Filosofia, arte e critica – da Atelier n. 13, marzo 1999 – di Giuliano Ladolfi

  1. Premessa

Diversi sono gli aspetti sotto cui si può esaminare il rapporto tra arte e filosofia. Ma in una rivista di “poesia, critica e letteratura” pare naturale privilegiare la posizione del pensiero raziocinante all’interno del pensiero poetante e non viceversa

In secondo luogo una simile prospettiva implica ulteriori precisazioni, per il fatto che i due àmbiti sono così strettamente uniti che è difficile anche concettualmente operare divisioni. La filosofia si presenta come elemento costitutivo dell’arte non solo perché si pone come condizione preliminare all’attuazione dell’arte, ma anche perché influenza l’autore nel momento in cui nell’opera egli trasfonde la sua Weltanschauung, il senso o il nonsenso del vivere e il suo rapporto con il reale.

  1. L’estetica contemporanea

Le tendenze attuali della filosofia schematicamente si dividono in due correnti, quella degli analitici e quella dei continentali non senza reciproche connessioni ed influenze, secondo l’ipotesi di Franca D’Agostini1.

La distinzione a livello teorico è abbastanza netta: «Sono in gioco due diversi modi di concepire la prassi filosofica: una “filosofia scientifica” (la corrente degli analisti praticata nelle scuole del Regno Unito e negli Stati Uniti), fondata sulla logica dei risultati delle scienze naturali ed esatte, e una filosofia a impostazione “umanistica” (la corrente continentale, perché diffusa nell’Europa continentale), che considera determinante la storia e pensa la logica come “arte del logos” o “disciplina del concetto”, più che come calcolo o computazione. Intesa in questo senso, l’antitesi tra analitici e continentali riproduce all’interno della filosofia l’antitesi tra cultura scientifica e cultura umanistica (tra logica e retorica […]): un’interiore turbolenza da cui la filosofia (che la si intenda come scienza prima o come metascienza o come forma di razionalità dimissionaria e in stato di perenne autocongedo) non si è mai liberata»2. Nel periodo dagli Anni Trenta agli Anni Settanta la distinzione apparve abbastanza netta, attualmente, invece, le posizioni si sono avvicinate.

Tale impostazione determina anche due diverse tendenze nel settore estetico: il filosofo analitico dedicherà la sua riflessione alla definizione del concetto di arte, mentre il continentale esaminerà l’arte nel suo sviluppo storico, nelle sue modalità espressive e nella complessità delle sue attuazioni. Come «non esiste la filosofia, ma esistono molte filosofie, molti modi e ragioni per dirsi filosofi»3, così non esiste un’estetica, ma diverse estetiche, differenti e talvolta antitetiche sia dal punto di vista concettuale sia dal punto di vista pratico. Solo all’interno del pensiero analitico si può trovare una relativa convergenza logica.

Probabilmente mai nella storia del pensiero umano le posizioni furono più distanti: da una parte la ricerca muove da deduzioni logiche modellate sulla rigorosa analisi del linguaggio, all’interno del quale sono accettate solo le proposizioni verificabili, per cui il capo d’analisi si riduce ad un discorso logico, perfetto, ma con il limite di essere astratto; dall’altra l’indagine muove dal “mondo fenomenologico”, dalla condizione del reale nella sua “datità” con il pericolo di cadere nell’impossibilità di delineare una concezione artistica e di accettare come tale ogni produzione a cui si attribuisce più o meno appropriatamente la denominazione di arte.

  1. Necessità di chiarimenti

In primo luogo occorre interrogarsi se sia ancora legittimo parlare di problema estetico. Secondo Maurizio Ferraris4, infatti, la filosofia dell’arte non può essere oggetto di indagine speculativa per il fatto che si basa su due elementi indefinibili e innati, quali il genio e il gusto. Come non è possibile insegnare la bellezza, così vano sarebbe ogni tentativo di superare ogni tipo di riflessione che non rivesta carattere pratico ed esplicativo.

Tale impostazione, che in apparenza pare basarsi su princìpi apodittici ed universali, manifesta un carattere fortemente storicistico, si lega profondamente, come si vedrà, alla filosofia continentale, comporta il trionfo della soggettività e determina l’impossibilità di ogni dialogo tra posizioni diverse. A ben vedere, però, la problematica investe i fondamenti del pensiero stesso e riguarda la possibilità o l’impossibiità di concordare, almeno in via provvisoria, su alcuni elementi minimi.

Proprio alla luce di questa pregiudiziale l’estetica deve porsi come questione preliminare il problema se si possono trovare categorie in grado di qualificare come “artistico” un determinato prodotto oppure se affidarsi ad “esperti”, così definiti in base a non si sa quali criteri, perché il problema dell’indefinibilità dell’estetica si riverbera inevitabilmente sull’indefinibilità del critico e del suo giudizio generando una serie di rimandi all’infinito6.

Proprio in vista di una necessità di una possibilità di discorso l’arte deve andare alla ricerca della propria identità, dei propri compiti e dei propri limiti. È fondamentale un’analisi su funzioni, oggetti e metodi di un sapere e di una pratica. E proprio nell’antinomia teoria-pratica si concentrano tutte le difficoltà di comprensione, di accordo e di attuazione; l’arte, infatti, attinge contemporaneamente a due regni, alla teoria e alla pratica. Si richiede un ponte che colleghi i due àmbiti.

Non è un caso che lo sforzo di autocomprensione dell’estetica si volga in due direzioni: da una parte in armonia con la concezione di fine della metafisica, essa proclama la propria fine coinvolgendo anche le attività connesse come la poetica e la critica e, dall’altra, continua ad “abitare la casa dell’essere”.

In realtà, i limiti dell’estetica di questo secolo dipendono, come si diceva, dal fatto che tale ambito speculativo si è mosso tra una “sconnessione empirista” ed un’“indistinzione idealista”. La “sconnessione empirista” è tipica del periodo postcrociano. Chi tenta la reductio ad unum e cioè di catalogare sotto un unico principio tutte le manifestazioni artistiche si scontra con la loro molteplicità e la contraddizione delle pratiche artistiche ufficialmente accettate. I tentativi di “riaggregazione” cozzano contro posizioni “disgregative” implicite nei criteri di “incommensurabilità dei paradigmi” (Kuhn) o di “intraducibilità dei linguaggi”.

“La sconnessione empirista” si attua nel primato della sfera pratica che si pone come crisi del sistema teorico e si attua in acquisizioni di “tipo descrittivo”, che si autogiustifica e si autolegittima nell’etica “prescrittiva” del rispetto, della pietà e della cura dell’altro (E. Lévinas). Un simile procedimento, positivo sotto il profilo morale, nel settore della critica artistica ha comportato una svalutazione della teoria e alcune conseguenze su cui è importante riflettere.

  1. Soluzione di ripiego: “etica del rispetto”

L’“etica del rispetto” presenta un chiaro atteggiamento “anti-fondazionale”, presuppone la fine dell’estetica come era intesa nel passato e include l’idea di molteplicità di estetiche “incommensurabili”.

Le conseguenze sono chiaramente documentabili nella produzione di incertezza e di confusione nel settore poetico e critico. «Se uno scrittore giustifica (e non è affatto difficile trovare motivazioni coerenti nel caos delle estetiche odierne) l’urlo, il taglio della tela, il foglio bianco, il gioco di parole, il descrittivismo minimo, la banalità e trova un critico affermato che lo esalta, viene considerato un grande autore. In conseguenza di tale statuto, quia nominor leo, viene riconosciuto come capolavoro ogni sua manifestazione […].

Le Avanguardie e le Neoavanguardie sono esempi eloquenti (il mio discorso non verte su testimonianze culturali o letterarie, ma su valori artistici). “Parole in libertà” (uso citazioni di autori passati non per insaevire in mortuos, ma per richiamarmi a situazioni universalmente note): il programma del Futurismo ha motivato l’accostamento o meglio l’accatastamento di parole. I Dadaisti firmavano quello che trovavano o tiravano i colori contro la tela. Ma è sufficiente scrivere manifesti per consacrare un’opera d’arte? Basta veramente l’idea per giustificare la validità di un’opera?»5.

L’“etica del rispetto”, a mio parere, ha prodotto e produce tuttora quel fenomeno che Marco Merlin ha definito come “omertà della critica”: lo studioso accetta qualsiasi posizione estetica, loda incondizionatamente ogni prodotto, non si azzarda in giudizi di valore, cerca nel successo editoriale la garanzia di validità e trova in ogni caso motivi per esaltarne il valore (come nell’antologia Poeti italiani del secondo Novecento [1945-1995], Mondadori, di Cucchi e Giovanardi).

Il fenomeno non può non indurre ad un profondo ripensamento della situazione che stiamo vivendo. Si scambia il pluralismo, che comporta il rispetto per le valutazioni altrui, la consapevolezza del proprio limite, il rischio dell’errore e l’apertura all’altro, con l’indifferenza che sommerge tutto nel grigiore che umilia ogni valore, scoraggia ogni desiderio di competenza e si arrocca sulle proprie posizioni o per incapacità di rischiare o per mancanza di responsabilità o per sfiducia nelle qualità intellettuali umane.

Le motivazioni sono numerose quante sono le persone, ma tutte conducono alla stessa conseguenza, il deprezzamento della critica e dell’arte.

  1. Estetica analitica ed estetica continentale come sinergie per una proposta di critica letteraria

La filosofia analitica, rigorosamente metodologica sta producendo nel settore degli studi filologici e formalistici una serie di risultati di inoppugnabile valore, ma si limita – anzi, si deve limitare – al piano descrittivo e statistico, perché non è in grado di esprimere giudizi di valore.

La filosofia continentale propone, invece, “ermeneutiche”, spiegazioni, interpretazioni, sensi, perché si giova di elementi storici, antropologici e culturali, ma viene considerata con sospetto per il suo carattere “non scientifico”, “non verificabile” e legato alla persona dello studioso.

Mentre nel settore speculativo, nonostante diversi tentativi, le due posizioni rimangono sostanzialmente divergenti, in estetica è possibile, anzi doveroso trovare il punto di contatto e non per puro spirito di conciliazione, ma perché ne esistono le possibilità.

L’estetica di derivazione analitico-scientifica, infatti, ha favorito la diffusione e l’affinamento della filologia, che, come si diceva nel n. 5 di «Atelier», rappresenta il presupposto della critica letteraria ed artistica, ma non va confusa con essa, proprio perché, rinvenendo all’interno dell’opera d’arte “strutture” o “forme” non può fornire altro che “assunti”. Per l’interpretazione si richiede uno “stacco” superiore di carattere concettuale. L’estetica di carattere continentale ha prodotto la confusione e l’etica del rispetto con la conseguente morte della critica.

A mio parere, tra le due posizioni non c’è opposizione, ma complementarità gerarchica, perché solo versando reciproca linfa si potrà ovviare ai limiti di ciascuna di esse.

Che significa “complementarità gerarchica”?

Con questo termine intendo una precisa collocazione dei due ambiti in sinergia di intenti: «Il primo passo della critica consiste nella spiegazione di un testo, di un quadro, di una scultura, di un film, di ogni prodotto dell’arte secondo prospettive filologiche, formali, linguistiche, strutturali attinenti all’oggetto in esame […].

[Nella] seconda fase le opere vengono analizzate in rapporto all’epoca in cui sono state prodotte, anche perché l’individuo-autore vive nel flusso del divenire storico-culturale, con il quale intesse un rapporto dialettico di reciproco condizionamento e perciò di reciproca spiegazione. Un’opera presenta validità nella misura in cui diviene interprete del divenire del pensiero umano, nella misura in cui presenta precisi elementi che caratterizzano un’epoca, i quali ci permettono di comprendere mediante essi il passato. E, per rintracciarli, occorre uscire dal testo per verificarne la loro presenza in altri ambiti: negli altri settori artistici, nello sviluppo della speculazione filosofica soprattutto, nella storia del pensiero scientifico, sociologico, psicologico, in ogni modello, insomma, in cui si è manifestata la cultura, intesa in senso antropologico. Ed in un secondo momento lo studio delle caratteristiche culturali di una determinata epoca può essere inserita nel più vasto disegno di evoluzione del pensiero e della civiltà umana»7.

  1. Aporie dell’estetica contemporanea

Nel campo della critica artistica questa impostazione permette di superare le aporie proprie dell’estetica contemporanea e i conseguenti problemi di poetica.

  1. a) In primo luogo non si può parlare di fine della metafisica e dell’estetica per autosuperamento. Nel saggio «La fine della filosofia e il compito del pensiero» Martin Heidegger propone l’immagine dell’“oltrepassamento” della metafisica causata dal frammentarismo nelle singole scienze e tecniche. Ogni tipo di sapere si fonderebbe su “concetti strutturali” validi solo nel loro ambito di applicazione i quali si traducono in un’organizzata pluralità di operazioni inquadrate tecnicamente. La ragione strumentale, quindi, avrebbe distrutto anche l’arte come prodotto dell’essere umano.

In realtà all’arte e alla filosofia intesa come interpretazione dell’essere viene proprio riservato il compito fondamentale di opporsi alla ragione strumentale al fine di superare il non-pensiero tecnologico. In questa prospettiva assume un compito di primaria importanza la poesia, perché risulta l’espressione meno soggetta alla tecnica e alla conseguente mercificazione. La fine del poeta di corte, del poeta vate, la crisi della vendita delle pubblicazioni ha condotto questo tipo di manifestazione artistica in una situazione di assoluta gratuità. La pittura e il romanzo risultano assai più legati alle regole del mercato. E proprio grazie a questa posizione di debolezza la poesia potrà assumere un ruolo “costitutivo” di opposizione alla ragione tecnico-scientifica.

  1. b) La seconda aporia ridurrebbe l’arte a filosofia (Hegel), per cui l’elaborazione concettuale basterebbe a produrre arte. Si tratta di una posizione molto diffusa nel Novecento: «Al principio v’è l’azione, certo ma al di sopra sta l’idea. E dal momento che l’infinito non ha inizio preciso, ma anzi come il cerchio ne è privo, l’idea può essere considerata primaria»8. Paul Klee testimonia come la pittura abbia dissolto il suo poieîn nell’intuizione che, a sua volta, si è trasformata in “parola”.

In questo caso è venuto a mancare l’armonioso equilibrio della realtà umana, in cui essere, pensare, dire, fare trovano feconde sinergie d’attuazione. Non basta l’intenzione né l’argomentazione né la difesa da parte dell’autore perché un’opera sia definita artistica.

  1. c) La terza aporia al contrario risolverebbe la filosofia nella poesia. Heidegger, riprendendo Hölderlin, sostiene che la fine della filosofia apre la strada alla poesia come forma di conoscenza: «Ma ciò che resta lo intuiscono i poeti»9. Di fronte al suicidio della logica non resterebbe che la poesia. Già Nietzsche aveva preconizzato la nascita di filosofi-artisti. Derrida prevede una filosofia “artistica” o “letteraria” e lavora sui testi della tradizione filosofica. Nel settore speculativo americano si diffonde l’idea del testo come entità autonoma (testualismo) dotato di arbitrarietà interpretativa: anche il testo filosofico è letteratura.

La fine della metafisica delegherebbe il compito gnoseologico all’arte. Ma, pur riproponendo la portata conoscitiva di quest’ultima attività umana, è indispensabile operare precise distinzioni tra i due àmbiti.

  1. Arte e filosofia

Non c’è dubbio che il pensiero contemporaneo consideri molto stretto il nesso tra poesia e filosofia al punto che spesso tali campi finiscono con il perdere la loro identità, come non c’è dubbio che essi risultano estremamente intrecciati al punto che il destino dell’una diventa il destino dell’altra manifestazione umana.

Il pensiero poststrutturalista francese diffusosi all’inizio degli Anni Settanta può indicare una via di soluzione del problema. Esso si configura come “nichilismo attivo”, propositivo, privo di rimpianti per la filosofia precedente.

Questo “pensiero debole” determina la fine dell’“estetica fondazionale” che pretende sia di stabilire regole estetiche universali e necessarie sia di descrivere le forme a priori del “fare” artistico anch’esse concepite come dotate di intemporalità e di universalità. Una simile posizione induce ad ammettere la tesi della storicità del fenomeno artistico, legato cioè alla contingenza storico-espressiva appartenente ad un determinato linguaggio, il quale, a sua volta, pur con tendenze innovative, si muove all’interno di una precisa tradizione. L’artista è heideggerianamente “gettato” nella storicità di un preciso processo culturale.

Ora il processo di kénosis, di svuotamento, di abbassamento della filosofia dell’essere divenuto linguaggio, testo, opera, scrittura, causa la fine di ogni carattere di assoluta pretesa di conoscenza e dispone all’umiltà della ricerca, delle piccole e provvisorie conquiste, dell’accettazione degli errori senza alcuna pretesa di assoluta Verità.

È legittimo, anzi doveroso, alla fine dell’estetica classica e romantica, riformulare un’estetica, ma è anche opportuno sottolineare il suo carattere di provvisorietà legato alla situazione culturale che stiamo vivendo. Non si tratta nel modo più assoluto di avvallare il relativismo scettico, ma di prospettare un atteggiamento di consapevole umiltà che coinvolge non una sola persona, ma tutta una serie di studiosi che in comune accettano i limiti umani e non assolutizzano alcuna conquista.

Tale premessa ci consente di entrare nel cuore del problema e chiarire, sia pure provvisoriamente, il concetto di arte. Mentre la filosofia, la scienza, la critica storica cercano di interpretare/descrivere il reale in modo esclusivamente razionale, schematizzando, de-limitando cioè i dati (o meglio gli “assunti”) dell’esperienza perdendo di vista la “complessità del reale”, l’arte si accosta alla vita in modo totale. Le altre forme di conoscenza, infatti, pongono l’individuo in relazione con l’altro-da-sé in modo logico e consequenziale servendosi dei nessi di causa-effetto, delle dislocazioni spazio-temporali, così come avviene nella sintassi del linguaggio, l’arte, invece, tenta di riprodurre la completezza dell’esperienza umana in cui si attua una vera e propria lotta contro i limiti esistenziali, in cui spesso le dislocazioni spazio-temporali sono assorbite nel magma dell’inconscio, nella riattualizzazione del passato, nell’anticipazione del futuro e nella disposizione a leggere nei dati sensoriali un significato simbolico.

Di fronte a queste realtà la scienza è muta, la filosofia entra in posizione di contraddizione (come in Kant tra mondo della Ragion Pura e mondo della Ragion Pratica), l’indagine storica perde di vista una quantità innumerevole di manifestazioni del passato. Ma proprio in questa complessità (non solo pluralità) di senso sta la ragion d’essere dell’arte che si arricchisce di apporti mitici, realistici, allegorici descrittivi, interpretativi e fa uso di linguaggi che nella loro trasparenza magari anche comune assumono inesauribili significati in un continuo rapporto di senso con il fruitore.

Tale dialogo si risolve in una “com-prensione” non gratuita perché l’opera-testo rimarrà sempre l’elemento di base e l’arricchimento del senso procederà in modo mai terminato a seconda della particolare Weltanschauung di ogni età, come è avvenuto per Omero, per Dante, per Virgilio, per Michelangelo, per Goya e per tutti i grandi del passato che seppero esplorare dimensioni nuove dell’esperienza umana.

E in periodo di nichilismo la poesia assume i caratteri dell’umiltà, non tende all’universale, esprime “parole” sommesse, “frammentate”, ma pur sempre parole, che traggono forza dalla loro stessa precarietà; la pittura traccia colori, forme, figure provvisorie, concetto che va inteso non nel senso deteriore, ma come inizio di una ricostruzione culturale che, anche se non approderà alla Verità, rappresenterà comunque un bagliore di conoscenza.

In questa prospettiva contemporaneamente etica ed estetica l’autore deve rimeditare la sua posizione senza temere di sporcarsi le mani (quante volte abbiamo ripetuto quest’espressione sulle pagine della nostra rivista!), deve calarsi nel reale e, come un artigiano (non artista), deve accontentarsi dello sforzo piuttosto che dalla gratificazione del successo. Se lo strutturalismo e il formalismo tendono a considerare l’opera come prodotto indipendente dall’autore e se nell’ermeneutica la prospettiva etica10 lo conduce sulla via di un sano ed equilibrato realismo e ad una responsabilità di chi è consapevole che il suo prodotto dovrà “dialogare” con i suoi simili, la prospettiva che presentiamo unisce al rapporto comunicativo anche la “datità” di un’opera dalla quale occorre partire e alla quale occorre sempre rapportarsi. Opera ed autore risultano, quindi, indissolubilmente uniti in un legame che si àncora o si è ancorato nell’atto storicamente, geograficamente e culturalmente determinato del poieîn. E, se il gesto della creazione modifica un altro-da-sé, lo modifica in senso non utilitaristico, ma conoscitivo, per il fatto che anche la conoscenza trasforma il mondo, non lo lascia intatto, lo “gioca”. Umanità e prodotto artistico si pongono, dunque, in una dinamica dialettica di reciproca costruzione.

  1. Conclusione

A questo punto possiamo riassumere alcuni degli spunti di dibattito:

  1. a) è ineludibile il nesso tra pensiero speculativo e arte all’interno del Novecento;
  2. b) la crisi della filosofia ha comportato anche una crisi dell’estetica, della poetica e della critica letteraria;
  3. c) il nichilismo, anziché tradursi in processo scettico, può essere assunto come elemento propositivo;
  4. d) la crisi della metafisica può comportare l’assunzione di un atteggiamento di umiltà come categoria etica ed estetica che comporta il dialogo, l’accettazione del pluralismo, ma anche la concretezza nel porre le questioni e la responsabilità del giudizio critico;
  5. e) in questa esile prospettiva si può riscoprire la parola, la linea, il colore, la forma, la valutazione onesta dell’opera d’arte e
  6. f) da questo deriva l’invito a lavorare insieme, a confrontare le idee, a percorrere il cammino come homines quaerentes che ci porterà forse a provvisorie verità e a frammenti speculari di un’altra Verità, che ora vediamo solo per speculum et in aenigmate.

Giuliano Ladolfi


NOTE

1 Franca Agostini, Analitici e continentali – Guida alla filosofia degli ultimi trent’anni, Milano, Cortina, 1997.

2 Ibidem, p. 2.

3 Ibidem, p. 3.

4 Cfr. Maurizio Ferraris, Per un’estetica postmoderna, Bologna, Il Mulino, 1985.

5 Giuliano Ladolfi, Filologia, critica ed antropologia letteraria, «Atelier», n. 5 (marzo 1996), p. 45.

6 Cfr. ibidem, p. 44.

7 Ibidem, pp. 46-47.

8 Paul Klee, Teoria della forma della figurazione, Milano, Feltrinelli, 1959, p 77.

9 Martin Heidegger, La poesia di Hölderlin, Milano, Adelphi, 1988, p. 49.

10 La parola “etica” viene intesa non come precettistica morale, ma nell’accezione etimologica di «θος, abitudine, fatto reale ripetuto e accettato.