / nel buio luminoso, là fuori / l’infantile disastro del mondo»). Soprattutto è il caso dell’aspirazione mostrata da Bertolucci e Saba di creare, con l’insieme della loro opera, una specie di romanzo autobiografico in versi. Il primo (dal «…passo…lento e gaio della provincia.» unito ad un «umore malinconico») definisce La camera da letto «romanzo in versi» e «romanzo famigliare». Il secondo confida che «Il Canzoniere è la storia (non avremmo nulla in contrario a dire il “romanzo”, e ad aggiungere “psicologico”) di una vita, povera (relativamente) di avvenimenti esterni; ricca, a volte, fino allo spasimo, di moti e di risonanze interne, e delle persone che il poeta amò nel corso di quella lunga vita, e delle quali fece le sue “figure”». L’attenzione di Saba verso una quotidianità umile, privata e dimessa, espressa attraverso un linguaggio comune, chiaro e colloquiale («Amai trite parole che non uno / osava. M’incantò la rima fiore / amore, / la più antica difficile del mondo»), si veste volentieri di compostezza, decoro e gradevolezza («…E in me una verità / nasce, dolce a ridirsi, che darà / gioia a chi ascolta, gioia da ogni cosa»). Si veste insomma di una bellezza e di una grazia esibite: «La bellezza m’innamora, / e la grazia m’incatena». Grazia per niente svenevole per merito del legame mantenuto dall’autore con la vita di tutti i giorni, quella a lui più vicina che anima Trieste «La mia città che in ogni parte è viva». Quest’ultima, definizione estensibile all’intera sua poesia, «…ha una scontrosa / grazia. Se piace, / è come un ragazzaccio aspro e vorace, / con gli occhi azzurri e mani troppo grandi / per regalare un fiore». Il realismo di Saba, filtrato costantemente da un’eleganza «onesta» e «schietta» ma contemporaneamente nobile e classica, va perciò giudicato con cautela ed esattezza, per esempio Carlo Muscetta lo qualifica «lirico» e Pasolini «sentimentale».

Diluendone tensioni e irregolarità dentro la compostezza, guardano moderatamente verso il realismo anche Carlo Betocchi e Franco Fortini. Betocchi nella pratica poetica mitiga parecchio la perentorietà del titolo della sua raccolta d’esordio Realtà vince il sogno, Fortini attenua sobrietà ed asciuttezza dello stile con l’uso della «…sublime lingua borghese…». È attirato invece dall’ermetismo il raffinato Bigongiari.

Visitano con irrequietezza le frontiere neoclassiche, senza sconfinarne tuttavia in modo definitivo, infine Quasimodo, Ungaretti e Montale. La propensione naturale di Quasimodo per mito, simbolo, eloquenza, viene in seguito integrata da acquisizioni neorealistiche: «Giorno dopo giorno: parole maledette e il sangue / e l’oro. Vi riconosco, miei simili, mostri / della terra. Al vostro morso è caduta la pietà / e la croce gentile ci ha lasciati. / E più non posso tornare nel mio eliso». Questa miscela neorealistica-ermetica finisce per assegnare alla poesia e al poeta un ruolo e dei compiti enormi: «Rifare l’uomo: questo il problema capitale», sostiene Quasimodo in un saggio sulla poesia contemporanea, «…Rifare l’uomo, questo è l’impegno».

Rifiutandosi di organizzarsi in frase e discorso per rimanere illuminazione, il verso lapidario e frantumato del più giovane e famoso Ungaretti oscilla con inquietudine fra assolutezza orfica («Quando trovo / in questo mio silenzio / una parola / scavata è nella mia vita / come un abisso») e asprezza espressionistica («Un’intera nottata / buttato vicino / a un compagno / massacrato / con la sua bocca / digrignata»). Un’inquietudine che sembra successivamente pacificarsi nel recupero della tradizione classica.

Per trent’anni, fino a La bufera e altro, il linguaggio di Montale si mantiene alto, solenne e complesso. Adatto per esprimere esigenze metafisiche («C’è stata…, a partire da Baudelaire e da un certo Browning,…una corrente di poesia non realistica, non romantica e nemmeno strettamente decadente, che molto all’ingrosso si può dire metafisica. Io sono nato in quel solco.»), e anche per esprimere propositi di negazione («Non domandarci la formula che mondi possa aprirti, / sì qualche storta sillaba e secca come un ramo. / Codesto solo oggi possiamo dirti, / ciò che non siamo, ciò che non vogliamo»), questo linguaggio impedisce però a Montale di separarsi con disinvoltura da quei “poeti laureati” che egli da subito critica poiché «si muovono soltanto fra le piante / dai nomi poco usati: bossi ligustri o acanti». A questo riguardo precisa Pier Vincenzo Mengaldo: «È chiaro…che la lotta contro l’eloquenza aulica di certa tradizione si attua prevalentemente a un livello e con materiali di tipo schiettamente “letterario” e “poetico”, fruibili beninteso a scopi di non-eloquenza».

Da Satura in avanti invece Montale adopera una lingua più colloquiale, diaristica e prosastica che gli permette di raggiungere in modo più esplicito e diretto di una volta l’obiettivo antiaulico prefisso. L’affermazione del primo Montale, secondo la quale «le cose oscure» tendono alla «chiarità», acquista adesso un senso di chiarezza e di concretezza, non di luminosa dissolvenza come all’inizio. Egli sembra alla fine quasi avvicinarsi a Saba. «Noi non amiamo…l’ermetismo, perché sappiamo che esso nasconde un processo (psicologico) involutivo anziché evolutivo, e il mondo ha più bisogno di chiarezza che di oscurità.», scriveva nel 1948 il triestino, «Ma», prosegue, «ermetismo o non ermetismo, Montale è un grande poeta».

Partecipano al gruppo dei realisti quei poeti che, dice Pasolini in Passione e ideologia, «scrivevano in nome…della “vita”». Interamente sia la «…poesia di sterco e di fiori» di Clemente Rebora, vigorosamente comunicativa nonostante le torsioni linguistiche («Qui nasce, qui muore il mio canto: / e parrà forse vano / accordo solitario; / ma tu che ascolti, recalo / al tuo bene e al tuo male: / e non ti sarà oscuro»), sia le «…parole sincere», tese («Se le ho dette, vuol dire che avran traboccato») e antiletterarie di Piero Jahier, per il quale «…la minima buona azione / vale la più bella poesia». Vi partecipano invece parzialmente Camillo Sbarbaro e Dino Campana. La voce sobria e delicata del primo conserva un’aerea grazia («Ora che sei venuta, / che con passo di danza sei entrata / nella mia vita») e si confessa sempre «…con asciutti occhi…» e «a fior di labbro»; i Canti orfici del secondo dichiarano già dal titolo la loro tendenza («Me ne vado per le strade / Strette oscure e misteriose») ma condividono di certo realismo estremo il gusto per l’invettiva e per la provocazione: «Io cerco una parola / Una sola parola per: / Sputarvi in viso…».

Realismo e sperimentalismo convivono perfettamente e senza contraddizioni nei futuristi. I quali, con i propri versi, vogliono esprimere una ideologia che esalta la macchina (Ardengo Soffici: «Le automobili sono burrasche primitive di vento e polvere»), che celebra l’elettricità (Luciano Folgore: «e magnificare / divinamente / la volontà / che ogni prodigio fa / la libera Elettricità.») e soprattutto che loda la velocità (Filippo Tommaso Marinetti: «la magnificenza del mondo si è arricchita di una bellezza nuova: la bellezza della velocità…un automobile ruggente, che sembra correre sulla mitraglia, è più bello della Vittoria di Samotracia.»). Alcuni futuristi esprimono questo messaggio-propaganda in maniera esplicita, immediata e palese, senza preoccuparsi del bello poetico, altri decidono di svecchiare e sveltire il linguaggio e la sintassi attraverso l’abolizione per esempio della punteggiatura, degli avverbi e aggettivi senza escludere scelte ancora più radicali. Parola d’ordine dei futuristi risulta perciò simultaneamente: «distruggere la sintassi» e «Facciamo coraggiosamente il brutto in letteratura».

L’autore che in modo più marcato rappresenta nella prima metà del Novecento il realismo è Palazzeschi. Ironico fino al sarcasmo (il «ma lasciatemi sognare!» di Guido Gozzano e l’«Io voglio morire, solamente…» di Sergio Corazzini vengono infatti sostituiti da un irriverente «e lasciatemi divertire»), e prosastico fino alla scurrilità («- Smencitissima vacca! / Porcona, puttana; vigliacca»), Palazzeschi afferma della propria poesia: «Ogni verso che scrivo è un incendio».

Nella seconda metà del secolo l’autore realista più rappresentativo sarà invece Pasolini. La sua «…disperata vitalità.», la voglia smaniosa, incontenibile di testimoniare, di parlare di sé e del mondo ne trasformano la poesia in uno strumento di confessione e di ideologia: «Oh, fine pratico della mia poesia! / Per esso non so vincere l’ingenuità / che mi toglie prestigio, per esso la mia // lingua si crepa nell’ansietà / che io devo soffocare parlando. / Cerco, nel mio cuore, solo ciò che ha!» Amante dell’eccesso ma capace di conciliare le estremità (sfogo privato e impegno civile, sgradevolezza ed eloquenza, schiettezza e cultura, cronaca e mito, passione e intelletto…) il narrare in versi pasoliniano si fa gradualmente più antipoetico.

Sono portati a straripare sia Dario Bellezza sia Antonio Delfini. La schietta, un po’ melodrammatica «…smisurata confessione» del primo genera «…i miei sregolati versi / pieni d’angoscia o martirio o lussuria»; «…la mala poesia» del secondo genera una polemica sociale grottesca e oltraggiosa («E’ la gran moda democristiana: / restare vergine e far la puttana»).

Antepongono a volte ragioni e ritmi della prosa a quelli del verso gli autori con la vocazione a raccontare e ad argomentare. Pagliarani con accenti avanguardistici, Volponi e Roversi con intonazioni invece espressionistiche, sembrano condividere la sensazione, provata da Pavese mentre componeva Lavorare stanca, «di aver molto da dire e di non dovermi fermare a una ragione musicale nei miei versi, ma soddisfarne altresì una logica. E c’ero riuscito e insomma, o bene o male, in essi narravo».

Si confronta con storia e attualità («e lo scrivere è un atto politico»), ma sempre in modo misurato («Ho imparato a disporre le parole / senza lasciarmi andare…»), in maniera ironica, nitida ed elegante Nelo Risi, il quale parte dalla convinzione che: «Se occorre arte perché siano vere / le parole rare / forse più ne occorre / per essere stilisti dell’usuale». Risi dal versante realistico e Fortini da quello classicistico, versanti che arrivano con questi due scrittori quasi a toccarsi, interpretano esemplarmente il bisogno avvertito ai tempi di Satura da Montale «di una poesia che apparentemente tende alla prosa e nello stesso tempo la rifiuta».

Il classicismo – scrive Remo Pagnanelli nel suo Poesia e poeti italiani del secondo Novecento – «è il gran letto dove dorme la poesia italiana». «Così», aggiunge Alfonso Berardinelli in un breve saggio intitolato L’eredità latina, «il meglio del Novecento poetico italiano è forse nella ripresa o nella persistenza di vecchie forme».

La nostra poesia novecentesca rimane insomma nella sua maggioranza e nella sua sostanza classicistica; in essa il contenuto si riveste di grazia, musicalità e decoro, in certe occasioni questo rivestimento si impreziosisce tanto da mascherare parzialmente il messaggio.

In una intervista con se stesso del 1951 Montale sosteneva che «Da noi l’irrazionale è, nei poeti, un necessario limite a cui essi tendono, non la materia stessa dell’ispirazione poetica. Da noi la poesia sfiora l’incomprensibile restando tuttavia comprensibile». Questa opinione viene ribadita, mentre riflette sulla propria esperienza personale, da un altro autore ostico come Solmi: «non credo», dice, «di aver mai scritto una sola poesia logicamente inesplicabile».

Il poeta novecentesco forse più compiutamente orfico è Mario Luzi. Nei seguenti versi nobili e solenni si manifesta in maniera cifrata, inghiottita «…dall’oscuro e dall’oscuro riemergente…», una verità soprasensibile: «Non sempre tace, gorgoglia / a tratti il messaggio,… / ne porta / il vento ai mortali / qualche brano, / arriva loro, / strappata, qualche frase… / poi torna / alle sue profonde cavità / l’abissale borborigma…». Accordata l’intonazione con altezze metafisiche, la frase comunica l’impossibilità di esprimersi chiaramente («È difficile, difficile spiegarti»).

Fra il testo di Luzi e il seguente di Zanzotto, spiccano più che le affinità i contrasti: «Perché cresca l’oscuro / perché sia giusto l’oscuro / perché, ad uno ad uno, degli alberi / e dei rameggiare e fogliare di scuro / venga più scuro – … / Cresci improvviso tu: l’oscuro gli oscuri:… / Perché cresca, perché s’avveri senza avventarsi / ma placandosi nell’avverarsi, l’oscuro».

Mentre Luzi si riferiva a una realtà ineffabile di cui la poesia può essere espressione lacunosa, Zanzotto nomina il linguaggio principale realtà della poesia. Per il primo il significato resta nascosto, per il secondo viene oltrepassato dal significante «…che è leader feroce del mondo».

Sono provvisti di energia trasgressiva anche i “novissimi” e l’isolato, eccentrico Emilio Villa. Dalle «…diavolerie fonetiche…» di quest’ultimo; ai nonsense di Balestrini ( «Francesco Petrarca era forse infelice di non avere il caffè?», «Quante volte me lo / al cavallo che si era avvicinato / al rumore del muro crollato»); alla enumerazione e registrazione di dati di Antonio Porta ( «Il corpo sullo scoglio, l’occhio cieco, il sole, / il muro, dormiva, il capo sul libro, la notte sul mare, / dietro la finestra gli uccelli, il sole nella tenda»); a Giuliani («La poesia deve consegnarsi nuda al linguaggio», «La sequenza delle parole ostacola la comprensione della frase»); al Sanguineti labirintico («Un Gioco Oscuro Non È Scurato Per Oscurare L’Oscurità…»).

Funziona quasi da cerniera fra sperimentalisti e orfici «…il farneticare in malandati / versi…/» di Amelia Rosselli, sabotatrice di regole grammaticali e sibilla. «…Ed oltre ogni dire è il vero / libro da scuola. Sorride l’estate in un dolce frugore di molli / verdi foglie, ma l’oscuro della sua trama non racconto».

Giancarlo Baroni

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Giancarlo Baroni è nato a Parma, dove abita, nel 1953. Ha pubblicato due romanzi brevi, qualche racconto, un testo di riflessioni letterarie (“Una incerta beatitudine”) e sei libri di poesia. Le ultime quattro raccolte di versi: “Cambiamenti” (Mobydick, 2001); “I merli del Giardino di san Paolo e altri uccelli” (Mobydick, 2009; nuova edizione illustrata e ampliata, Grafiche STEP, 2016); “Le anime di Marco Polo” (Book, 2015); “I nomi delle cose”, (puntoacapo editrice, 2020).  Ha coordinato, assieme a Luca Ariano, l’antologia “Testimonianze di voci poetiche. 22 poeti a Parma” (puntoacapo, 2018). Nel 2009, 2010 e 2011 ha letto a “Fahrenheit” (Rai Radio 3) diverse sue liriche, alcune in occasione del Festival della Filosofia di Modena. Per quasi vent’anni ha collaborato alla pagina culturale della “Gazzetta di Parma”. Per la rivista on line “Pioggia Obliqua. Scritture d’arte” cura una pagina intitolata “Viaggiando in Italia”; collabora a “Margutte. Non-rivista on line di letteratura e altro”. Poeta per passione e fotografo per diletto, ha pubblicato tre piccoli libri fotografici: “Sguardi dell’arte”, “Bologna” e “Due volti di Parma”; tutti e tre fuori commercio.