“Filologia, critica e antropologia letteraria” – dal n. 5 di Atelier, marzo 1997 – di Giuliano Ladolfi

Il seguente saggio si propone di suscitare un dibattito sugli attuali metodi di interpretazione artistica, la maggioranza dei quali si dimostra incapace di esprimere sulle opere valutazioni convincenti generando insoddisfazione e sfiducia nei confronti dell’estetica attuale.  L’autore traccia un percorso di interpretazione che, da una parte, induca gli studiosi a fare chiarezza sui limiti e sugli ambiti delle loro ricerche e, dall’altra, apra una nuova via di intelligibilità in grado di esprimere giudizi di valore. Il lavoro lascia aperti molti interrogativi al fine di invitare i lettori ad una riflessione dalla quale dovrà scaturire un’accresciuta consapevolezza della necessità di impostare il problema in modo radicalmente diverso.

  1. I problemi della critica attuale

Una delle necessità più urgenti che gli studi letterari oggi devono affrontare è la chiarezza di impostazione dei fondamenti e delle metodologie.

A partire dal Romanticismo, quando l’estetica ha subìto una vera e propria rivoluzione rispetto al classicismo, si sono intensificate le dichiarazioni di poetica da parte degli artisti. Si tratta di un fenomeno positivo, per il fatto che costringe ad un lavoro di chiarificazione che si riverbera positivamente sull’attuazione pratica e suscita dialogo, discussione e confronto.

Questo fatto, tuttavia, comporta un grave pericolo assai poco discusso, che sta alla base dell’incertezza e della confusione nella critica contemporanea. Infatti ogni tipo di poetica ottiene il riconoscimento alla sola condizione di autogiustificarsi. Se uno scrittore giustifica (e non è affatto difficile trovare motivazioni coerenti) l’urlo, il taglio della tela, il foglio bianco, il gioco di parole, il descrittivismo minimo, la banalità e trova un critico affermato che lo esalta, viene considerato un grande autore. In conseguenza di tale statuto, quia nominor leo, viene riconosciuto come capolavoro ogni sua manifestazione. Si innesta così un circolo vizioso che nel settore letterario si configura come intreccio editoria-giornalismo-università e nel campo artistico mercato-critica, che celebra i riti della “consacrazione” da una parte imponendo precise scelte ed orientamenti culturali quando non ideologici, dall’altra emarginando sia concezioni sia artisti di posizioni contrarie.

Le Avanguardie e le Neoavanguardie sono esempi eloquenti. «Parole in libertà» (uso citazioni di autori passati non per insaevire in mortuos, ma per richiamarmi a situazioni universalmente note): il Futurismo ha motivato l’accatastamento di parole. I Dadaisti firmavano quello che trovavano o tiravano i colori contro la tela. Ma è sufficiente scrivere manifesti per consacrare un’opera d’arte? Basta l’idea per giustificare la validità di un’opera?

Tale situazione si può generare solo in presenza di una debolezza della critica incapace di uscire, usando un’espressione di Luigi Pareyson, dal pensiero “espressivo” per attingere al pensiero “rivelativo”. Nel primo caso ci troviamo all’interno di una situazione “storicistica” che nega alla filosofia e quindi all’estetica ogni valore di giudizio, riconoscendo all’arte unicamente l’attributo di “espressione del proprio tempo”. E proprio solo in questo senso si possono qualificare le manifestazioni di cui si è parlato. In realtà alla base di ogni esercizio critico si pone come conditio sine qua non il ricorso ad un principio diverso da quello criticato, altrimenti si cade (e si è caduti) in valutazioni tautologiche. Ad esempio, arte è registrazione mimetica dell’inconscio; se l’inconscio non produce nulla, è arte il silenzio.

Una simile situazione può essere superata distinguendo la poetica dall’estetica e ritrovando in quest’ultima i criteri di valutazione, anche se le due realtà vanno colte nella diversità solo nel momento riflesso, nell’atto della critica, non certo nella pratica compositiva in cui sono “coessenziali”.

In realtà in ogni critica un livello estetico è sempre implicato sia quando viene ridotto alla poetica generando astratti discorsi (come è avvenuto nelle Avanguardie) sia quando è semplicemente (talvolta volutamente ed ideologicamente) sottinteso in esercizi che apparentemente si presentavano come analisi di un testo. Ogni atto, in cui si fornisce un’interpretazione, inevitabilmente supera il puro e semplice “dato”. Nessuno, penso, può obiettare al fatto che l’analisi formale o filologica, deve limitarsi a fornire un elenco di informazioni riguardanti il contenuto, la struttura, il lessico, la metrica, le rime, le figure retoriche, il significato storico di un termine, al massimo si può giungere ad una valutazione relativa all’evoluzione del genere letterario, ad un esame delle varianti, a notizie biobliografiche o ad un’analisi intertestuale. Ma, nel momento in cui si compie un’operazione di interpretazione di tali dati, si cade fatalmente in un’operazione intellettuale che supera il puro e semplice fenomeno artistico, coinvolgendo inevitabilmente convinzioni estetiche, giustificate in altre sedi.

  1. Livelli di approccio critico

La filosofia contemporanea ha iniziato una lunga riflessione sulle possibilità di giungere a un giudizio motivabile con Husserl, che nei primi decenni del secolo ha compiuto una vera rivoluzione epistemologica. Il filosofo tedesco ritiene che il pensiero e la scienza debbano ritornare alle cose stesse, per il fatto che la speculazione moderna, da Galilei al Positivismo, aveva trascurato una categoria fondamentale della realtà, la “complessità”, provocando una divaricazione tra teoria e prassi e dimenticando il «mondo della vita». E questo limite speculativo permane ancora nella critica: lo strutturalismo, la semiotica, la critica psicanalitica ignorano la complessità della realtà in cui “vive” o “è vissuto” un testo con tutti i riferimenti all’autore, al periodo storico, alla tradizione, all’ambiente culturale, politico, economico, alle credenze religiose, al rapporto con il lettore, componenti che trascendono la “storicità” di un prodotto artistico.

Ma accanto alla comprensione fenomenologica Martin Heidegger sostiene la necessità di un secondo elemento, l’interpretazione. Queste modalità rappresentano «il fenomeno costitutivo ed originario dell’esistenza umana, la quale interpreta se stessa precisamente come “comprensione” ed “interpretazione”. Il comprendere non è più un atto tra i tanti del pensiero, l’apprendimento neutrale di qualcosa di dato oppure un comportamento che occorre organizzare in forma metodica o strutturare scientificamente, ma costituisce il tratto essenziale, il carattere più proprio dell’esistere, è il carattere ontologico fondamentale della vita umana stessa. Il modo originario dell’Esserci, cioè di quell’unico ente che si pone il problema dell’Essere come essere nel mondo, vale a dire l’uomo, è la comprensione, sicché l’interpretazione è “l’articolazione della comprensione” che ci costituisce come esistenti»[1]. L’unione dei due elementi permette di giungere al livello “rivelativo”, piano su cui si possono esprimere giudizi critici.

E Hans George Gadamer accentua il carattere particolare di tale posizione sottolineando le caratteristiche dell’”ascolto” e dell’”annuncio” del linguaggio dell’essere: «L’essere che può venire compreso è il linguaggio» nel senso che questo linguaggio non è descrizione distaccata, ma «evento dialogico» che coinvolge tutti gli interlocutori e, quindi, anche il lettore.

Paul Ricoeur riprende il problema dell’interpretazione che viene concepita come disvelamento di sensi nascosti. Si deve, cioè, trovare una “sovradeterminazione” di quei segni che si offrono all’interpretazione e che sono simboli, come il male, la colpa.

Dalla corrente di pensiero fenomenologico-ermeneutico si possono ricavare tre distinti livelli sinergici di comprensione-interpretazione dialogica:

  1. a) un ambito di lavoro che mira a spiegare, ad attribuire significato a dati precisi: una parola, un’espressione, una metafora, il testo insomma;
  2. b) un secondo ambito che cerca di comprendere il significato di un’opera, di un autore all’interno del periodo culturale in cui è vissuto;
  3. c) un terzo settore, concepito come ricerca intorno all’uomo, «quell’unico ente che si pone il problema dell’Essere come essere nel mondo»: in questo caso, però, l’approccio ermeneutico si identifica con la filosofia. Lo studio del fenomeno diventa ricerca della condizione umana «attraverso l’esplicitazione del senso implicito nel rapporto dell’uomo con i prodotti dell’attività simbolica, diventa domanda intorno alla ragione di questo costitutivo trascendimento del segno in un senso ulteriore»[2]. Personalmente, tuttavia, sarei incline a delegare questo ultimo settore alla filosofia e alle scienze umanistiche sempre più propense a una visione interdisciplinare a cui la letteratura e la poesia collaborano.

  1. Le fasi della ricerca

La critica artistico-letteraria non si identifica in nessuno dei singoli livelli, se vuole superare posizioni riduttivistiche. Se ci si limita al primo punto, come la semiotica, il testo è ridotto a segno, se ci si limita al terzo, come nell’ermeneutica, il testo diventa solo simbolo.

  1. a) Il primo passo della critica consiste nella spiegazione di un testo, di un quadro, di una scultura, di un film, di ogni prodotto dell’arte secondo prospettive filologiche, formali, linguistiche, strutturali attinenti all’oggetto in esame. Questa ricognizione permette di risalire al mondo fantastico ed umano dell’autore, alla sua Weltanschauung, alla sua unica ed irripetibile visione della vita, all’integralità della sua esperienza umana individuale e sociale. In questo lavoro saranno di aiuto le notizie biografiche, i dati relativi all’ambiente artistico, culturale e storico in cui è vissuto, le convinzioni umane e religiose, in altre parole lo studio dell’ambiente dedotto da testimonianze dirette e indirette. Duplicità di punti di osservazione richiede diversità di strumenti di indagine (filologia, psicologia, sociologia, storia, antropologia culturale, estetica, poetica, pedagogia ecc.) strettamente correlati, separabili soltanto in sede di definizione, che rappresentano solo mezzi per accostarsi al testo, il fine privilegiato, anzi unico, del lavoro del critico. Il testo, in ogni caso, non risulterà dalla somma dei singoli elementi, ma da un “scatto” superiore, individuale, proprio della personalità dell’autore, irriducibile alle singole parti.
  2. b) Per uscire da una poetica che si autogiustifica e per tentare una valutazione, bisogna far ricorso alla seconda fase, la sola che permette al giudizio di divenire “rivelativo” e, quindi, di spezzare il circolo chiuso.

In questa seconda fase le opere vengono analizzate in rapporto all’epoca in cui sono state prodotte, anche perché l’individuo-autore vive nel flusso del divenire storico-culturale, con il quale intesse un rapporto dialettico di reciproco condizionamento e perciò di reciproca spiegazione. Un’opera presenta validità nella misura in cui diviene interprete del divenire del pensiero umano, nella misura in cui presenta precisi elementi che caratterizzano un’epoca, i quali ci permettono di comprendere mediante essi il passato. E, per rintracciarli, occorre uscire dal testo per verificarne la loro presenza in altri ambiti: negli altri settori artistici, nello sviluppo della speculazione filosofica soprattutto, nella storia del pensiero scientifico, sociologico, psicologico, in ogni modello, insomma, in cui si è manifestata la cultura, intesa in senso antropologico.

Ora, se la storia dello spirito umano è mossa dal pensiero, la struttura di questa impostazione sarà la filosofia, intesa nel senso di sistema portante, di elemento epistemologico di tutto il sapere di un determinato periodo storico-culturale, anche come attuazione in strutture civili, in modelli comportamentali e non solo come opere prodotte da autori particolari. Per esempio, solo la presentazione chiara e corretta del pensiero medioevale può aiutare ad intendere la Divina Commedia e la recente acquisizione da parte della critica dell’interpretazione figurale di Erich Auerbach conferma questa ipotesi. È necessario, tuttavia, non cadere nel difetto simile, anche se opposto, alla critica marxista: la letteratura non è il rispecchiamento della filosofia. Non si tratta di una ripresa dello schema della critica sociologica con la semplice variazione rispetto all’economia. Non si può dimenticare la presenza di una personalità che rielabora in modo originale gli elementi desunti dal contesto di vita e di determinate codificazioni retoriche e stilistiche che caratterizzano il fenomeno letterario.

Questa metodologia rivaluta anche la portata conoscitiva dell’arte: se l’arte rappresenta un modo di conoscere la realtà, lo studioso deve coglierne il significato. E proprio in questo secondo momento si riesce ad introdurre un elemento di valutazione che esce dal circolo vizioso di una poetica autogiustificatrice per trovare all’esterno un criterio. Nell’analisi delle opere lo studioso dovrà essere in grado di scoprire se sono presenti elementi che permettono di comprendere il momento epocale, in cui esse furono composte oppure se non riescono a sollevarsi dal fatto contingente. Infatti ogni tipo di produzione descrittiva-cronachistica o semplicemente letteraria lontana dalla vita è “espressiva” di un avvenimento, di un sentimento, di strutture, di modelli, di generi letterari: non aiuta a conoscere. Invece possiede valore conoscitivo la produzione che “rivela” una situazione o storica o epocale o intellettuale o, soprattutto, esistenziale.

Vincenzo Monti rimarrà nella storia della letteratura come un minore, perché il suo Neoclassicismo si esaurì in un’interpretazione tecnico-formale; Ugo Foscolo, invece, nel mito classico seppe proiettare le inquietudini, il bisogno di senso, le cocenti disillusioni proprie e di un’intera epoca di passaggio tra Illuminismo e Romanticismo. Nelle sue opere troviamo la consapevolezza dei limiti della spiegazione razionale dell’uomo, della vita e dell’universo e la necessità di un’interpretazione diversa, in cui trovassero posto anche il “senso della vita”, i valori umani della bellezza, della patria, dell’amore, della famiglia, della poesia, le famose “illusioni”. Anche Kant nello stesso periodo avverte il limite della Ragion Pura e la presenza del mondo della Ragion Pratica, ma, come il poeta italiano, non riuscì, pur tentando nella Critica del Giudizio, a gettare un ponte tra i due regni.

Non si può accettare la posizione di chi sostiene, ad esempio, che nella realtà il Romanticismo non esiste: esistono solo scrittori, pensatori artisti romantici e non perché si creda che la categoria del Romanticismo si sia incarnata nel concreto o che dal concreto si possa astrarre la categoria logica. Il Romanticismo rimane sempre e solo una denominazione che, come tale, aggrega come in una rete di comprensione una molteplicità di fenomeni particolari i quali presentano qualche elemento comune, richiesto, se non altro, da una necessità basilare di comunicazione. Se non si trovano legami tra la filosofia dell’Idealismo e le manifestazioni contemporanee italiane occorre, per coerenza, adottare denominazioni diverse senza alcun timore reverenziale nei confronti della tradizione.

Per giungere alla valutazione di un autore si richiede una stretta collaborazione tra i due livelli: la filologia fornisce il punto fermo da cui partire e a cui operare costante riferimento; la critica mediante l’azione di interpretazione fornisce la possibilità di intelligibilità e di giudizio guidato dall’estetica, ma il testo rimane l’oggetto di studio inesauribile. In questo modo si supera non solo il circolo vizioso della poetica autogiustificatrice, ma anche la debolezza della critica semiologica e filologica e, all’opposto, l’interpretazione psicanalitica e simbolica.

  1. c) Il terzo livello è costituito, secondo le indicazioni di Ricoeur, dalla ricerca sull’uomo, sulla sua lotta tra bene e male, sul suo cammino di civiltà e sul suo rapporto con l’Eterno. A questo punto entra in gioco l’interpretazione simbolica e la sua ricerca di un’ulteriore dimensione.

La parola stessa ne è testimonianza: «Symbolon in greco significava originariamente la parte di un oggetto spezzato, che serviva come segno di riconoscimento tra ospiti o tra famiglie. Come il troncamento di questa tessera rimandava all’esistenza di un’altra tessera, così la mentalità simbolica postula un’altra realtà: accanto al presente l’assente, al passato il futuro, alla materia lo spirito, all’espressione il pensiero, all’”enigma” la realtà che si cela dietro “lo specchio”. Il simbolo non solo è traccia di “altro”, ma indica anche che quell’“altro” conta di più. E solo nel recupero della dimensione del sacro è possibile un tipo di poesia che attraverso il simbolo diventi scoperta della totalità della realtà. La concezione materialistica, infatti, permette, al massimo, l’uso di una simbologia linguistica o immaginifica, mai rivelatrice»[3].

D’altra parte, come giustamente sostiene Huizinga, il simbolismo medioevale poteva essere spiegato dalla frase di San Paolo ai Corinzi: Videmus nunc per speculum et in aenigmate, tunc autem facie ad faciem. La realtà terrena era considerata solo lo “specchio” della vera realtà. L’uomo dell’Età di Mezzo riusciva con riferimenti ai testi classici o biblici a riscoprire il significato della realtà fenomenica. Alla base di questa mentalità allegorica si trovava una salda visione religiosa, che interpretava l’ex-sistere secondo due condizioni legate da un nesso di causa effetto, quella temporale e quella eterna.

Quest’ultimo approccio, tuttavia, non entra a rigore, come già si diceva, nella critica; al massimo potrebbe essere definita antropologia letteraria, perché il testo non possiede quella proprietà di costante riferimento richiesto. Non si tratta di un’operazione illegittima, ma di altro tipo di studio che si giustifica su basi diverse. Se per l’analisi formalistica, strutturalistica e semiotica il testo è tutto e, se per noi, il testo è la struttura portante di una rete di senso, per l’antropologia letteraria il testo è solo un simbolo.

  1. L’interpretazione

A questo punto è indispensabile fissare l’attenzione sul problema dell’interpretazione per ogni tipo di azione intellettuale che si proponga di rintracciare una struttura di senso.

Perché l’intero discorso assuma una convincente coerenza logica, è indispensabile che si chiuda l’arco significativo di cui parla Ricoeur. Si tratta di un’operazione distinta in tre fasi: il primo momento si attua nella conoscenza del testo e di tutta quella serie di nozioni che rientrano nel primo livello; nel secondo momento si formula l’ipotesi di interpretazione con il supporto di conoscenze anteriori; nel terzo si opera un vero e proprio experimentum crucis e cioè ci si pone alla ricerca di puntuali e precise corrispondenze esterne in altri settori culturale ed interni mediante la verifica sul testo da cui si è partiti. Se l’operazione produce risultati positivi, si è chiuso l’arco significativo e l’ipotesi è dotata di senso.

È evidente il riferimento al metodo scientifico-galileiano, anche se la verifica assume un significato assai diverso, perché non sarà mai soggetta alla “verificabilità” di cui parlavano Schlick e il «Wiener Kreiss» né il risultato avrà mai valore di legge, ma sempre e soltanto di interpretazione. Quindi, sembra opportuno anche nel campo letterario proporre come metodo l’adozione dei paradigmi di Thomas Kuhn.

Ma, come già è stato sottolineato, ogni tipo di interpretazione, a qualunque livello si presenti, esige uno “scarto” tra gli elementi assunti in esame e le conclusioni, perché il fatto è muto.

Il problema è delicato perché coinvolge la sfera soggettiva. Osserva Martin Heidegger: «Il circolo della comprensione non è un semplice cerchio in cui si muova qualsiasi forma di conoscenza, ma è l’espressione della pre-struttura propria dell’Esserci stesso». L’importante, però, «non sta nell’uscir fuori dal circolo, ma nello starvi dentro nella maniera giusta».

Secondo Gadamer, per l’essere umano limitato e finito comprendere significa interpretare ed ogni interpretazione richiede un «movimento anticipante» che delinea l’opera all’interno di schemi prestabiliti forniti dagli studi, dalle tradizioni, che non solo non costituiscono un ostacolo, ma ne rappresentano l’ineliminabile presupposto fecondo. «La soggettività è solo uno specchio frammentario: l’autoriflessione dell’individuo non è che un barlume del compatto fluire della storia». E l’anticipazione di senso «non è un atto della soggettività, ma si determina in base alla comunanza che ci lega alla tradizione. Questa comunanza, però, nel nostro rapporto con la tradizione è in continuo farsi. Non è semplicemente un presupposto già sempre dato; siamo noi che la istituiamo in quanto comprendiamo, in quanto partecipiamo attivamente al sussistere e allo svolgersi della tradizione e in tal modo portiamo noi stessi avanti». In questo senso anche l’esercizio della critica e l’adozione di particolari paradigmi è “rivelazione” dell’epoca stessa in cui si compie tale operazione.

L’interpretazione, quindi, non solo è un’operazione legittima, ma anche è l’unico modo di comprendere e tale legittimità è sancita dalla “natura storica” dell’essere umano che riceve e rielabora una tradizione.

La comprensione di un’opera, perciò, si configura come un compito senza fine, che richiede di mettere continuamente a prova i giudizi mediante la gadameriana «fusione di orizzonti» che costringe l’interprete a modificare il suo pensiero. Interpretare equivale, quindi, ad aprirsi alla dimensione dell’alterità, a colmare la distanza che separa dall’autore facendo emergere le possibilità implicite nell’opera, ad operare un continuo dialogo con altre posizioni per arricchirsi dell’apporto conoscitivo altrui. «Sotto questo profilo l’ermeneutica gadameriana si propone come l’esperienza concreta e privilegiata per cui nessun evento della realtà è intesa come un fatto accaduto una volta per tutte, ma come un’offerta di significato che spetta alla coscienza di far accadere in tutta la sua ricchezza»[4].

Per superare la distanza tra l’interprete e l’opera occorre che egli «metta tra parentesi» i suoi pregiudizi e si apra alle tendenze di significato ricuperando i concetti che «includano in sé il nostro stesso modo di pensare» (Gadamer).

  1. Conclusione

A questo modello interpretativo si possono muovere molte obiezioni. Mi limiterò a discuterne due.

In primo luogo si potrebbe osservare che in realtà la soluzione presentata non risolve il problema della poetica autogiustificatrice, perché l’estetica stessa si comporta nello stesso modo spostando semplicemente il problema. La questione è importante, perché riconduce il problema ai princìpi primi. Pur essendo consapevole che ogni tipo di sapere si basa su alcuni elementi assunti come significativi, ma indimostrabili, sono convinto che questa posizione arricchisca di senso il testo per alcuni motivi: chiarisce le diverse fasi del giudizio distinguendo l’analisi testuale dall’interpretazione, conserva l’umiltà di non presentare per oggettivo quanto invece è puramente soggettivo, non pretende di giungere a conclusioni definitive, ma a proposte e, infine, dichiara i propri limiti e la propria povertà.

Si può obiettare anche che in questo modello di critica si perde la specificità dell’arte: un musicista, un pittore, uno scrittore alla fine si equivalgono, se presentano elementi di comprensione del loro momento culturale.

Senza dubbio, la distinzione delle singole manifestazioni viene considerata soltanto nella prima fase, perché arti diverse possono esprimere medesime caratteristiche di un determinato periodo storico; non a caso si è più volte espressa la necessità che ogni ipotesi deve venire convalidata mediante riferimenti a contenuti provenienti da ambiti culturali differenti. Evidentemente non è indifferente il fatto che ci si trovi di fronte a un poema o a un romanzo, a una sinfonia o a una stampa, a un quadro o a un edificio architettonico, a un’opera di filosofia o a una sintesi antropologica perché si tratta di espressioni e linguaggi particolari, ma la loro “significatività culturale” non dipende dal settore specifico a cui si ascrivono.

Il testo, quindi, continua a mantenere la sua validità con i suoi problemi di ermeneutica, di genesi, di struttura formale, ma diventa «anche» segno di un discorso più generale, che trova nella storicità della condizione umana il suo denominatore, il suo senso e il suo obiettivo finale. I diversi momenti, quindi, non si pongono come aut aut, ma come et et in una convergenza di intenti, che salvaguardano l’autonomia e contemporaneamente la sinergia di ogni livello. Si tratta di segmenti dello stesso arco interpretativo.

In questa prospettiva il valore dell’opera dipenderà dalla possibilità di «chiusura dell’arco ermeneutico»; se un solo segmento cede, tutto l’edificio ne resta coinvolto. Se l’opera non corrisponde a criteri di validità artistica, non può rappresentare un modo originale secondo cui l’autore ha interpretato il periodo in cui visse e la sua realtà di uomo unico e irripetibile. Ugualmente la sola perfezione formale, se non è segno di un cammino generale, rimane sterile e priva di significati.

Per questo motivo sono grandi artisti coloro che nella loro individualità unica e irripetibile hanno saputo elaborare opere d’arte divenute testimonianza del cammino percorso dall’umanità.

In questo senso la critica risulta momento di intelligibilità non solo del testo, ma anche di chi lo compone e in questo modo il critico diventa l’homo quaerens, il ricercatore inesausto di senso e di verità.

[1] Patella Giuseppe, Percorsi storici, «Nuova Secondaria», Brescia, La Scuola, XIII, 6, p. 33.

[2] Rigobello Augusto, Il concetto, la struttura interna, i problemi, «Nuova Secondaria», Brescia, La Scuola, XIII, 6, p. 28.

[3] Ladolfi Giuliano, La poesia al bivio, nel testo La poesia e il sacro alla fine del Secondo Millennio, Milano, San Paolo, 1996, 30.

[4]  Pieretti Antonio, Due scuole: Gadamer e Ricoeur, «Nuova Secondaria», 1995/96, p. 36.