Elisa Donzelli, ‘album’ (Nottetempo, 2021). Recensione di Davide Morelli

Elisa Donzelli

album

Nottetempo, 2021

pp.96, Euro 10,00

.

Elisa Donzelli con questa bella raccolta ci consegna i momenti salienti del suo vissuto, ma anche quelli della sua generazione (la poetessa è del 1979). Si rivela acuta interprete della sua epoca senza essere mai discepola del proprio tempo. In questa raccolta troviamo una carrellata di persone care e personaggi assurti alla fama per i più disparati motivi, come il gruppo musicale R.E.M, la rockstar Madonna, la vittima Marta Russo, Carola Rackete, etc etc. Le vicende personali si amalgamano bene con la cronaca e la Storia. Nella silloge l’autrice correla l’identità alla memoria senza cadenze nostalgiche, smanie di grandezza o minimalismo esistenziale. Non incorre nell’engagement e neanche attinge dal materiale spurio. Ci consegna invece un lavoro poetico, che si caratterizza per l’organicità, la pregevole fattura ed il buon gusto. Innanzitutto parte dalla datità per approdare ad una ricerca esistenziale/metafisica personale ed originale. Il linguaggio è letterario, appropriato, ma chiaro ai più. Ci sono due diversi livelli di lettura. Per i più avveduti ci sono i riferimenti colti ed i cortocircuiti. Per tutti gli altri c’è una chiarezza espositiva che non fa perdere la liricità e non genera semplificazioni. Prevalgono i campi semantici sui cosiddetti campi associativi. La Donzelli non ricorre ad analogie ermetiche, ad un linguaggio troppo traslato. La comunicazione intersoggettiva è chiara e la comunicazione simbolica, più profonda, non è destrutturata, è anche essa efficace. Questo non è poco in un ambito come quello della poesia contemporanea, in cui la deriva sperimentale o metapoetica porta talvolta al gioco di ombre cinesi oppure alla matrioska. L’autrice non gioca con le parole, non è una prestidigitatrice. C’è già la realtà a spiazzarci con le sue illusioni ottiche e gnoseologiche, con i suoi miraggi e le sue Fate Morgane. Allo stesso modo questa poesia non è uno sproloquio incessante né una poesia degli oggetti.

Non ci sono cadute di tono né di stile. Il dettato, fatto di autentica intellettualità senza intellettualismi, si rivela omogeneo, coerente, cristallizzato e mantiene lo stesso diapason. Non è infarcito di paroloni, arcaismi e termini desueti con cui alcuni pensano di fare poesia. Le immagini (fotogrammi/apparizioni/agnizioni) fluiscono genuine, immediate, essenziali, frutto di intuizioni eidetiche. Funzione referenziale e funzione poetica si fondono armonicamente. Tutto è ponderato, calibrato ed allo stesso tempo espressivo nella sua gestalt globale. È uno stile che si caratterizza per la perspicuità e per l’elevato peso specifico.

Il poeta Davide Rondoni scrive che il poeta mette a fuoco il mondo. La letteratura in particolare serve per ritestualizzare il mondo del lettore, come avvertiva Tondelli. Anche la poesia può aprire gli occhi, può rendere attuali certe problematiche del lettore, che è sereno e in pace col mondo nella sua comfort zone. Allo stesso tempo la vita è come una immagine che si può mettere a fuoco solo quando si è distanti, come in questo caso. Ci vuole una certa distanza emotiva e psicologica per ritrarre obiettivamente un aspetto della realtà. Una problematica vista da una angolazione nuova può far cambiare atteggiamento o quantomeno può indurre a nuove riflessioni. Ci sono due scuole di pensiero a proposito:1) quando scriviamo cambiamo la neurochimica degli altri. 2) molto difficilmente lasciamo una traccia. La stragrande maggioranza delle nostre parole cade nell’oblio.

La poetessa propende per la prima ipotesi ed infatti scrive:

.

sembrano come gli uccelli

che vedo da questo treno

i migranti, sparuti nelle stagioni

a gruppi inaspettati ognuno

con il proprio volo

ognuno con altri,

se nel sogno che avevi per loro

mi hai detto di osservare la scelta

non il modo del loro alzarsi (…)

.

Di tutti gli stimoli che noi viviamo solo una piccola parte raggiunge la soglia di coscienza. È una selezione della nostra mente perché non possiamo prestare attenzione a tutto: abbiamo dei limiti cognitivi. Ancora meno è ciò che viene memorizzato. Anche ciò che viene memorizzato spesso è perduto perché non reiterato o per interferenza, come insegna la neuropsicologia. Consegniamo la maggior parte del nostro vissuto all’oblio. Scrivere è un modo per consolidare la memoria, per esternare le tracce mnestiche, i cosiddetti engrammi, e condividerli con i lettori. Alcuni versi della Donzelli sono rappresentativi di un’intera generazione, la cosiddetta generazione X. Scriveva Bob Dylan: “abbi cura dei tuoi ricordi perché non potrai viverli di nuovo”. Il ricordo è un vestito liso. La memoria è selettiva ed infedele. I ricordi migliorano di solito il passato. Ogni persona è un’enciclopedia di ricordi. Come ci ricorda Sanguineti, di ognuno rimangono nella memoria dei propri cari poche frasi, al momento della dipartita, a meno che non scriva, che non lasci memoria di sé, che non lasci la sua testimonianza. Stefano Colangelo definisce la poesia “patrimonio emotivo” in quanto è qui che vengono sedimentati fatti privati e Storia. Queste poesie sono anche un modo di fare archeologia del proprio Sé, di rivisitare la memoria con effetto retroattivo, pur senza Après-coup di origine sessuale. Ma abbiamo anche ad un livello più alto la commistione tra vivi e morti, quella che Aldo Capitini chiamava “la compresenza di vivi e morti”; il filosofo scriveva che la morte “non è un non essere astratto, è il non essere di una persona”. In questa raccolta c’è tutto questo. In fondo si tratta della comunione tra vivi e morti, in riferimento a ciò che dice la teologia cristiana sulla comunione dei santi. Anche i viventi possono percepire il regno dell’invisibile:

.

tecnigrafo

.

Placida sum nympha Numici;

Amne perenne latens Anna

Perenna vocor.

Ovidio, Fasti, III

.

entro tra le strade ai piedi dell’Aniene

nel quartiere che ho scelto per i miei giri di passi

e potresti essere tu quella che si allunga di spalle

se non è finzione trovarti spedita

di svolta, in ogni figura decisa

purché sia solo esercizio di distanza

ritrarti tra i vivi, incompleta nel viso

a perenne inclinazione.

.

Ma leggendo questi versi sorgono alcuni interrogativi. Obliquo è lo sguardo o sono le cose stesse? È l’autrice che guarda di sbieco? La poesia è a sghimbescio, ma è il soggetto inclinato o il piano della realtà? È obliquo il reale? Forse entrambe le cose. Forse addirittura si tratta di una sovrapposizione obliqua. Oppure forse la poetessa ha sezionato in modo obliquo il cono di Bergson, in cui la percezione è il vertice che tange la realtà e la memoria è la base? Scriveva la Dickinson che la verità va detta in modo obliquo, va detta per gradi. Troppa luce può accecare. Il non detto è indicibile, ciò che è inopportuno dire è ciò che non sta a cuore dire. Di solito nella stragrande maggioranza dei casi si tratta delle prime due categorie. Queste poesie sono come lame di luce, che filtrano dalle imposte delle persiane. Anche da queste si può ammirare il sole senza farsi abbacinare. Anche da queste si può guardare il pulviscolo, illuminato dai raggi. Questa visione obliqua però non disturba in alcun modo né il lettore consapevole né quello inconsapevole. Anzi, l’effetto leggermente straniante di questa tecnica ci fa vedere le cose in una nuova ottica, senza rovesciarla completamente. Ognuno ha un suo orizzonte conoscitivo. Oltre c’è la realtà, ma è una realtà noumenica. Dietro ad un velo ci può essere un altro velo, dietro la maschera un’altra maschera. La conoscenza può essere considerata come un insieme di strati, di soglie, di gradini, di livelli, di piani. Il circolo può essere vizioso. Il regresso può essere infinito. Forse la Donzelli vuole dirci proprio questo.

Spesso la coscienza è dislocata, fuori posto. “Sono dove non penso. Penso dove non sono”, sostiene Lacan. I pensieri sono sempre proiettati altrove. Allo stesso tempo la nostra coscienza è dislocata perché si ciba di assenza. C’è sempre qualcosa che ci manca perché lo abbiamo perso, dimenticato oppure mai avuto. Siamo così abituati ad identificare la nostra soddisfazione con il possesso. Invece la vita è costellata di perdite umane, dell’assenza di persone care. Le poesie della Donzelli fanno pensare a tutto ciò.

Più che lo spirito dei tempi, in questi componimenti si avverte lo spirito della generazione cui appartiene Elisa Donzelli. In questa raccolta si intravede il discorso intragenerazionale, totalmente privo della ormai diffusa conflittualità intergenerazionale. La generazione del ’77, quella ben descritta da Claudio Lolli, ad esempio, è stata l’ultima generazione capace di pensarsi collettivamente. Dopo solo una coppia, una famiglia, una comitiva di amici, un gruppo di lavoro poteva ancora dirsi noi, ma non una generazione. La generazione X ha condiviso solo gli eventi di cronaca e politica, i mutamenti di costume e sociali, i miti, le mode e le icone. Niente altro. Non ha condiviso sogni né aspirazioni collettive e legittime di cambiamento. Non c’era nessuna utopia che la collegava, che la teneva insieme. La poesia della Donzelli è davvero significativa proprio perché viene stilizzata una generazione senza solennità, faziosità, nostalgia, sentimentalismo. Sono poesie che rendono umanamente partecipe il lettore e lo spingono a riflettere, senza voler a tutti i costi commuoverlo, suscitare il nodo alla gola. È questione di pudore, di discrezione e di saper mantenere un certo ritegno anche in caso di gravi lutti elaborati. È un ritratto realistico senza piagnistei. Nel Talmud c’è scritto che in ogni generazione c’è del buon vino. Questa poesia è il buon vino della generazione X, che purtroppo genericamente si ritrovava nelle discoteche, luoghi di aggregazione giovanile e di elezione del divertimento sfrenato, ma disgreganti a livello sociale e psichico. Una generazione fatta di comitive monadi, chiuse al mondo esterno, a causa del riflusso nel privato.

.

la spatriata

.

te lo ricordi Nora

il 25 aprile del 1994

quando a quindici anni

abbiamo preso il treno

e la pioggia scendeva

sul Duomo di Milano?

te lo ricordi che eri vestita

tutta di nero mentre la folla

sventolava bandiera rossa

quando regnava su noi due

la pace adolescente

di fronte a quel 61 per cento

al 61 per cento incosciente

del trionfo che sarebbe stato

il marzo tracollare?

Per quindici anni avremmo difeso liti costruito pali ricucito altre separazioni, mentre sceglievi tra Parigi e Berlino il luogo della sosta. Non so se hai fatto bene tu a partire e ho fatto bene io a restare, se partire e restare a vent’anni sono la stessa cosa. Ora che non piove piú su Milano ma un’arsura piú secca invade la città e Roma non è piú quella degli amori inconfessati sui nostri prati dove un bitume artificiale molesta le ville degli appuntamenti, anch’io sono libera su questo treno e non occorre che qualcuno nasca qualcuno muoia cambi qualcosa in questo paese.

Frecciabianca Roma-Pisa

Ed ancora a maggior riprova scrive anche:

lucky star*

.

per Marta

.

facevi un gioco con le targhe

che passavano lungo la strada

TO-To piccolino”

e poi la serie alfa-numerica.

Vinceva chi ne diceva di più

e le diceva prima, vincevi tu

che sapevi città e capoluoghi

della geografia peninsulare.

.

Sono dove tu ci sei i miei primi ricordi,

alle finestre che da sempre abbiamo

abitato aperte sulle Tuileries

con le bambole in fila da rimproverare –

Va à ta place, j’ai mal à la tête!”,

il vetro di Antagnod nei pomeriggi di neve

con gli scarponi sempre ai piedi

per le gare da sci tu scesa in testa

a guardare gli applausi

a un passo dal traguardo finale.

.

Resta nelle fotografie il balcone

all’undicesimo piano dei palazzi

della Toro Assicurazioni –

Corso Vittorio Emanuele II

ti sei precipitata e io con te al grido

Campioni del mondo”

uno

Campioni del mondo”

due

Campioni del mondo”

tre volte.

.

È da lì che si vedeva il Rosa e poco sotto

lo stadio con le luci true blue, la musica

lontana ma presente del concerto che fu il primo

grande evento live realmente esistente

Ciao Italia! Ciao Torino!

Hello everybody!” – ancora l’accento

americano “Non spingìete, per favore”.

.

E tu invece spingevi la ringhiera

volavi di notte sulla città

verso la ragazza di origini italiane

la femmina che da sola riempiva

il palco dei nostri anni,

sei stata la mia prima star.

.

Poesia è percezione spesso non propriamente cosciente. Spesso ritornano a galla, riemergono paesaggi familiari come per la Donzelli. Ci sono paesaggi e luoghi così familiari che sono la quintessenza del nostro inconscio. Sono la nostra mitologia personale, privata. Il poeta vero li sa rendere universali, come il giardino delle rose di Eliot. Sono luoghi che ci hanno condizionato, che ci hanno cresciuto e che noi abbiamo covato dentro la nostra psiche per anni ed anni. Soltanto scrivendo ci si rende conto di quanto siano fondamentali per noi. Sono ormai una parte archetipica, atavica ed ancestrale di noi stessi, non importa se sono ameni o no, se sono collegati a dei bei momenti o a dei fatti traumatici. Abbiamo imparato a relazionarci col mondo tramite essi, a rapportarci con la realtà tramite essi. Il mare, il fiume, la campagna, la grande città sono elementi primordiali del reale, a cui noi ci siamo interfacciati originariamente. Grazie a loro abbiamo iniziato ad apprendere dal mondo. La psiche non solo come ci insegna la psicanalisi ripete i rapporti con le figure parentali, ma anche è plasmata dai luoghi cari. I paesaggi dei primi anni di vita sono anche essi archetipi figurativi. Sono un tramite, un codice di accesso per ritornare alle nostre origini e radici. Fanno parte di noi, della nostra personalità di base. Il nostro io si autocrea incessantemente, si rigenera, si ricostruisce, cambia epidermide costantemente. Questo è l’io dinamico. Rimane tuttavia un nucleo primordiale, un io statico. Questi due io dialogano continuamente. L’io statico è quello più profondo. È questo l’io che preme alla Donzelli. Certi paesaggi e certi ambienti dell’ infanzia e giovinezza sono la toppa dentro cui dobbiamo inserire la chiave della memoria, sono un modo per accedere al nostro io archeopsichico. Come in questa esemplare prosa della Donzelli:

.

villa Torlonia

apro la scatola delle fotografie dove finiscono le fasi della vita e le trovo sfuse nei decenni – ottanta novanta zero dieci sono numeri non anni, senza un criterio preciso mi riappaiono le parti strappate del tutto quando attaccavo sui muri le persone e le cose degli album che non ho conservato se le immagini cambiavano con le stagioni cambiavano i gesti negli stessi spazi tra i quali c’è una sola immagine di te con me nella villa, quando non ti volevo nata.

Oggi è un anno che non ci sei. Sul prato le persone si tengono per mano e formano un cerchio intorno agli alberi scaricando diversamente il peso a terra, poggiano più su una gamba che sull’altra e lasciano al centro l’amplificatore dal quale esce la tua voce registrata che alle cinque si ferma senza sbilanci. Una voce giovane prosegue e dice quello che sei stata, legge cosa pensavi della sorellanza e dove non arrivo cerco lo sguardo dell’altra che mi è sorella nello spazio che da altri ti è stato creato.

Dai racconti che fanno sembra che anche il tuo tempo abbia preso forma nei luoghi in cui ho avuto i tuoi anni – il casino dei principi il gazebo la limonaia la casa delle civette sono gli stessi nomi che usiamo per darci appuntamento e ricordarti tra gli slarghi dove scatto fotografie dei miei profili a continuità d’ombre che per natura potrebbero essere simili ai tuoi scatti o alla foglia nel vento, la stessa che hai inseguito tu. In questa villa dove diversamente siamo passate e che per ogni strada che prendo mi passa davanti.

.

Kafka scrisse che nella lotta tra io e mondo bisognava privilegiare il mondo. Ma Antonella Anedda ci avverte: “Vorrei disfarmi dell’io è la moda che prescrive la critica/ ma la povertà è tale che possiedo solo un pronome./ Al massimo lo declino al plurale. Dico noi/ e mi sento falsamente magnanimo”. In questa silloge c’è una continua interconnessione tra io e mondo, una precisa coniugazione tra passato e presente. In queste poesie non c’è solo la classica relazione tra dentro e fuori, tra interno ed esterno, ma la dialettica continua tra privato e pubblico in una società in cui il privato cerca di farsi pubblico (quasi tutti i giovani cercano di affermare le loro effemeridi diventando influencer) ed il pubblico invade in modo pervasivo la sfera del privato oltre ad essere caratterizzato dal privato (si pensi all’intimità sessuale dei politici o delle star diventate di pubblico dominio).

La poesia è evocazione e rievocazione. Concludendo, trovo che la Donzelli abbia assimilato, rasentando la perfezione, la lezione degli Shorts di Auden, di Caproni, dell’ultimo Montale, di Nelo Risi, di Sandro Penna, di Patrizia Cavalli. C’è la stessa brevità, la stessa capacità di sintesi, la stessa voglia di dire. Procede per illuminazioni ma evita le sentenze nelle clausole finali. Non tutte le persone colte riescono ad essere creative, spesso per l’autocensura che causa inibizioni e per la paura di mettersi in gioco. In questo caso invece con l’esordio poetico la Donzelli dimostra davvero spigliatezza, talento e coraggio.

Davide Morelli

.

Elisa Donzelli è nata a Torino nel 1979 e da piú di trent’anni vive a Roma. È autrice e curatrice di saggi e opere letterarie, tra cui Come lenta cometa(Aragno, 2009), Giorgio Caproni e gli altri (Marsilio, 2016), Poesie di René Char (Einaudi, 2018), Tra due città di Attilio Bertolucci e Roberto Tassi (il Mulino, 2019). Per l’editore Donzelli traduce e dirige la collana di poesia. Dal 2018 ricopre la cattedra di Letteratura italiana contemporanea alla Scuola Normale Superiore di Pisa.