Atelierpoesia.it https://www.atelierpoesia.it/ Tue, 26 Sep 2023 13:22:37 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=6.3.1 Andrea Carloni – Inediti https://www.atelierpoesia.it/andrea-carloni-inediti/ Fri, 29 Sep 2023 06:13:43 +0000 https://www.atelierpoesia.it/?p=12626 Andrea Carloni, nato a Roma nel 1977, vive in Veneto. Ha pubblicato nel 2019 la raccolta di racconti premiati Chi mai in qualche dove, nel 2022 il romanzo Lissy è stata qui e la traduzione in forma poetica della silloge Musica da camera di James Joyce con postfazione di Enrico Terrinoni per Castelvecchi Editore. Conduce il canale/podcast Ritratto di Ulisse ispirato al romanzo di Joyce, con letture, ascolti e interviste ad esperti e appassionati come Michele Ciliberto, Gilda Policastro, Maurizio […]

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Andrea Carloni, nato a Roma nel 1977, vive in Veneto. Ha pubblicato nel 2019 la raccolta di racconti premiati Chi mai in qualche dove, nel 2022 il romanzo Lissy è stata qui e la traduzione in forma poetica della silloge Musica da camera di James Joyce con postfazione di Enrico Terrinoni per Castelvecchi Editore. Conduce il canale/podcast Ritratto di Ulisse ispirato al romanzo di Joyce, con letture, ascolti e interviste ad esperti e appassionati come Michele Ciliberto, Gilda Policastro, Maurizio Ferraris, Claudio Strinati, Gabriele Frasca, Leonardo Colombati, Sara Sullam, John McCourt. Si occupa di poesia nel podcast Universi Precari del blog culturale Equi-libri Precari, Pubblica testi su riviste online come Nazione Indiana, Atelier Poesia, Limina, Poetarum Silva, Fogli Bianchi, Culturificio.
Profilo Instagram: @_andreacarloni_

 

*        *        *

 

TRITTICO DEL POETA

 

 

1.3 Erano i poeti

 

Furibondi erano i poeti,
       fango alle ginocchia, sconvolti dal guado.
Piangono la riva di prima
       e temono la terra di dopo,
e ovunque un frastuono di tastiere e carta da riciclo.
       Uomini glabri e in carne li aizzavano,
con le voci sudate, sputi e linguaggi ribelli,
vecchie foto di litorali, molteplici canti di uccelli.

Squilibrati erano i poeti,
       tra le scuole elementari e le prefetture,
striati dal vento – sapeva d’estate, sapeva d’inverno –
       cotti dal debito – forse preventivo, forse consuntivo –
Le labbra gorgogliano distanti dalla schiene,
dalla teste, dalla pance e dalle ultime cene.

Convulsi erano i poeti,
       Ora, rileggetevi quanto basta e non siate troppo pesanti.
Da parte nostra, sillaberemo dolcemente mentre voi affogate presto:
una volta che il corpo è disfatto, il vostro canto durerà lo stesso.

 

*

 

1.3 Were the poets

 

Furious were the poets,
       mud on their knees, shocked by the ford.
They mourn the former shore
       as they fear the after land,
and everywhere a din of keyboards and recycled paper.
       Tubby hairless men urged them on,
with sweating voices, spits and rebel tongues,
pictures of the same coasts, shifting birdsongs.

Deranged were the poets,
       between elementary schools and prefectures,
streaked by the wind – smelled like summer, smelled like winter –
       cooked by the bills – seemed like balance, seemed like advance –
their lips bubbling far from their back and after
their head, their belly, their very last supper.

Jerky were the poets,
       Now, proof-read just enough and don’t be too heavy.
For our part, we’ll spell it gently as you drown fast:
once the body is undone, your chants would still last.

 

*

 

2. Anatomia del poeta

 

bocca | prodiga del niente
guancia | schiocco pubescente
dito | rimira il presente
omero | osso non vedente
costola | donna efferente
unghia | sporco espediente
naso | punta ad oriente
culo | divario indulgente
mano | schiava onnisciente
fronte | senno apparente
lingua | verbo accingente
seno | gabbia decadente
piede | metro pendente
testa | vecchia permanente
braccia | leggi violente
spalle | gobba ottundente
fica | martire indolente
cazzo | reo impenitente
occhio | teste reticente

 

*

 

3. Il poeta e i giorni

 

Se mai potrai procurarti un poeta
       (che sia maschio e di sedici anni)
       (che sia nel pieno delle forze e intenzioni)
       (che non getti la penna difronte al bianco della pagina)
       (che disegni il suo verso seguendone il solco)
       (che non si perda nel canone di altri poetanti)

Se lo terrai lontano dagli amori
       (che non si accalori, non figli né famigli)
       (che i poeti con prole si fanno importuni)

Se la sua lingua diverrà frugale
       (che non dispensa mai garbo una bocca animata di poeta)
       (che non abbia male risposte alle tue care domande)

Se la discesa di pioggia gli insegna
       (che è giunto il tempo di scuotersi dal sonno)
       (che operi al buio e al bagnato, come all’asciutto e alla luce)
       (che tu gli pungoli il dorso così come si flette la spiga)
       (che è triste afflizione per chi del poeta nel maltempo non dispone)
       (che sarà facile richiesta “prestami il poeta tuo” e duro il tuo scherno “esso è in stanza a poetare”)

Se a primavera il lavoro è compiuto
       (che ritocchi e decori i suoi versi per la fiera)
       (che rivolga preghiere a Calliope)
       (che non si faccia arida l’opera in estate)

Allora esponilo al sole e alle lodi
       (dagli focacce, carne di quaglia, tuberi speziati)

Allora lascialo in un vano ombroso
       (dagli limpido vino mesciuto in tre parti di acqua)

Allora concedi gioia al suo cuore
       (dagli la fama, i diritti e le celebrazioni)

Allora – e solo allora,
riposo al tuo poeta,
pace alla tua dimora.

 

 

 

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Sonia Elvireanu, “Le regard… un lever de soleil – Lo sguardo… un’alba”, trad. Giuliano Ladolfi, (Giuliano Ladolfi Editore, 2023) https://www.atelierpoesia.it/sonia-elvireanu-le-regard-un-lever-de-soleil-lo-sguardo-unalba-trad-giuliano-ladolfi-giuliano-ladolfi-editore-2023/ Wed, 27 Sep 2023 07:00:29 +0000 https://www.atelierpoesia.it/?p=12668 Il miracolo della poesia   Dopo Il canto del mare all’ombra dell’airone cenerino (2021) e Scintilli nel cuore del silenzio (2022), Sonia Elvireanu presenta al lettore di lingua francese e italiana una terza raccolta Lo sguardo… un’alba. Nell’introduzione al primo lavoro abbiamo rilevato che «la poetessa, profonda conoscitrice e assidua traduttrice della letteratura francese, riprende uno degli elementi fondamentali della grande poesia, quella che Italo Calvino in Lezioni americane indica come “leggerezza”, emblematizzata nelle rappresentazioni dell’ombra, dei raggi, del fluire […]

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Il miracolo della poesia

 

Dopo Il canto del mare all’ombra dell’airone cenerino (2021) e Scintilli nel cuore del silenzio (2022), Sonia Elvireanu presenta al lettore di lingua francese e italiana una terza raccolta Lo sguardo… un’alba.

Nell’introduzione al primo lavoro abbiamo rilevato che «la poetessa, profonda conoscitrice e assidua traduttrice della letteratura francese, riprende uno degli elementi fondamentali della grande poesia, quella che Italo Calvino in Lezioni americane indica come “leggerezza”, emblematizzata nelle rappresentazioni dell’ombra, dei raggi, del fluire del tempo, realtà evanescenti, ma non per questo meno reali, meno presenti e meno autentiche». «Nel testo, infatti, troviamo il canto degli uccelli, il paesaggio marino, l’ombra e il colore, che ricamano una “ripercussione” reciproca (“i barbagli dell’erba verde”) in una metamorfosi, che come una eco si estende per tutta la raccolta».

Nella seconda abbiamo indicato come cifra interpretativa il titolo stesso Scintillii nel cuore del silenzio: «il primo termine ribadisce la vocazione della scrittrice a procedere mediante “illuminazioni” o “fulgurazioni”, momenti di grazia in cui la visione poetica viene fermata sulla carta, senza alcun obbligo di trovare tra di essi nessi, consequenzialità, coerenza, sviluppo. Ma questa è la vita, la vita che procede in modo desultorio e contraddittorio; è il nostro modo di rapportarci con il reale, modo sempre esposto a una quantità di moti interiori in cui presente, passato e futuro si uniscono e discordano, in cui ricordi e speranze rivivono nella dimensione conscia e inconscia e creano quel magma che nessun tipo di analisi riesce a razionalizzare completamente».

In questo terzo lavoro gli elementi indicati assumono forma definitiva: la musicalità si fa più “petrosa”, ma rimane, mentre la rappresentazione del reale si avvale di forme metaforiche in cui la Elvireanu fa confluire suggestioni particolari, spesso sinestetiche (Verde mattinata), talvolta ossimoriche (Il linguaggio del silenzio; Il silenzio brilla sulle rive), determinate da percezioni come luce, silenzio, bisbiglio, mare, colori, vento, onda, pioggia parola, albero, stagione, momenti del giorno, notte, infinito, sfumature…

Ella stessa ci presenta le sue composizioni come pennellate di un pittore che cerca di captare il divenire del tempo attraverso il variare delle percezioni cromatiche, la fluttuazione dell’atmosfera, del sorgere e del venir meno dei suoni, l’esplosione della vita della natura. Ci troviamo di fronte a un vero e proprio quadro, come viene espressamente indicato dalla poetessa che introduce precisi paralleli tra l’arte della raffigurazione e quella della parola.

L’ispirazione totalizzante è l’esplosione della vita in tutte le sue più affascinanti manifestazioni: è un inno alla bellezza, alla gioia, alla serenità; è un invito a purificare lo sguardo per non perdere l’occasione di gustare quanto ci viene offerto. La luce domina sovrana, perché è la sorgente del colore, delle relazioni della natura, è lo strumento di percezione dell’infinito… sì, perché, oltre la coltre della nebbia dei sensi, esiste una realtà autre, che supera i pur meravigliosi confini dei sensi, di cui quella che vediamo altro non è che una pallida immagine. Dice San Paolo nell’epistola ai Corinzi: «Videmus nunc per speculum et in aenigmate, tunc autem facie ad faciem» (In questo mondo vediamo la realtà come riflessa in uno specchio e sotto forma di enigmi; nell’aldilà la vedremo direttamente).

Al poeta, quindi, spetta il compito di recuperare i riflessi e gli enigmi e di presentarli all’umanità perché non si smarrisca di fronte alle prove dell’esistenza. E un compito speciale viene affidato alla parola poetica, pronunciata da chi sa cogliere in profondità i segreti della natura, del tempo e dello spazio. Infatti, secondo Martin Heidegger, «i poeti sono i mortali che […] seguono le tracce degli Dei fuggiti, restano su queste tracce e così rintracciano la direzione della svolta per i loro fratelli mortali […]. La mancanza di Dio significa che non c’è più nessun Dio che raccolga in sé, visibilmente, gli uomini e le cose, ordinando in questo raccoglimento la storia universale e il soggiorno degli uomini in essa.

Ma nella mancanza di Dio si manifesta qualcosa di peggiore ancora. Non solo gli Dei e Dio sono fuggiti, ma si è spento lo splendore di Dio nella storia universale. Il tempo della notte del mondo è il tempo della povertà perché diviene sempre più povero. E già è diventato povero da non poter riconoscere la mancanza di Dio come mancanza. […] Ma la svolta è compiuta da parte dei mortali solo se essi ritrovano la propria essenza. […] Il mortale che deve giungere nell’abisso prima e diversamente dagli altri, scopre i segni che l’abisso tiene in sé. Questi segni sono, per il poeta, le tracce degli Dei fuggiti. […] Ma chi sarà in grado di rintracciare questa traccia? Le tracce sovente sono ben poco visibili e sono sempre il retaggio di un’indicazione appena presentita. Essere poeti nel tempo della povertà significa cantando, ispirarsi alla traccia degli Dei fuggiti».

E Sonia Elvireanu li ritrova durante un viaggio nella Grecia classica:

 

Mi volgo alla storia,
al sole del luogo la cui riva
gli dèi hanno fecondato,

sul sentiero costeggiato da allori in fiore
e di fichi, nel passo di un’altura,
tra le immensità,

sul filo azzurro dell’orizzonte,
l’angelo,
il Mare Egeo e il cielo.

 

Non si può rimanere estranei alla sensazione che la poetessa, avendone recuperato le tracce, abbia ritrovato anche lo splendore dell’Assoluto, abbia superato il tempo della povertà, abbia scoperto ”i segni che l’abisso tiene in sé”.

Del resto, la presente raccolta nella varietà tematica va letta come esecuzione di una partitura musicale, che ricorda il primo e il secondo movimento della VI sinfonia di Beethoven, dal titolo “arrivo in campagna” e “scena presso il ruscello”. Nel testo della Elvireanu troviamo non solo il mare, il silenzio, la notte, ma anche il volo degli uccelli, il linguaggio della natura e degli esseri animati, la pace e la serenità che concilia l’essere umano con se stesso, con gli altri e con la realtà.

Un augurio? Una realtà? Una svolta?

Solo i posteri sapranno trovare la risposta esatta. A noi preme soltanto portare alla luce il “miracolo della poesia”, che in epoca di tecnocrazia, di critica radicale all’antropocentrismo antiumanistico, di crisi della soggettività, di perdita di importanza della realtà, manipolata dalla comunicazione, pare essere distrutta dalla dittatura dell’economia e dello spettacolo, e pare aver smarrito la sua vocazione a essere canto dell’essere umano nella sua integralità.

Giuliano Ladolfi

 

*        *        *

 

Le regard… lever de soleil

 

« un mur… », écrit le peintre,

 

je vois tous les murs en couleurs,
bleu, violet, jaune, vert, orange
ou un mélange qui réabsorbe les couleurs,
le mur peut être une métaphore,
le vers une couleur, l’inscription:
« Ne dépouille pas les mots de levers de soleil ».

la sensation d’impénétrable se brise ainsi,
un mystère existe dans tous les coins du monde,
le regard est lever de soleil.

 

*

 

Lo sguardo… alba

 

Scrive il pittore: “Un muro…”

io tutti li vedo a colori,
blu, viola, giallo, verde, arancione
o un insieme che li riassorbe tutti,
può essere metafora anche il muro,
come il verso un colore e la scritta:
Non spogliare le parole delle albe”.

la sensazione
di impenetrabilità
così è frantumata,
un mistero in ogni angolo è presente
in ogni angolo del mondo,
lo sguardo è il levarsi del sole.

 

*

 

Une tache de couleur

 

« Comme un mur qui ne te laisse pas aller plus loin »,
dit le peintre,

sur tous les murs il y a une tache de couleur,
une goutte de pluie,
la trace d’une semelle qui veut provoquer,
une fragile fourmi égarée,
un fil d’araignée, une toile minutieusement tissée

un nid d’oiseau dans un creux,
un pigeon agrippé à un mur vertical
picorant la chaux ou quelque chose d’invisible,
une vieille affiche, déchirée ou défigurée
dans un coin ou encore souriante,

des yeux même devant toi t’obligeant à les regarder,
un graffitti, le cri de la nouvelle vague sur les murs,
même sur le métal d’un wagon de train,
une touche de chaux, une ligne, une couleur,
le rayon de lumière qui efface la monochromie,

le mur parle à sa manière,
provocateur t’arrête un temps,
impénétrable, dit le peintre,
mais il n’y a pas de mur à ne pouvoir décrypter…

 

*

 

Una macchia di colore

 

 

Come un muro
che non ti lascia oltrepassare
dice il pittore,

su tutti i muri
c’è una macchia di colore,
una goccia di pioggia,
la traccia di una suola
che vuole provocare,
una fragile formica perduta,
il filo di una ragnatela,
una tela accuratamente tessuta

un nido in una cavità,
un piccione aggrappato
a una parete verticale
mentre becca la calce o qualcosa di invisibile,
un vecchio poster, strappato o sfigurato
in un angolo o ancora sorridente,

di fronte a te
degli occhi ti costringono a guardarli,
un graffito, il grido
della nuovelle vague sopra i muri,
addirittura sul metallo
di un vagone del treno,
un tocco di calce, una linea, un colore,
ed il raggio di luce che cancella
la monocromia,

il muro parla a modo suo,
provocatorio ti blocca per un po’,
impenetrabile, dice il pittore,
ma non c’è muro che non possa
lasciar filtrare il suo mistero.

 

*

 

Le silence du pommier

 

Matin au parfum de l’été…

le pommier renverse ses branches vers ma fenêtre,
ses feuilles ensoleillées frémissent sur le rebord
si près que je sens leur caresse,

je l’aperçois dès que j’ouvre les yeux,
il sourit serein dans l’aube blanche,
veille sur moi jusqu’au crépuscule,

il éloigne mon insomnie pendant la nuit,
je m’endors dans le frémissement de ses feuilles
arrosées par les rayons de la lune,

le silence du pommier et le ciel,
l’eau claire où brillent
les cailloux du poème de l’été.

 

*

 

Il silenzio del melo

 

Mattina dal profumo dell’estate…

il melo volge i rami alla finestra,
sul davanzale fremono
le foglie cariche di sole:
sono così vicine che sento la carezza,

mi inonda la sua immagine
appena apro gli occhi,
nell’alba bianca dolce mi sorride,
fino al tramonto veglia su di me,

di notte allontana la mia insonnia,
mi addormento al fruscio delle foglie
irrorate dai raggi della luna,

il silenzio del melo ed il cielo,
l’acqua limpida dove brillano
i ciottoli del poema dell’estate.

 

*        *        *

 

L'articolo Sonia Elvireanu, “Le regard… un lever de soleil – Lo sguardo… un’alba”, trad. Giuliano Ladolfi, (Giuliano Ladolfi Editore, 2023) proviene da Atelierpoesia.it.

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Diego Riccobene, “Larvae” (Arcipelago Itaca, 2023) – Anteprima editoriale https://www.atelierpoesia.it/diego-riccobene-larvae-arcipelago-itaca-2023-anteprima-editoriale/ Tue, 26 Sep 2023 06:00:31 +0000 https://www.atelierpoesia.it/?p=12652 Diego Riccobene (Alba, 1981) vive in provincia di Cuneo. È laureato in Filologia Moderna presso l’Università degli Studi di Torino; è poeta, docente, musicista. Suoi scritti e interventi sono apparsi su antologie, webzine e riviste quali Atelier, Menabò, Poesia del Nostro Tempo, Critica Impura, Inverso, Versante Ripido, Laboratori Poesia, Pannunzio magazine, Neutopia, l’Estroverso. Alcuni suoi componimenti sono stati tradotti in lingua spagnola dal Centro Cultural Tina Modotti. Collabora con la redazione di Menabò online. Ha pubblicato Ballate nere (Italic Pequod, […]

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Diego Riccobene (Alba, 1981) vive in provincia di Cuneo. È laureato in Filologia Moderna presso l’Università degli Studi di Torino; è poeta, docente, musicista. Suoi scritti e interventi sono apparsi su antologie, webzine e riviste quali Atelier, Menabò, Poesia del Nostro Tempo, Critica Impura, Inverso, Versante Ripido, Laboratori Poesia, Pannunzio magazine, Neutopia, l’Estroverso. Alcuni suoi componimenti sono stati tradotti in lingua spagnola dal Centro Cultural Tina Modotti. Collabora con la redazione di Menabò online. Ha pubblicato Ballate nere (Italic Pequod, 2021), silloge segnalata in occasione del Premio Lorenzo Montano 2022 – sezione opere edite. A questa fa seguito il poemetto “Synagoga” (Fallone editore, 2023).

 

*          *          *

 

Dalla sezione Gli assetati

 

Ignoro ammenda all’astio, non conosco
esatto rito a svellere
questo cicatrizzato padre intriso
d’amplesso, che s’asside ad ogni sosta;

nell’orbo sepolcreto la penanza
la ingoio tutta in segno
dell’ultimo supposto, l’annodare
sul luto tre radici del repente

e il giglio, nell’emottisi interlunia;
siccome l’ho seguito,
tra pieghe del carnato ch’è rimasto
dal Secolo trafitto, dal perpetuo.

Malcauto chi negava (e non ha smesso)
l’emolumento a sgorgo
di endometriosi netta, dell’icore
che non concede amore come ascesso

il giorno ivi disfatto; ma lui predica
la notte, che si celebri
la verga d’orizzonte blucrinito
quando tagliamo il tendine al giumento:

impregno mani e guance di fragranza,
poi sùbito il presagio
mi segua a cumulare sopra un marmo
il mio ritegno, il mio secreto verde.

 

*

 

Dalla sezione Aponchoménai

 

È sempre un pegno, e se tu sconti o un altro
che vale? Lo vedremo rabescare
di lento e crisopallido
conflato quanto esondi poi dal tronco,
macchiare larghi tocchi di cordoglio
e tracimare il nervo.

Che voluttuoso invesco, quale ambage
principia per saldare il prisco sperpero
di forze non risolte?
Noi, prole dell’osmosi menarcale
grassiamo anche il dossale, come il coito
a concreare il culto:

ma è sempre un pegno, e quale fosse il corpo
che brucia crepitando, lo chiediamo
a chi serra la placca
sgrondata in fini avvalli della polvere
che frogi di tediate inanità
hanno sboccato a valle;

pur fermano le mani, quegli astanti,
non toccano il sigillo, non lo scuotono
dal suo desiderante
protrarsi alla materia: l’insoluta
prostituzione degli uni con gli altri.
E il Sintomo? S’elegge

spremendo le acque supplici dai molti,
ostenta struggimento nel vederli
ragliare la violenza
di chi ha mercanteggiato nella stessa
malerba, la cancrena data in sorte
dal lucro della cornea.

È sempre un pegno, e tu lo sconti urlando.

 

*

 

Dalla sezione Inni

 

Il tuono è pietra e fuoco, fuoco e pietra.

Il fuoco incendia querce, incenerisce
armenti, la rovina di voi sobri
non basterà al battesimo in uranio
escreto tra le lacrime d’Astarte;
il fuoco spregia i campi, umilia i figli.
Il tuono è fuoco e pietra, in poco assurge
a qual dominio? Il cereo ribollio
vi parla, e traudite ogni risposta.
La pietra nera e tersa, l’ossidiana
o betilo scolmato dai supplizi
del vento, lo ialino accesso all’asse
– la poggerò sul petto della serva
tagliandola tra fibbie dentro un solco
che sempre tracci il centro: qual ignivomo
sublime, seco il banno irrevocato
lungo convalli d’odoroso sorbo.

Il tuono è pietra, e pietra innerva il regno.

 

*

 

Dalla sezione Larvae

 

Farò scavare il fondo dove è vizzo
l’aciclico primordio dell’azzurro,
speranza sperperando nell’attesa
che l’anfora rigonfi insino all’orlo.

Sfarzoso l’ornamento sul corsetto
che smorfie mi lusinghi, dei tremori
a tòrre il dànno, n’è sì frastornante
e dolce – la quiete dell’astenico

da quel dispetto livido sul volto.
Eleggervi dimora è pur vedere
il falbo del profuso qui sotterra
ad afferire nel presentimento

che colliquando ci si digerisca;
ma attenderò capace nel mio succo,
e voi compagni, poi sarà l’inverno,
disfiorerete il bulbo del napello.

 

*          *          *

 

 

*          *          *

 

In copertina: “Sapienza”, di Mirko Andreoli

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Antonio Lillo – Inediti https://www.atelierpoesia.it/antonio-lillo-inediti/ Mon, 25 Sep 2023 06:08:29 +0000 https://www.atelierpoesia.it/?p=12612 Antonio Lillo (1977) vive e lavora a Locorotondo dove è direttore editoriale di Pietre Vive Editore.   *        *        *   MAHLERIANA   1. Non siamo responsabili di non essere lui. (Montale) Siamo sospesi in una stanza chiusa ma vicini nella luce che ci scioglie nel suo rosso d’uovo. Siamo qui arruolati come ad un bivacco in questo lento fuoco estivo alimentato dal dolore dove lui è legato al suo respiratore ed io impotente ad uno dei miei […]

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Antonio Lillo (1977) vive e lavora a Locorotondo dove è direttore editoriale di Pietre Vive Editore.

 

*        *        *

 

MAHLERIANA

 

1.

Non siamo responsabili di non essere lui.
(Montale)

Siamo sospesi in una stanza chiusa
ma vicini nella luce che ci scioglie nel suo rosso d’uovo.
Siamo qui arruolati come ad un bivacco
in questo lento fuoco estivo
alimentato dal dolore
dove lui è legato al suo respiratore
ed io impotente ad uno dei miei libri
sonnecchiamo nello sfiato leggero
della pompa artificiale
che ha preso il posto ormai delle cicale.
Lo osservo sbirciarmi commosso
nelle finte da flamengo
in cui mima un sonno dolce e affaticato
col suo occhio spalancato e muto
arreso al suo destino di mortale
e sopraffatto da quello che verrà.
E sfioro incapace di conforto
il polso rinsecchito e il viso scosso
le dita ormai di sale. Per distrarlo
prendo un libro uno dei tanti
che fanno peso ormai fra le coperte
nelle ore in cui lo assisto.
E leggo – ed è la prima volta in cui mi scopro
col pudore di un figlio che ha studiato
al padre di tutt’altro innamorato –
una poesia sui pomodori.
È tale la sorpresa che lo investe al mio vociare
che l’osservo irrigidirsi e poi provare a sollevarsi
nello sforzo di capire le parole.
Vuole coglierle dal cesto e con le dita svelte
agganciarle al fil di ferro in ciuffi
preparati per l’inverno. In quell’arancio aspro
nella mia voce stanca
l’ho visto uscire un’ultima volta dalla stanza…

 

*

 

2.

Chissà se quel che dorme in queste ore mio padre
è ciò che chiamano «il sonno dei giusti», la sua prova generale
o più semplicemente un’impietosa legge naturale
dove il più debole si annulla per fare posto ad altri.

Giusto, allora, è chi dà spazio liberando il posto.
Ma giusto è anche il male, se mi aiuta a distaccarmi
dal dormiente. Lo guardo riposare. Le guance ruvide
scavate, i denti spinti in fuori a rosicchiare innaturali

il labbro tumido, piegato dagli spasmi muscolari,
la gola esclusa al cibo ma pronta sempre a esprimere
i guaiti da bestiola in trappola, gli ansimi serrati
della stretta. Macchie sul pigiama ovunque, le vene

che si spezzano. Soltanto attraverso il suo dolore
mi lascio perdonare alla Natura il suo prossimo finire
il suo morire, il suo svuotarmi nel trasloco ingiusto
da cui non tornerà né in altra forma, né in questa.

 

*

 

3.

Ecco mi commuovo
di fronte allo stupore di mio padre
che si osserva morire
fissandosi per ore gli arti ossuti
estraneo ormai al suo nome.
Li rigira nello sguardo muto
la bocca amareggiata
li studia nel loro assottigliarsi
li vede perdersi di grasso e peso
e poi scavarsi le fosse nella pelle
le bocche senza un grido da cui
riemergeranno le voci
di ogni morto che lo scava.
Poi di volta in volta verso me
si volta pieno di veleno se al confronto
ancora troppo gli assomiglio
troppo a lui compagno, troppo figlio
persino qui in magrezza e malattia
noi due scarnificati
e uniti ai suoi occhi inquisitivi
nei polsi alle caviglie
che non ci lasciano sperare
altro di buono
che una punta secca di coltello
per bucarci il collo.
Di entrambi noi saranno
le giunture a parlare
cigolanti e secche, le
clavicole che spingono sul vuoto.

 

*

 

4.

All’alba mi addormento al posto di mio padre.
Lui è steso in un lettino a fianco.
Ieri ha fatto testamento.
Lui non dorme. Io sono stanco.

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Elisa Ruotolo, “Alveare” (Crocetti, 2023) – Anteprima editoriale https://www.atelierpoesia.it/elisa-ruotolo-alveare-crocetti-2023-anteprima-editoriale/ Fri, 22 Sep 2023 06:08:30 +0000 https://www.atelierpoesia.it/?p=12543 Elisa Ruotolo scrittrice e poetessa, è nata a Santa Maria a Vico (Ce). Con l’editore nottetempo ha pubblicato nel 2010 il suo libro d’esordio, la raccolta di racconti Ho rubato la pioggia. Il primo romanzo arriva qualche anno dopo: Ovunque, proteggici (nottetempo 2014; Feltrinelli 2021). È del 2018 Una grazia di cui disfarsi. Antonia Pozzi, il dono della vita alle parole (edizioni RueBallu), cui fanno seguito – nel 2019 – la curatela del volume Mia vita cara. Cento poesie d’amore […]

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Elisa Ruotolo scrittrice e poetessa, è nata a Santa Maria a Vico (Ce). Con l’editore nottetempo ha pubblicato nel 2010 il suo libro d’esordio, la raccolta di racconti Ho rubato la pioggia. Il primo romanzo arriva qualche anno dopo: Ovunque, proteggici (nottetempo 2014; Feltrinelli 2021). È del 2018 Una grazia di cui disfarsi. Antonia Pozzi, il dono della vita alle parole (edizioni RueBallu), cui fanno seguito – nel 2019 – la curatela del volume Mia vita cara. Cento poesie d’amore e silenzio di Antonia Pozzi (Edizioni Interno Poesia), e la pubblicazione della raccolta poetica Corpo di pane (nottetempo). Il suo secondo romanzo Quel luogo a me proibito (Feltrinelli 2021) è tradotto in Francia dall’editore Cambourakis. Ultime pubblicazioni Il lungo inverno di Ugo Singer (Bompiani 2023), e Luce (Tetra 2023).

 

*        *        *

 

 

*        *        *

 

da L’APICOLTORE

 

Il buio è madre
tutto accade in un ventre.
La luce poi lo insidia
diventa così tanta
da chiudere gli occhi.
Sotto le palpebre restano scintille
ronzanti come sciami.
Tu puoi lottare per tenerla fuori
ma è luce che t’insegue
ovunque
più invadente dell’erba
a primavera, più sfrontata dell’ozio
che divora il gesto,
più assidua del malanno
nel tentare la ferita.
E quando penetra nell’alveare
imbratta il nero
lo trafigge.
Carezza un brulichio di affanni
una fatica che brucia
come sale.
Lo sentite?
Sentite anche voi là dentro
il rumore delle vite?
Ognuna che lavora, vuole, rinuncia,
edifica e distrugge
uccide
e poi alleva.
In questa meccanica non hanno bisogno
di me ed è la mia pena.
Pur non sorvegliando
so che quel lavoro continuerebbe
– come il desiderio a spingere
la rinuncia a incrudelire
la distruzione a fare danni fino a patteggiare
con la pietra che cresce.
È la morte ad accudirle
nella culla, e poi la vita le distenderà
nell’asciutto nido d’una cassa.
Mi avvicino senza essere visto
con la cautela di chi ha paura.
Di me hanno un’idea incerta
sono per loro una specie di infinito
che minaccia
– un estraneo
l’orma di un ordine primario
la possibilità di non discendere dal niente
e non doverci tornare
alla fine.
Amarli? Di loro ho bisogno
o non sarei
– come non esiste fondo senza mare
né figlio senza madre
o grano senza un seme
divorato dalla terra.
Il pastore può forse amare
la moltitudine che si dà ciecamente
al suo governo?
Non è forse dominato dal ritmo
del branco, dal belato che comanda
di restare sulla pietra a sorvegliare,
a contare il patrimonio in zecche e lana,
a vegliare quell’odore di stalla.
Il pastore non ama
ma calcola, pretende,
teme la disgrazia della perdita
e nel suo buio invidia
chi ha giorni fatti di stanze
e di casa.
Come lui lo è del gregge
io sono la creatura dell’alveare
che ogni giorno fa di me l’apicoltore,
il dio d’un nettare che sgorga
non in obbedienza d’un volere
ma in soddisfazione d’una necessità.
Sono imperfetto e fragile
e come gli dei di sempre
annodo alla terra il mio bisogno.
Resto lontano, al riparo
dall’assalto – che non venga a toccarmi
il veleno dello sciame
turbato dalla peste della mia fame.
Dentro è caldo di folla e buio
la mia onnipotenza invece sta nel chiaro
risponde al nome che meno desidero
sa d’una eternità destinata a finire
mentre loro – i vivi dell’alveare
si rinnovano.
Ammassati in un inferno ridotto in scala
pulsano d’un calore che mi esclude,
che osservo senza comprendere
restando incompreso.
Il rischio di provarci, di ferirsi
disgusta ogni voglia
– il mio sapore non sazia
non ho miele da dare, io.

 

*

 

da VOCI DALL’ALVEARE

 

SEDICESIMO GIORNO

La Regina

È un roveto che scotta d’ira – questa casa
ha i muri tramati di collera
e un vociare insistente che ostacola
il riposo. Ho dormito finché ero niente
poi la pace se n’è andata.
Restare fermi non dà quiete
fermi sono i prigionieri
i bambini confinati negli spigoli – in punizione
i corpi traditi dalla malattia
o le ferite che non passano.
Ferme sono le mani dopo aver colpito
perché – in allerta – s’aspettano il ricambio.
Ho tutto in me: la colpa del recluso
la paura dei piccoli
lo smarrimento degli infermi
e un taglio di quelli che non danno sentore
d’arrivare al mattino.
Il destino è giunto mascherato da offerta
e io l’ho preso – quel dono – e stretto col terrore
di esserne degna.
L’ho preso e già non lo desideravo.

Perché io?

Lo sguardo livido e affamato delle sorelle
mi accompagna da allora.
Uguali nelle culle, potevo essere
un chicco di quella moltitudine
ma qualcuno mi ha vista e separata
– trebbiata come grano dalla pula
e anche se mi nascondevo, mi ha indicata
per prendermi tutto: i fiori, il sole, la vita delle altre.
Non sapranno mai quello che mi tocca
pesa troppo la fatica a cui le condanno
generandole
almeno quanto l’incapacità di cibo grava
su di me – che sgorgo vita senza posa.
Strano potere il mio, se per esistere
ho bisogno d’aiuto
se reggo una dimora intera
e fallisco a far salire un castello di carta.
Madre di tutti, non governo me stessa
inganno l’istinto comune
ed è triste dipendere
triste che vada contro natura proprio io
che più di tutti
l’assecondo.
Resto figlia di cure sfrenate
che mi negano il digiuno, la fatica, il caldo.
So che dovrò vivere a lungo
ma potrei morire in un istante
per un minimo sforzo o uccisa
da un tocco di luce.
Mi nutrono, ma odiando questo corpo
eterno, materno, che spinge avanti un’ombra
nuova e antica.
Nessuna clemenza può venire da chi attraversa
giorni contati, l’occhio referta la sua razione scarsa
senza goderne e la freccia più sicura
è quella che sa pungere
– è la mano che ti cura tenendo
a fior di pelle
il suo veleno.
Il futuro degli altri – più del presente
non è mio
e a questa sorte mai scelta
non trovo rimedio. Vago di cella in cella
inquieta come una madre qualsiasi
il cuore livido di chi è troppo in alto
e in fortuna per essere amato.
Generare vita e temerla
impietra il cuore, ti mette in dosso un tempo
legnoso al tatto – già pronto a farsi cenere.
Le mie figlie sono l’urgenza e la lebbra
il dovere ma anche l’attesa d’una peste
che s’intana nei miei lombi.
Vivo per il loro moltiplicarsi
ma so che da loro arriverà la fine
il giorno a cui non si può chiederne
un altro.
So che un mattino sentirò il mio veleno
spingere e la paura armare in difesa
la mia lama.
Ne abbiamo tutti una nella carne
la crediamo in riposo
invece lei ci annera il pensiero
ci intorbida il gesto
fa della madre una rivale
e della figlia non più il prolungamento
e l’attesa
e il futuro
ma il taglio netto, l’urto contro il tempo
– la promessa che nulla resiste
allo schianto.
La famiglia ora mi cresce intorno
e spinge fin dentro le mie stanze
dove nulla è fuori calcolo
e l’inverno non arriva.
Ci sarà un mattino, però
giungerà a un’ora incerta e incrinerà
le pareti, creperà l’intonaco
porterà lo scontento del vuoto
le fenditure alle travi maestre
lo scalpiccio delle suole in fuga
l’acciottolio dello sfratto
il bagliore indecifrabile degli incendi
in fondo – la faticosa scelta tra ciò che prendi
e quel che lasci indietro
e in alcune vesti l’odore greve del tradimento.
Accadrà e la mia lama non saprà far durare
questa casa in cui vivo da schiava
sottomessa all’urgenza di ripopolarla
suddita dei figli che partorisco
perché siano munti fino all’ultima goccia.
Chi potrà guardare questa febbre mia
senza desiderarne il delirio
senza disprezzare quel sudore da manovale
che nulla spartisce col mio piacere
col mio salire alto, dove più forte è
la luce e dove le altre non saranno mai?
Chi è indegno del chiaro non saprà
preferire la notte
odierà ogni spiraglio che saprà tenere il conto
di quel che perde.
Nei miei fianchi giace dormiente
il futuro di queste stanze
e lui mi divora
mangia ogni pensiero, ogni paura
scalda la mia sostanza più nascosta
– la nutre.
Il mio potere mi condanna a infittire
una genia di servi da cui dipendo
mentre vivo, divento nelle loro mani
la bambina che mai sono stata
e che morirebbe – se non fosse nutrita.
Sono la madre-infanta
un pensiero costante in una casa
che non lascio riposare
la grande pena è di regnare
protetta, abbandonando
i miei nati a un’operosa povertà
quella dei figli del popolo
che fin dal colostro accettano il privato
mistero di non avere tempo per ridere
o per giocare.

 

*

 

da VOCI DALL’ALVEARE

 

VENTUNESIMO GIORNO: LE API OPERAIE

La Guardiola

Cane di un povero gregge
generale di milizie stremate
sorvegliante di case da martirio
– o di cura
sono tutta lì
tutta nello sguardo.
Ispeziono vite, sorveglio anditi
e clausure
distinguo dal nostro
ciò che è straniero.
Per la conta del legittimo stringo
ogni porta, ne faccio fessura
labbro chiuso agli appetiti del fuori.
Resto insonne, in veglia fin dall’inizio
ed è la mia morte rovesciata
– palpebre attente a sbattere via
riposo e indolenza.
La chiamo amore, questa ossessione.
Per semplificare chiamo dovere
questo martirio di giornata.
I nomi ora faticano a dare pelle
e restano vuoti
imprecisi oltre le cose che tremano.
Separare il chiuso dall’aperto
non è innocente
distinguere è addensare ombre
è scuoiare l’agnello
e indossarne lo scalpo.
In questa Casa non vi è comunione
qui non si impasta vita con vita
qui non esiste mensa
tutto abbacina e brucia di terzana.
Indossiamo la trama del buio
e ci aggiriamo muti
carichi di lanterne cieche.
Il silenzio è la tentazione più forte
da che ha preso stanza il rumore
ed è difficile – stare al mondo in questa notte
disfarsi nel guardare.
Il lupo non è fuori, nell’erba alta
ma dentro, tra le quotidiane ceneri.
Parlatemi del giardino – ve ne prego
suggeritemi poche parole per immaginarlo
oltre la soglia che custodisco.
La Casa respira e mi abita
ha i canini del botolo e gli artigli del rapace
è levigata da un cattivo amore
eppure rilascia l’indistinto calore
delle viscere.
In lei perdo i miei anni e la quiete
dei polsi.

              La Casa vale più di me.

 

*        *        *

 

Il Mondo non è che questo: un enorme Alveare in cui ciascuna vita ha un suo ruolo e un destino ingiustificabile. Visti dall’alto siamo come api: febbrili, follemente laboriosi, spesso crudeli e sottomessi a irragionevoli geometrie.
Mansueti, ma anche capaci di fissare il buio con disobbedienza, siamo un brulicare di vite mosse da un’idea che ci impegna a edificare ciò che domani sarà disperso. In questa tragedia greca ripetuta all’infinito, a ciascuno è data la sua goccia di veleno.
Le voci della Casa del Miele si alternano seguendo il ritmo del loro venire alla luce (dalla Pupa, inconsapevole della sorte che l’attende, al Fuco creatura troppo distante dal sole per poter sottostare alla laboriosità che nutre e sfinisce l’alveare). Raccontano la furiosa virtù del generare e la perversione della castità; il saccheggio imposto e subìto; le schiavitù consumate in una dimora affollata di ombre e poi la fame del mucchio che divora il singolo, esponendolo a qualsiasi peste voglia aggredirlo. Sono voci piene o solo accennate, eppure ciascuna rivela il suo bisogno di essere, di vivere, di alimentare una ciclicità che rappresenta – per noi, come per le api – l’unica eternità possibile. (Elisa Ruotolo)

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Charles Wright, “Littlefoot” (Crocetti, 2023) – Anteprima editoriale https://www.atelierpoesia.it/charles-wright-littlefoot-crocetti-2023-anteprima-editoriale/ Thu, 21 Sep 2023 06:08:28 +0000 https://www.atelierpoesia.it/?p=12393 Charles Wright, Premio Pulitzer per la poesia nel 1988, è nato nel 1935 a Pickwick Dam, in Tennessee, nel sud-est degli Stati Uniti, la terra a cui è sempre rimasto legato e dove tuttora vive, a Charlottesville, in Virginia. Fra i maggiori poeti di lingua inglese della sua generazione, ha pubblicato oltre 20 raccolte di versi fra gli anni Settanta e il 2019, quando ha riunito nel volume Oblivion Banjo quella che considera l’edizione definitiva di tutta la sua opera. […]

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Charles Wright, Premio Pulitzer per la poesia nel 1988, è nato nel 1935 a Pickwick Dam, in Tennessee, nel sud-est degli Stati Uniti, la terra a cui è sempre rimasto legato e dove tuttora vive, a Charlottesville, in Virginia. Fra i maggiori poeti di lingua inglese della sua generazione, ha pubblicato oltre 20 raccolte di versi fra gli anni Settanta e il 2019, quando ha riunito nel volume Oblivion Banjo quella che considera l’edizione definitiva di tutta la sua opera. Wright ha iniziato a scrivere in Italia, quando dal 1957 al 1961 prestava servizio nell’Intelligence Service dell’esercito americano a Verona, sollecitato dalla poesia di Ezra Pound e di Eugenio Montale e dai paesaggi del nord-est italiano. Fulbright a Roma dal 1963 al 1965 con il progetto di tradurre La Bufera e altro di Montale, si è avvicinato in questo periodo anche alla poesia di Dante e a quella di Pavese.

Negli Stati Uniti ha studiato al Davidson College e all’Università dell’Iowa, compagno di studi di Mark Strand. Ha insegnato scrittura creativa alla California University at Irvine e, per molti anni, fino alla pensione, alla University of Virginia, a Charlottesville. Ha inoltre avuto incarichi accademici alle Università di Princeton, Columbia e Iowa e in Italia, all’Università di Firenze e all’Università di Padova. Oltre al Pulitzer, ha ricevuto tutti i maggiori riconoscimenti assegnati alla poesia in America: il Bollingen Prize nel 2013; il Bobbitt National Prize per la poesia dalla Library of Congress nel 2008; il Griffin International Poetry Prize nel 2007 ; il National Book Critic Circle Award nel 1997, il Lenore Marshall Poetry Prize nel 1996, il Ruth Lily Poetry nel 1993 e il PEN Translation Prize nel 1979. In Italia, gli è stato assegnato il Premio Antico Fattore, il Premio Internazionale Mario Luzi e il Premio Internazionale Leoncino d’Oro. Nel 2020 ha ricevuto il Premio Laurentum Dante Alighieri. Nel 2014 è stato nominato Poeta laureato degli Stati Uniti dalla Library of Congress di Washington, carica che ha ricoperto per due anni.
E’ fra i maggiori traduttori americani di Montale di cui ha reso in lingua inglese, oltre a La Bufera e altro, anche I mottetti e “Dora Markus”; nel 1984 ha pubblicato la traduzione di Canti orfici di Dino Campana e nel 1993 i Canti XIII e XIV dell’Inferno. Il suo stretto rapporto con la Commedia traspare in tutta la sua opera in versi, dove si trovano, per quanto riguarda la letteratura italiana, tracce anche della sua lettura dell’opera di Giacomo Leopardi e Cesare Pavese e della sua ammirazione per la pittura di Giorgio Morandi e dell’arte medievale italiana.
Saggi e interviste rilasciate nel corso degli anni sono raccolti in tre volumi. Molti gli studi critici dedicati alla sua opera.
Littlefoot è una lunga poesia in 25 parti pubblicato nel 2007, e un diario in versi del settantesimo compleanno del poeta (nato il 25 di agosto): inizia con l’autunno e termina con l’autunno dell’anno seguente. La tradizione musicale degli Appalachi fa da sottofondo a questi versi.

 

Antonella Francini Studiosa e traduttrice di poesia americana, ha ricevuto nel 2020 il Premio Nazionale per la Traduzione dal Ministero della Cultura. Docente di letteratura alla Syracuse University di Firenze per molti anni, è autrice di numerosi studi critici su poeti e narratori moderni e contemporanei, soprattutto statunitensi e spesso in prospettiva comparatistica e interdisciplinare, occupandosi in particolare della poesia del secondo novecento, di poesia afroamericana, del dantismo nella cultura Usa e del rapporto fra poesia e arte. E’ redattrice della rivista di poesia comparata “Semicerchio”, responsabile della sezione anglo-americana, e collabora con Alias e L’indice del mese. Ha studiato in Italia e negli Stati Uniti dove ha iniziato a occuparsi di poesia comparata e traduzione. Come traduttrice ha introdotto in Italia l’opera di molti poeti americani, fra cui le prime traduzioni della modernista Mina Loy (con l’antologia Per guida la luna. Poesie ed elegie d’amore, 2003) e dei premi Pulitzer Charles Wright, Jorie Graham, Yusef Komunyakaa e Jericho Brown, con volumi della loro poesia, antologie in riviste e saggi usciti fra il 2000 e il 2022. Ha curato le prime traduzioni italiane di Jack Spicer, AI, Charles Simic (in collaborazione con M. Chiamenti), Anthony Hecth, C.K. Williams e Gwendolyn Brooks. Altri poeti tradotti: Claude McKay, W.S. Merwin, C.K. Williams, Dorothea Lasky, Philip Levine, Daniel Nadler e (in collaborazione con Jhumpa Lahiri) Paul Maldoon. Nel 2004 ha curato l’antologia Poesia statunitense per L’Espresso-La Repubblica con prefazione di Massimo Bacigalupo. Ha collaborato a La letteratura americana dal 1900 a oggi per Einaudi e a La letteratura degli Stati Uniti. Dal Rinascimento americano ai nostri giorni per Carocci. Fra le sue ultime pubblicazioni, la traduzione di Il posto e Fast di Jorie Graham, rispettivamente per Mondadori e Garzanti, e di La Tradizione di Jericho Brown per Donzelli Editore (2022) oltre a uno studio sul dantismo nella poesia di Charles Wright (CoSmo, 2022). Ha curato due antologie dell’opera di Wright: Crepuscolo americano e altre poesie (Jaca Book 2001) e Breve storia dell’ombra (Crocetti 2006 e, in ristampa, 2021).

 

*        *        *

 

 

*        *        *

 

1

It may not be written in any book, but it is written −
You can’t go back,
                                 you can’t repeat the unrepeatable.
No matter how fast you drive, or how hard the slide show
Of memory flicks and releases,
It’s always some other place,
                                                 some other car in the driveway,
Someone unrecognizable about to open the door.

Nevertheless, like clouds in their nebulous patterns,
We tend to recongregate
                                           in the exitless blue
And try to relive our absences.
What else have we got to do,
The children reamplified in a foreign country,
The wife retired,
                             the farm like a nesting fowl and far away?

Whatever it was I had to say, I’ve said it.
Time to pull up the tie stakes.
I remember the way the mimosa tree
                                                                   buttered the shade
Outside the basement bedroom, soaked in its yellow
      bristles.
I’ll feed on that for a day or two.
I remember the way the hemlock hedge
                                                          burned in the side light.

Time to pull up the tie stakes.
Time to repoint the brickwork and leave it all to the weather.
Time to forget the lost eyelids,
                                                      the poison machine,

Time to retime the timer.
One’s friends lie in nursing homes,
                             their bones broken, their hearts askew.
Time to retrench and retool.

We’re not here a lot longer than we are here, for sure.
Unlike coal, for instance, or star clots.
                                                                    Or so we think.
And thus it behooves us all to windrow affection, and
     spare,
And not be negligent.
So that our hearts end up like diamonds, and not roots.
So that our disregard evaporates
                                                            as a part of speech.
                                        _________

Cloud wisps, and wisps of clouds,
                                           nine o’clock, a little mare’s tail sky
Which night chill sucks up.
Sundown. Pink hoofprints above the Blue Ridge,
                                                                        soft hoofprints.
If this were the end of it, if this were the end of everything,
How easily one could fold
Into the lapping and overlapping of darkness.
                                             And then the dark after that.
                                        _________

Saturday’s hard-boiled, easy to crack.
                                                                  Sunday is otherwise,
Amorphous and water-plugged.
Sunday’s the poem without people, all disappeared
Before the shutter is snapped.
Rainy vistas, wet-windowed boulevards, empty entrances.
Across the bridge, dissolute, one-armed,
Monday stares through the viewfinder,
                                                       a black hood over its head.
                                        _________

When the rains blow, and the hurricane flies,
                                                          nobody has the right box
To fit the arisen in.
Out of the sopped earth, out of dank bones,
They seep in their watery strings
                                                          wherever the water goes.
Who knows when their wings will dry out, who knows
    their next knot?
                                        _________

In the affinity is the affection,
                                                 in the affection everything else
That matters, wind in the trees,
The silence above the wind, cloud-flat October sky,
And the silence above that.

The leaves of the maple tree,
                                                   scattered like Post-it notes
Across the lawn with messages we’ll never understand,
Burn in their inarticulation,
As we in ours,
                         red fire, yellow fire.

It’s all music, the master said, being much more than half
    right,
The disappearance of things
Adding the balance,
                                    dark serenity of acceptance
Moving as water moves, inside itself and outside itself.

Compassion and cold comfort −
                                           take one and let the other lie,
Remembering how the currents of the Adige
Shattered in sunlight,
Translucent on the near side,
                                                     spun gold on the other.
                                        _________

Which heaven’s the higher,
                                 the one down here or the one up there?
Which blue is a bluer blue?
Bereft of meaning, the moon should know,
                                  the silent, gossip-reflecting full moon.
But she doesn’t, and no one descends to speak for her.
Time in its two worlds. No choice.

 

*

 

1

Forse non è scritto in un libro, ma è scritto −
non si torna indietro,
                                      non si ripete l’irripetibile.
Per quanto si guidi veloce, o guizzino fitte le foto sullo
      schermo
della memoria, scatto dopo scatto.
È sempre un altro luogo,
                                             un’altra auto nel vialetto,
irriconoscibile qualcuno sta per aprire la porta.

Eppure, come nuvole nei loro nebulosi disegni,
tendiamo a riunirci
                                   nel blu senza uscita
e tentiamo di rivivere le nostre assenze.
Che altro dobbiamo fare,
i figli amplificati di nuovo in un paese straniero,
la moglie in pensione,
                             la fattoria come uccello nel nido e lontana?

Qualunque cosa avessi da dire, l’ho detta.
Tempo di tirar su la palizzata.
Ricordo come l’albero di mimosa
                                                          spalmava burro sull’ombra
oltre la camera nel seminterrato, immerso nella sua
      peluria gialla.
Me ne nutrirò per un giorno o due.
Ricordo come la siepe di cicuta
                                                      bruciava nella luce obliqua.

Tempo di tirar su la palizzata.
Tempo di riparare il muro e affidarlo alle stagioni.
Tempo di dimenticare le palpebre perdute,
                                                            la macchina del veleno,
tempo di reimpostare il timer.
Gli amici stazionati in case di riposo,
                                              le ossa rotte, il cuore dissestato.
Tempo di riarmarsi e riattrezzarsi.

Qui certo non rimarremo più di quanto ci siamo stati.
Non come il carbone, ad esempio, o i coaguli di stelle.
                                                                            O così ci pare.
E allora tocca a noi tutti l’andanatura dell’affetto, fare
     economia,
e non essere negligenti.
Così i nostri cuori finiranno come diamanti e non radici.
Così la nostra noncuranza sfumerà
                                                          in una parte del discorso.
                                           _________

Nuvole a sbuffi e sbuffi di nuvole,
             le nove di sera, il cielo una coda di piccola puledra
che il gelo notturno risucchia.
Il tramonto. Impronte di zoccoli rosa sopra i Blue Ridge,
                                                    soffici impronte di zoccoli.
Se questa fosse la fine, se fosse questa la fine di tutto,
come sarebbe facile finire
nell’avvolgersi e riavvolgersi dell’oscurità.
                                                           E poi, dopo, il buio.
                                           _________

Il sabato è compatto, facile da infrangere.
                                                      La domenica un’altra cosa,
amorfa e collegata all’acqua.
La domenica è poesia disabitata, tutti scomparsi
prima del clic dello scatto.
Vedute piovose, inquadrature molli di boulevard, ingressi
      vuoti.
Oltre il ponte, dissoluto, monco,
il lunedì fissa lo sguardo nel mirino,
                                             un cappuccio nero sulla testa.
                                        _________

Quando la pioggia batte, e vola l’uragano,
                                                     nessuno ha la scatola giusta
per sistemarci chi risorge.
Dalla terra fradicia, dalle ossa madide,
penetrano nelle loro corde acquose
                                                              ovunque vada l’acqua.
Chissà quando si asciugheranno le ali, chissà quale il loro
      prossimo nodo?
                                        _________

Nell’affinità sta l’affetto,
                                           nell’affetto tutto il resto
che conta, vento fra gli alberi,
silenzio sopra il vento, cielo d’ottobre piatto di nuvole.
E sopra il silenzio.

Le foglie dell’acero,
                                   sparpagliate sul prato come Post-it
con messaggi che non capiremo mai,
bruciano nella loro afasia,
come noi nella nostra,
                                        fuoco rosso, fuoco giallo.

Tutto è musica, diceva il maestro, avendo più di una
      mezza ragione,
la scomparsa delle cose
si aggiunge al bilancio,
                                         oscura serenità d’accettazione
che si muove come si muove l’acqua, in sé e fuori di sé.

Compatimento e freddo conforto −
                                           prendine uno e lascia stare l’altro,
ricordando le correnti dell’Adige
rotte nel sole,
traslucide sulla sponda vicina,
                                                      oro filato sull’altra.
                                        _________

Quale cielo è il più alto,
                                          questo quaggiù o quello lassù?
Quale blu è il blu più blu?
Priva di significato, la luna dovrebbe saperlo,
                  la silenziosa luna piena specchio di chiacchiere.
Ma non lo sa, e nessuno discende a parlare per lei.
Il tempo nei suoi due mondi. Nessuna scelta.

L'articolo Charles Wright, “Littlefoot” (Crocetti, 2023) – Anteprima editoriale proviene da Atelierpoesia.it.

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Mario De Santis, “Corpi solubili” (Pordenonelegge – Samuele Editore 2023, Collana Gialla Oro) – Anteprima Editoriale https://www.atelierpoesia.it/mario-de-santis-corpi-solubili-pordenonelegge-samuele-editore-2023-collana-gialla-oro-anteprima-editoriale/ Wed, 20 Sep 2023 06:20:08 +0000 https://www.atelierpoesia.it/?p=12483 Mario De Santis è nato a Roma. Ha scritto tre libri di poesia: Le ore impossibili (Empiria, 2007), La polvere nell’acqua (Crocetti, 2012), Sciami (Ladolfi, 2015). Laureato su Cesare Viviani con Biancamaria Frabotta. Oltre ad aver condotto trasmissioni culturali in radio per circa trent’anni, ha scritto per Poesia, Atelier, i blog Nazione Indiana, Doppio zero, per Robinson di Repubblica e realizzato cicli di interviste per Repubblica TV. Attualmente giornalista di area digitale del Gruppo Gedi, scrive di teatro per Huffington […]

L'articolo Mario De Santis, “Corpi solubili” (Pordenonelegge – Samuele Editore 2023, Collana Gialla Oro) – Anteprima Editoriale proviene da Atelierpoesia.it.

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Mario De Santis è nato a Roma. Ha scritto tre libri di poesia: Le ore impossibili (Empiria, 2007), La polvere nell’acqua (Crocetti, 2012), Sciami (Ladolfi, 2015). Laureato su Cesare Viviani con Biancamaria Frabotta. Oltre ad aver condotto trasmissioni culturali in radio per circa trent’anni, ha scritto per Poesia, Atelier, i blog Nazione Indiana, Doppio zero, per Robinson di Repubblica e realizzato cicli di interviste per Repubblica TV. Attualmente giornalista di area digitale del Gruppo Gedi, scrive di teatro per Huffington Post e libri per minima&moralia. Collabora con il semestrale “K” de Linkiesta per la sezione poesia e cura la rubrica settimanale “Certi versi” su “Specchio”, inserto de La Stampa.

 

*        *        *

 

 

*        *        *

 

Venire a galla dal sonno col segnale dell’ora, sembra “le nove”
(il percepito fa dire “il nome” o “la notte”?) galleggiando di luce.

Roco e flebile via radio, in un tempo diverso, l’allarme
(qualcosa da dove? Si chiede – “quarante jours” (c’è un porto?
C’era una storia di giorni senza lune nuove
di assedio e prigione, di covi in un imbuto di eventi
singolari). Si associa a caso, sono due notti uguali, senza giorno.
In una sostanza che non ha blu né terrore, unite le parti diverse:
gabbiani in frenesia, correnti di numeri e dati nei cavi, i corpi pronti
negli uffici, solubili nel sale, intercettano i sussurri,
dove passano i segreti dei nemici, le foto oscene, l’odio e amicizia
(i dispersi sentimenti delle vite in superficie, inafferrabili.

Ed è lì che ritorna, senza nomi stavolta, la risacca del mattino
della memoria di tutti, nei lavori dove sono distrutti antecedenti.

Il doppio mondo clandestino, nelle derive, in uno stallo
(la trattativa infinita al telefono “e dove? Annegato?”)
e implausibili i visi in azzurro come depositi d’ossa pulite,
da non trattenere – la traccia della cosa che è stata gettata
all’orizzonte e non era nemmeno una cosa,
forse una data, l’ora precisa del nascere.

 

*

 

(La cronaca com’è)
la mia vita infine era mal detta mal intesa
mal ritrovata mal mormorata nel fango
Samuel Beckett, Com’è

In un giardino, riversa sotto rose a ruggine – la donna giace
nei suoi muscoli, simile ai corpi altrui – e questi
inutili, solubili, infiammati (è folgore, è camera
al fosforo, l’oscura) corpi rinchiusi in tunnel e straziati
dalle discopatie, ricurvi nei rovelli dei lavori
(e somigliano a tutti, ci si distingue per malattie più che destini).
Lontano lo sfarfallio celeste vivo (ancora lampi? o polizia?)
illumina le foglie, la luce è latte, un lago
lo spazio bianco in cui se ne sta, caduta, capovolta.
Aveva appena aperto i suoi messaggi – il telefono è lontano
(indossa cuffie da cui viene musichetta disco,
la litania di “attenda, prego”) caduto dalla mano
(ha tracce di borotalco, in bocca caramelle).
Distesa lungo il muro, mentre tornava dalla Conad
sta dove è scritto in grande “W”, solo così,
una rivolta afasica, che non sa più che cosa viva
e a cosa inneggi, mentre una goccia della prima pioggia
dava leggero touch sul tasto verde (“rispondi a call
a nessuna voce viva, non solo queste dove siamo).
Qualcuno più distante corre, sotto le stesse rose.
due fidanzati in lite, con lei che se ne va: feroce
si gira, quando lui la tocca, per dirgli a muso duro che –
no, niente (perché è lì che lei la vede. A terra, e sa. Come è finire).

 

*

 

Alberi e filari, una rete della prigione alla terra
tocchiamo lo stesso l’assurdo dei climi, ad ore inverse,
a vederli fiorire per forza. Ma non c’è amore, solo acume
in questo paesaggio spezzato, quest’agro impegno che diamo
al sottosuolo, quest’uso del concime come una violenza,
il prelievo di ninfe, fantasmi e minerali – è tutto un avvenire
bellissimo in foto, che si sgrana in chimica. (Più vivo il “dopo”
di forre e pezze d’orti sull’Aniene abbandonate, con secoli
di mani nostre, lasciate andare, dimenticate: i veri passi
dove coincide domani e mai più). Anche la scorza petrosa
di argille, il loro impasto di bruni di ruggine, il guano,
avrebbero scelto la stasi eterna e spontanea, se solo interrogati
o trent’anni di niente, libero, l’intero giro di una vita che si scioglie,
senza la geologia crudele e lenta di nascite e inganni.
Nell’apparire di foglie e giardini, nei discorsi delle bocche
che torna a fare del seme un rimpianto, c’è solo tortura.
Nell’abbandono, finito di generare il verde, di sputare
germogli (tutti figli di massacri e creazione) cade
l’impossibile, che inventa ciò che non ci rassomiglia.

 

*

 

(A R.P.)

 

1.

“Lo sai, è veramente la fine di ogni cosa”
dice di un amore – e mente, solo cerca
dove si rompe il coltello sulla tempia, l’assedio
di una sera, il capogiro dove scendono i pianeti
la loro forza che calma, il loro freddo che cura.
“Perfetto il taglio, che segue l’orbita di un gesto da fare.
Anche ingiusto, come tale” dice ancora (qualcuno tace)
cercando come perso la sua stasi nella retta dei viali a Prati,
cercando quella chiesa (qualcuno ora lo dice)
“invisibile anche dal cielo”. Si guardano gli occhi, vessilli
di popoli che abitano due gerghi del silenzio
dove tutto era già detto da altri, di aborti, di telepatia.
Gennaio impallidisce, i negozi non apriranno
mai più, l’aria fittizia di questo inedito inverno
non si vede, come il dio che ci abbandona impotente
a Capodanno, nel ballo di alcolici, nel giro di case in affitto.

2.

Chi le abita, esce la sera coi topi, lune che indorano e bar elettrici
a scavare in un milione di bicchieri, alle finestre,
tra i vestiti poggiati sulle sedie e le buste di rifiuti
che colorano tetre i portoni. Non che sia terra così bella,
ma è una città come un’altra, serve a proteggere distanze,
il sì che c’è nel no, la cosa che appartiene
da quella che ogni ora si consuma.
Lamiere e marmo a splendere, come un banale altrove.

Invece in un giro di tango accennato, l’incontro preciso
in un saluto che manca, è solo questo: giorno che impazzisce,
improvviso, poi muto. “Vengono in molti, ogni giorno in questo bar
e aspettano”. Il vertice del vetro è nella trasparenza
di due corpi senza ordini, andando via senza parole.
“C’è libertà di fare, in assoluto, ma non serve”.
“Ci sono le scelte tutte possibili, non si distingue”.

Resta il precipizio di un volto in una testa, da solo
una stella abituata a bruciare in un guscio labile.
Non c’è un abbraccio (qualcuno resta fermo, l’altro
camminando) nella sosta all’angolo, poi chissà che vie.
Danno pace i lavori nella terra per il gas
e niente nasce. Non si vede più la scia di fango,
da dove tutto era venuto, dove tutto non ritorna.

 

 

© Fotografia di Dino Ignani

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Cristina Annino, “L’udito cronico” (Graphe.it, 2023) – Anteprima editoriale https://www.atelierpoesia.it/cristina-annino-ludito-cronico-graphe-it-2023-anteprima-editoriale/ Tue, 19 Sep 2023 06:00:54 +0000 https://www.atelierpoesia.it/?p=12439 Cristina Annino (pseudonimo di Cristina Fratini, 1941-2022), è stata scrittrice e poetessa. Dopo gli studi in Lettere Moderne a Firenze dove si laureò con una tesi sulle prose di César Vallejo ha frequentato, sempre a Firenze, il Caffè Paszkowski dove entrò in contatto con il Gruppo ’70, fondato nel 1963 da Eugenio Miccini e Lamberto Pignotti. Esordì nel 1969, pubblicando, con le edizioni Téchne, Non me lo dire, non posso crederci. Nel 1989 si trasferì a Roma e iniziò a […]

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Cristina Annino (pseudonimo di Cristina Fratini, 1941-2022), è stata scrittrice e poetessa. Dopo gli studi in Lettere Moderne a Firenze dove si laureò con una tesi sulle prose di César Vallejo ha frequentato, sempre a Firenze, il Caffè Paszkowski dove entrò in contatto con il Gruppo ’70, fondato nel 1963 da Eugenio Miccini e Lamberto Pignotti. Esordì nel 1969, pubblicando, con le edizioni Téchne, Non me lo dire, non posso crederci. Nel 1989 si trasferì a Roma e iniziò a dipingere, tenendo mostre collettive e personali in Italia e all’estero. Tra le altre sue raccolte poetiche si segnalano Ritratto di un amico paziente (Gabrieli, 1977), Il cane dei miracoli (Bastogi, 1980), Madrid (Corpo 10, 1987 – ex aequo Premio Pozzale Luigi Russo; poi Stampa 2009, 2017), Casa d’aquila (Levante, 2008), Magnificat (Puntoacapo, 2010 – premio Lorenzo Montano), Chanson turca (LietoColle, 2012), Anatomie in fuga (Donzelli, 2016), Le perle di Loch Ness (Arcipelago Itaca, 2019) e il postumo Avatar (Avagliano, 2022). È stata anche autrice di due romanzi: Boiter (Forum/Quinta generazione, 1979) e Connivenza amorosa (Greco&Greco, 2017).

 

*        *        *

 

 

*        *        *

 

Caos

Premettendo
ch’è sempre doloroso impalare
l’anima in un discorso, scrivere
un diario, lettere, versare
iride nella tinozza di un colloquio.
A quest’età e con i tempi che corrono,
io siedo al bordo dell’orecchio
universale; dico
«biondo, marziale cieco cielo
dove il tempo è rotondo: la verità
è orrendo cannocchiale».
Poi mi rivolto, ascolto chi parla,
annuso odore di vero nel parziale
gesto di chi mi appaia. Credo
a tutto; a quest’età si è un cimitero
abbastanza paziente.

 

*

 

Il ballo dell’umano

L’amico tedesco parla
di geometria: il mondo gli sembra alchimia
soave, quasi oggetto. Ma il mondo
non è forse il quadrato dove
esplodo, non reggo e metto
a tacere le labbra sul divano vedendo
lui che alza il mento? Lo fanno
in molti, ma quel gesto, a me
che sono caricato di anidride, fa
spavento.

Un orrore i saluti; la visita. Balliamo
insieme seccamente; io indago
i suoi occhi che ronzano sul naso,
girini. Lui ride e alza la mano, questa
volta. A un palmo da noi la strada, il mio
cranio che si esprime così male.

 

*

 

L’udito cronico

Le poesie d’amore le do
in appalto ai droghieri. Io
inseguo pensieri su cui
casco, è vero, in rime toniche.
Anche a me succede; ma in genere,
è un fatto, sto in piedi.
Ed ho
un bell’udito cronico
per la vita, o meglio
per la testa impazzita
dell’uomo che ragiona, e gli sale
accanto in due, divisa
fino all’occhio glaciale.

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Valentina Furlotti, “Fosforescenze” (Interno Libri, 2023) – Anteprima editoriale https://www.atelierpoesia.it/valentina-furlotti-fosforescenze-interno-libri-2023-anteprima-editoriale/ Mon, 18 Sep 2023 06:00:05 +0000 https://www.atelierpoesia.it/?p=12494 Valentina Furlotti nasce a Parma nel 1993. È laureata in Filosofia. Suoi inediti appaiono sul nono Almanacco dei poeti e della poesia contemporanea (Raffaelli Editore, 2022) e su lit-blog e riviste come Atelier, Interno Poesia, Fara Poesia e Poeti Oggi. Alcuni suoi testi sono stati tradotti in spagnolo per il Centro Cultural Tina Modotti. Collabora come redattrice con Atelier. Ha tenuto laboratori poetici nelle scuole e co-organizzato Vianino in Poesia. Fosforescenze (Interno Libri, 2023) è la sua prima raccolta poetica […]

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Valentina Furlotti nasce a Parma nel 1993. È laureata in Filosofia. Suoi inediti appaiono sul nono Almanacco dei poeti e della poesia contemporanea (Raffaelli Editore, 2022) e su lit-blog e riviste come Atelier, Interno Poesia, Fara Poesia e Poeti Oggi. Alcuni suoi testi sono stati tradotti in spagnolo per il Centro Cultural Tina Modotti. Collabora come redattrice con Atelier. Ha tenuto laboratori poetici nelle scuole e co-organizzato Vianino in Poesia. Fosforescenze (Interno Libri, 2023) è la sua prima raccolta poetica ed è in prevendita al seguente link: http://internolibri.com/libro/fosforescenze/

 

*        *        *

 

 

*        *        *

 

Il gabbiano che ride conosce
il mio oracolo. Ha occhi greci
cerchiati di rosso e una goccia
di sangue sul becco. Al tramonto
estrae la gemma che scotta
mi sorveglia e si allontana
in un cielo marcato Repsol.

 

*

 

Le località di mare in inverno
esistono solo qualche ora
la domenica. Le vie si riempiono
di famiglie e turisti
senza pretese. A riva
bambini innalzano capanne
con i rami della notte. «Per entrare
esibire green pass» dicono –
altro che paroladordine.
Una donna inciampa e ride sguaiata
il venditore di crêpes
fa il gruzzolo settimanale. Ma alle 17
i lampioni.
Il padre grida: «Tiago, è tardi!
Io me ne vado e ti lascio qui!».
Sa che presto
l’ombra sarà troppo forte
il parco si volterà dall’altra parte
un’onda sommergerà ogni cosa
e l’ostrica chiuderà la bocca sulla perla.

 

*

 

Brillavano al buio, nella sala
da ballo, le ragazze del radio
operaie ad Orange, New Jersey:
tutto il giorno a dipingere lancette
con la vernice radioattiva Undark
a leccare pennelli per fare
la punta sottile. «Dosi innocue»
dicevano scienziati, dirigenti
vestendo abiti di piombo, pinze
d’avorio, «al massimo avrete
le guance rosa». Cinque anni dopo
i primi malesseri: denti che cadono
ossa a nido d’ape, emorragie.
Brillano al buio, le ragazze del radio
verdi scheletri luminescenti.

 

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Anita Piscazzi, “L’erranza” (peQuod, 2023) https://www.atelierpoesia.it/anita-piscazzi-lerranza-pequod-2023/ Fri, 15 Sep 2023 06:00:39 +0000 https://www.atelierpoesia.it/?p=12364 Anita Piscazzi è una pianista e poetessa pugliese, ricercatrice, impegnata in studi etnomusicologici e didattico-musicali. L’erranza è la sua terza raccolta poetica, pubblicata per peQuod, nella collana Portosepolto, a cura di Luca Pizzolitto. Un’opera dedicata ai cercatori dell’invisibile, a coloro che esplorando le cuciture dei suoni e le curvature del tempo, giungono all’antico silenzio dei luoghi sacri, nell’incontro tra la luce e le tenebre, che tutto uniscono, in un mondo monadico senza porte e finestre. Ma è nella luce che […]

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Anita Piscazzi è una pianista e poetessa pugliese, ricercatrice, impegnata in studi etnomusicologici e didattico-musicali.

L’erranza è la sua terza raccolta poetica, pubblicata per peQuod, nella collana Portosepolto, a cura di Luca Pizzolitto. Un’opera dedicata ai cercatori dell’invisibile, a coloro che esplorando le cuciture dei suoni e le curvature del tempo, giungono all’antico silenzio dei luoghi sacri, nell’incontro tra la luce e le tenebre, che tutto uniscono, in un mondo monadico senza porte e finestre. Ma è nella luce che i versi di Anita Piscazzi allargano i confini, ci costringono ad abbandonare il corpo alla dimensione mistica, e lasciare un sigillo per ritornare ad essere alba di tutti i pensieri.

L’erranza — come dichiara l’autrice — si disvela attorno al nucleo tematico della mancanza che accresce il desiderio di cercare l’altro, di relazionarsi. Un cammino attraverso il quale tutto si risveglia, e chiede salvezza, dentro e altrove, inseguendo un segno-guida che accolga l’istante dell’apparizione nell’abisso del vedere.

 

*        *        *

 

 

*        *        *

 

« E così ho scoperto che tutto mi riportava alla luce e ho iniziato ad indagare sul tema non semplice della luce ed è su questo filo che ho tessuto “L’erranza”, l’idea del cammino personale, del viaggio come destino spirituale, dove ogni luogo, ogni suono, ogni parola diventano un segno del nostro andare. »

Anita Piscazzi

 

*        *        *

 

E quando ti girerai
saprai toccando il punto più alto.

La stella a oriente del meridione
non ha inizio né fine,

ruota potente di segni e miracoli,
dimora nel firmamento.

Così pensando e andando
in te, primo angelo

spalanco il mio cuore buissimo,
l’eterno sbatte nella tua ala.

Infiamma il lume della tenebra,
primamente altra luce non vidi

e non volli che l’usignolo muto
e il canto aperto del tuono solitario,

il libano, il falco e il bianco del rosmarino.

 

*

 

Ciò che la primavera fa agli alberi,
l’invisibile lo fa alla luce.

Il polline delle stagioni sepolto da millenni
riprende a volare, non sa da quanto tempo.

Le cellule nel sangue si muovono lentamente,

tutto l’universo resta nello spazio a catturare
i corpi sonori del silenzio,

in un altro cielo di lampo, in un altro luogo di salvezza.

 

*

 

Il potere è nel corpo di luce
che si fa fuoco.

Gli atomi dell’esistenza in cibo, bocca, acqua.

Dentro, il mondo invisibile è abitato
da fasci trasparenti, esplosioni di forme

colme di cento delizie: mari, giardini profumati,
frutteti, banchetti di nozze.

Tutto questo è come un sogno,

così la luna diventerà un pesce,
la montagna un cammello,

ogni cosa sarà nella trasformazione.

 

*

 

III

Ogni cosa, ovunque volgerai lo sguardo,
ti sembrerà non avere forma
e i tuoi compagni di viaggio saranno
la fiamma, la strada, il segno.

Soltanto ascolta, chiudi la bocca,
anche se hai cento pieghe di feltro addosso,
— guarda come si manifesta l’universo.

Il tuo lampo sarà pura luce.

 

*        *        *

 

«Così vagante e persa nei luoghi più estremi del suo spiritualismo raffinato, danzante e crepuscolare, benché ancorata a un richiamo d’amore struggente, Anita Piscazzi prova a disancorare la poesia dall’io, dal corpo, dalle gabbie del Tempo e dello Spazio, per finalmente volare in una luce gioiosa in cui sbarazzarsi della condanna del nome, così da poter dire, proprio come fa lei con un “superiore” sogno di libertà, di smaterializzazione e dunque di conoscenza: “Non fui nel nome”. »

Da Un “superiore” sogno di libertà e di conoscenza. (Andrea Di Consoli)

 

*        *        *

 

Anita Piscazzi, poeta, pianista e ricercatrice. Ha pubblicato: Amal (Palomar, 2007), Maremàje (Campanotto,2012), Alba che non so (CartaCanta, 2018), Ferma l’Ali, cd poetico-musicale (desuonatori, 2020) e il romanzo Canto a silenzio. Anna Magdalena Bach (Florestano, 2022). Ha curato Sotto traccia, antologia poetica di autori vari (Latitudine 41, 2022). Tradotta in diverse lingue, è in Ossigeno Nascente (Atlante dei poeti contemporanei italiani – Università di Bologna), in Almanacco dei poeti e della poesia contemporanea e (Raffaelli, 2018), in PoetrySoundLibrary di Londra, in Voices of ItalianPoets dell’Università di Torino e in RaiPoesia. È stata pubblicata in antologie e in riviste italiane ed internazionali. Ha collaborato ai progetti poetico-musicali: Alda e il soldato rock con Eugenio Finardi, Ferma l’Ali con Michel Godard; e al progetto teatrale: Miss Kilimangiaro in Kenya per “Avis for Children”. Collabora con diverse riviste culturali.

 

Massimo D’Arcangelo (Martina Franca, 1982), vive nella Riserva Naturale dell’Alto Merse, in Toscana. Redattore di Atelier Poesia. Ha pubblicato Intatto. Ecopoesia/ Intact. Ecopoetry (La Vita Felice, 2017), con Anne Elvey e Helen Moore; Voce del verso animale. Poesie antispeciste per ragazze e ragazzi (Pietre Vive, 2023), con Teodora Mastrototaro. Ha curato la prima edizione italiana in volume del racconto Stickeen. Storia di un cane, di John Muir (La Vita Felice, 2022). Suoi lavori sono reperibili online e su riviste nazionali e internazionali a tema ecologico.

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