Flaminia Cruciani – “Semiotica del male”.

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Flaminia Cruciani, Semiotica del male (Udine, Campanotto, collana Zeta line, 2016)
recensione di Gabriella Cinti

Muovendo dalla sua identità di archeologa, non poteva non accamparsi, di primo acchito, anche nei suoi versi, Il diritto all’origine, sotteso e pure del tutto evidente. Ma le idee, nella loro impetuosa molteplicità, si affollano e turbinano nei versi e subito compare anche questa fenomenologia del male, tra le cui forme, come la più grave la poetessa addita quella della menzogna in quanto negazione di una verità che si persegue per destino e per missione, il cui disconoscimento comporta, appunto, un autentico oltraggio ontologico.
Ma costante si rivela un coraggio esistenziale sotterraneo che resiste ..” le nostre ore deste di coraggio” e questa resistenza è enunciata talvolta nella forma di una “giustizia” in un certo senso liberatoria, che passi, per esempio, attraverso un amore molecolare, tra slanci e pacificazioni: “risorse e pace curvano il senso delle mie vocali” .
La vita in corto circuito con la morte è uno degli ossimori più intensi e felici nel libro. D’altro canto, il tema sacrificale e autosacrificale, necessariamente cruento, si manifesta ripetutamente, insieme a quella che appare come una autentica vocazione “abissale”, un continuo deflagrare d’essere, marcatamente e dolorosamente sanguinante. Il sangue della Cruciani pare avere tuttavia molteplici e anfibologiche valenze, anche mitico-arcaiche, da elemento mortuario a forza primigenia, a capacità liberatoria, un’eruzione magmatica di ascensione-sprofondamento verso una diversa e straniante pacificazione.
Certo, il male pare connaturato alla condizione umana, un polo manicheicamente fondante, e crudamente disvelate sono le illusioni di ogni mitezza, ma si rivela “necessario allora a comprendere, a rivelare il mondo, a difendersi”, una rifondazione del mondo che ha i tratti di una lucida e tesa gnomica del dolore: “Solo chi attraversa una notte senza lucciole/ potrà domare l’esistenza “. Ed ecco compare chiaramente la cifra concettuale della poetica della Cruciani, un’epistemologia del male come necessità gnoseologica e fondamento ontologico, come prospettiva ermeneutica all’insegna del disvelamento: tale atteggiamento, se considerato sotto una prospettiva esclusivamente etica, porterebbe ad una prospettiva interpretativa del tutto riduttiva e in parte fuorviante. Vi è, al contrario, una solitudine eroica quanto esistenzialmente engagé in questa angolazione estrema, che, muovendo da questo focus apicale, squaderna un’impietosa quanto scintillante aletheia sulle cose del mondo.
Permanendo in una dimensione di sofferenza come evidenza ineliminabile, Flaminia Cruciani mette persino in guardia dalle insidie del bene, dallo scotto implicito in ogni illusione, formulando l’invito ad una indifferenza azzerante il sentire e i suoi rischi, anche se l’atharassía ci appare una proda assai lontana per la sua anima vulcanica e ardente.
Questo fitto tessuto concettuale è tuttavia espresso con la densità cromatica di sciabolate di immagini condensate, accese da un fuoco analogico neo espressionista di rara intensità, specie quando compaiono epifanie amorose, brucianti congiungimenti Investiti di un superiore valore agnitivo. Un’inquietudine e un furore vitalistico, biologico e noetico al contempo, vibrano nei versi, in cui la sfida prometeica e ontologica si impenna in un acceso profetismo
dal sapore fortemente apocalittico o si chiaroscura nelle struggenti metafore di una solitudine sinesteticamente viva nella nostra visione-ascolto. L’amore come suprema possibilità salvifica lampeggia ad ondate nei versi, come un faro più spesso inghiottito da forze avversarie e pronto a mutarsi e far mutare in kakodaimoni le vittime di questo arcano sortilegio.
È una poesia, quella della Cruciani, che viene da lontano e vibra di destino, una milizia armata di parole che si erge contro i nemici d’amore e di vita, i prigionieri della inautenticità, rivendicando una disperazione eroica che la rende mitica a pieno titolo, affidata ad una parola poetica sfolgorante in braci di inesausta incandescenza.

Gabriella Cinti  è nata a Jesi. Laureata in Lettere con indirizzo filosofico-linguistico, e Dottore di ricerca in Italianistica, da diversi anni si occupa di poesia, di filosofia, di antropologia, di archeologia delle lingue europee, in particolare di poesia greca antica, di cui è voce interpretante all’interno di varie manifestazioni musicali o performances teatrali col nome d’arte “Mystis”, l’iniziatrice. Libri: “Suite per la parola” (Pequod, 2008), “Il canto di Saffo. Musicalità e pensiero mitico nei lirici greci”, (Moretti e Vitali, 2010), “Euridice è Orfeo”, Achille e la Tartaruga, 2016), ” Madre del respiro”, (Moretti e Vitali, 2017).