Eliza Macadan letta da Marco Conti

MACADAM

 

Eliza Macadan, Passi passati, Joker Edizioni, Collana L’arcobaleno, 2016
Nota di lettura di  Marco Conti


FINIS TERRAE

Non è un lembo di terra quello da cui Eliza Macadan pronuncia i versi di questo libro; non è la vicenda di un Paese o di una storia quella da cui scaturisce il mantra che intitola quest’ultima, quarta, raccolta di poesia nella lingua d’adozione dell’autrice romena nativa della Moldavia. La geografia percorsa da “Passi passati” è senza alcuna remora la geografia di una privazione che solo incidentalmente vive con fisionomie tolte da un milieu specifico, da un crocevia di destini, da uno sperone di roccia dove finalmente si può gridare a squarciagola, “Finis terrae”. Qui la terra finisce ma ciò di cui si parla non è lo spazio ma il tempo o, meglio, quella rappresentazione del tempo storico che fin dalla sua seconda raccolta di versi italiani, “Paradiso riassunto”, ha informato il dettato dell’autrice.
Il timbro era allora, in quel versante della poetica, un perenne presente, l’azzeramento dell’orizzonte, la reificazione delle vite: “ogni giorno/ premo il pedale/ del perdere o vincere/ per sapere/ dove mi trovo// la mia identità di plastica/arriva con un treno/ di notte”. Ma parimenti e con toni più eloquenti, il registro era talvolta vicino ad un modulo quasi cantabile della lirica di protesta (e penso a certi frammenti della beat generation): “mi rende nervosa/ quella nuvola/ a cavallo/ sulla casa/ spudoratamente bianca/ come le borse delle puttane/ uscite a passeggio/ mi rendono nervosa/ i funzionari/ dei ministeri/ che non sanno/ se per prima arriva la morte/ o la pensione (…)”.
Quel mondo così evocato con voce roca, s’era fatto immaginosamente ironico nei versi energici, talvolta persino ìlari, de “Il cane borghese”: “sto riempiendo scatole/ con ciò che è rimasto/ di questa estate/ pago in anticipo per mille anni la casella postale (…)”; oppure: “di sera incontro/un cane borghese/ resistente alla routine/ come me”. Era allora in evidenza il cuore di  una poesia in cui il tempo storico veniva filtrato attraverso l’immagine della vicenda personale come, con mozioni affettive più trasparenti e meno visionarie, era accaduto nella prima raccolta italiana, “Frammenti di spazio austero”.
Bisogna arrivare alla silloge composta appena un anno fa, “Anestesia delle nevi”, per reperire l’evoluzione di quel linguaggio e, contemporaneamente, un paradossale antecedente  di questo ultimo finis terreae: “guarisco/ la terra/ con i passi perduti/cavalco/ la notte/ con la frusta nell’aria/ spavento l’aurora/ e vado a dormire/ a Nord della parola”, che altrove nella raccolta così ricompone: “andrò a Nord/ della parola/ nella siberia sintattica/ il gelo muto// a cavallo sul pianeta/ veglierò/ la morfologia della fine”.
L’adozione di un lessico minimalista quanto straordinariamente suggestivo perché raggrumato nell’immagine netta e affilata  (che costituisce la cifra dell’autrice nel suo intero percorso), collega  “Anestesia delle nevi” al precedente  e cattura i versanti più tesi di quest’ultimo libro che fa di quella “morfologia della fine” un più dispiegato ventaglio di accezioni. Tuttavia   “Passi passati”, segna un mutamento importante: la caduta di aspettative, l’assenza di una pronuncia fàtica, il volgersi verso una nebulosa della storia che tutto pervade e ingloba fino a diventare una sovrapposizione dei destini naturali, sono temi ripresi oggi in una chiave che muta intonazione e soprattutto si stempera in un dettato talvolta apertamente narrativo fino ad adottare, eccezionalmente, la finzione epistolare.
La chiave di volta di questo percorso e, insieme il punto di congiunzione nella parabola formale dell’autrice, ha il proprio momento nei versi de “il falò incendia”:

                    il falò incendia
                    rizzonte rimasto a bocca aperta
                    sul lungomare della salute questa ragazza sa di donna
                    questa madre sa di amante
                    un delirio antico scompone movimenti
                    passi passati
                    questa danza sa di africa
                    le onde si fanno ponti
                    verso le origini i sessi sentono tamburi di guerra
                    la fame passa al pensiero dell’altra riva
                   
                    gli zingari non mi hanno portata via
                    con loro
                    eccomi qui brucio in un frame del falò
                    la notte balla ad occhi chiusi
                    come il presente

E’ avvertibile immediatamente la voce di un racconto, il rinvio allo scenario storico dell’esodo, della migrazione, ma al contempo sono le movenze immaginative dei primi due versi e degli ultimi due, che firmano e contrassegnano il dato precipuo e la poetica, la costante autoriale che illumina ciò che, diversamente, risulterebbe ascrivibile a una lirica di denuncia assorta sopra il destino storico. E’ esattamente “quell’orizzonte rimasto a bocca aperta” (immagine che trasla la sorpresa dal punto di osservazione all’oggetto osservato), ovvero l’ironia che inverte i termini e fa del paesaggio una fisionomia antropomorfica, con la scansione recisa a cui si era abituati dalle precedenti raccolte, a ricostruire la poetica e a confermarla nei versi conclusivi: “la notte balla ad occhi chiusi/ come il presente”.
Il tempo, il “presente” di questa storia, vanifica le domande, chiude l’orizzonte delle attese mentre le cose umane acquistano la fisionomia di una rappresentazione equivalente alle altre, diventano un “frame di falò”. E’ troppo arguire in tale “frame” la cornice che rinvia ad ogni cornice dentro il quale il mondo storico, “l’oggità” viene conosciuta e distanziata? E’ inopportuno rievocare come l’assenza di autenticità, di esperienza, sia tra i dati precipui della collettività postmoderna?
Voltata qualche pagina ecco una misura più composta e parca del verso: “Passi passati nel giardino/ di Cechov/ritornano anni autunni/ singhiozzi al primo freddo/ poi ci si abitua/ locandine popolari spariscono come funghi sotto il gelo/ passi passati e mani in tasca/un apparecchio nello smartphone/conta i battiti del cuore”. Ecco ancora la sentenza conclusiva che illumina il dettato che si sarebbe detto raccolto intorno a una memoria personale, rarefatta quanto i giardini cechoviani, le pertinenze della “Signora col cagnolino”.
L’insignificanza di un’epoca che sembra aver rinunciato al pensiero critico, che ha accantonato la storia per un eterno presente e un futuro ineffabile quanto temuto, non può che innervarsi dal suo confine, dal refrain ossessivo, “passi passati”. E’ il limine da cui si misura il presente dove “il coraggio rimane giovane/ma la speranza invecchia un po’”. Segnali quando non evidenze clamorose di questa circoscrizione del vuoto,  si sgranano in ogni pagina, talvolta con ruvidità elencatorie: “a novembre/ le guerre si fanno a tavolino/ in cancellerie ben riscaldate/ qualcuno traccia/ una nuova frontiera/ in bozze/ novembre dura una stagione intera/ci butta dritti sotto/l’albero di natale/ i poeti non vagano più/ bussano alle porte di vecchie conoscenze/ per una tazza di tè”.
In pochi versi colloquiali Eliza Macadan passa dalla rappresentazione proverbiale del cinismo guerrafondaio (e le sue ineffabili sarcastiche “bozze”) alla ritualità vuota del calendario e, da questa, alla  prosaica silhouette del poeta dietro ai vetri in cerca di ristoro.  E’ una coraggiosa e postmoderna citazione o l’anticipo del mondo depauperato che l’autrice prefigura in queste pagine?

Marco Conti, è autore e docente di Scrittura creativa. Ha scritto i libri di poesia “La mano scrive il suono” (con 33 disegni originali di Martha Nieuwenhuijs; Osnago, Pulcinoelefante, 2012); “Sei variazioni assonanti” (in Corto Circuito, Alessandria 2008); “L’ospitalità dell’aria”, (Udine, Campanotto, 1999); “Stellato chiaro” (Milano, Crocetti, 1986); ha pubblicato inoltre il poemetto “Via delle fabbriche” (Viennepierre Edizioni 2007);  e “Poesie” (in Scarto Minimo, Panda, 1987). Ha tradotto dal francese la poesia di  Joyce Mansour  (“L’Eros Mansour”, prima traduzione italiana e introduzione all’opera, in Poesia, Crocetti, 1999) e  di Pierre Reverdy,  (“Questi giorni misteriosi”, introduzione e traduzione in  “La mosca di Milano” 2008).  Sue poesie sono state tradotte in romeno.
Nell’ambito della critica letteraria si è occupato di vari autori italiani e stranieri. Tra i più recenti: “Le poesie ticinesi di Augusto Blotto” (in Bloc Notes, Bellinzona, 2013); “Il presente e lo sconfinato nella poesia di Augusto Blotto” (in “Il clamoroso non incominciar neppure”, a cura di M. Masoero e G. Olivero, atti del convegno dell’Università di Torino e del Piemonte Orientale, Centro Studi Gozzano Pavese, Edizioni dell’Orso, 2010); “Beckett sulla spiaggia”, (in AA.VV. “Percorsi nell’opera di Samuel Beckett” a cura di S. Montalto, Joker 2009); “Amelia Rosselli: Il desiderio e la follia” (in La Mosca di Milano, 2007); “L’eccesso del canto. Poesie sul vino e sull’ebbrezza dall’antica Grecia ad oggi” (in collaborazione con Giancarla Savino; ed. fuori commercio, 2005). Ha scritto inoltre sulla poesia di Milo De Angelis, Emanuel Carnevali, Lorenzo Calogero, Eugenio Montale, Eugene Guillevic. Suoi articoli di critica letteraria sono compresi nella bibliografia dell’antologia “La poesia italiana dal 1960 ad oggi” (a cura di Daniele Piccini, Rizzoli, 2005). Ha curato la raccolta delle liriche di Corrado Bianchetto Songia, “La chiave a scheletro” (Firenze Libri, 2007). Docente di scrittura creativa ha curato introdotto l’antologia di racconti “Mia madre era figlia unica e altri 22 racconti” (Joker, 2010).
Interessandosi dei rapporti  tra mito, simbolo, poesia e narrazione  ; ha scritto la raccolta di fiabe e leggende “Il volo della strega” (Giovannacci Editore, 2004); “In principio era la notte: appunti per una mitopoiesi della luce” (Risk, 2001);  “Una processione illuminata dai mignoli” (AMP editore, 2000). Vive a Biella.