Donato Di Stasi legge “Jochanaan” di Marisa Papa Ruggiero

JONACHAAN

Marisa Papa Ruggiero, Jochanaan, Giuliano Ladolfi Editore, 2015
note di lettura di Donato Di Stasi

EPIFANIE, EMERSIONI E NAUFRAGI

1.
Jochanaan è un libro sofisticato, arroventato di passioni, intenso e rivelatore, nel quale ogni verso vibra come un microcosmo e in cui esplodono segmenti primordiali di senso, refrattari alle mediazioni logiche: permanenze e impermanenze, complessità e leggerezze, guizzi di ironia e situazioni drammatiche slittano di continuo verso l’Oltre, verso una salutare apertura d’orizzonte, a petto di una quotidianità asfittica e catatonica.
Marisa Papa Ruggiero ci concede il privilegio di avvertire dall’interno la durata delle cose e dei gesti, mentre va componendo, frammento dopo frammento, per dilatazione e restringimento dell’istante, la dimensione mentale del pensiero da cui estrae immagini-movimento, percezioni, azioni, affezioni, in modo da poter restituire l’ellittico, l’inorganizzato, il rimosso, c’est à dire le pulsioni stipate nell’inconscio.
Jochanaan parte da zero, incolla tutte le maschere dell’io, provando a rinforzare  i legami genalogici e archetipici con il passato, oltre che a rendere più comprensibile la relazione tra la soggettività individuale e l’ineludibile divenire storico. Ne è dimostrazione una scrittura potente  e pulsante, uno scorrere d’inchiostro nelle vene dei testi, il ricorso a parole intense, non usurate, allo scopo di forzare le frasi per farle uscire allo scoperto, per sollevarle dalle pagine e spingerle a provocare una reazione emotiva e cognitiva nel lettore.
Jochanaan/Giovanni Battista, Salomè, Erode (le figure epifaniche del libro) non alludono altro che a ombre proiettate su una semioscura parete platonica, fantasmi remoti delle passioni più sconvolgenti e severe che agitano l’interiorità.
Qui non troverete cronache spicciole di uomini e donne, ma il ritratto nero e maledetto della natura umana, combattuta e messa in sospetto, e a un tempo ammirata per il  coraggio di districarsi da se stessa, dalla miseria della contingenza mortale: l’esercizio del dubbio diventa necessario per chi voglia ritrovare se stesso e per chi intenda liberarsi dal timore dell’assoluto, in qualsiasi modo lo si declini (l’indicibile, l’immaginifico, il meraviglioso, l’irrazionalità bieca e nauseante, la palude putrida di sanguinetiana memoria).
Partita e contropartita vengono giocate in un teatro ideale, da qui la frequente evocazione del palcoscenico con la sua aria fredda e tagliente, mescolata  allo spirito più ardente e più straziante:

          Guardo il tuo occhio rivolto altrove:
         al boccasacena delle ombre arpeggia
         voce doppiata su carta da musica… tu ora sai:
         oscura è la chiglia che vortica a vento
         scalando capillari elettrici su piste in fuga (p.34)


2.
Tanto appare grave e opprimente il fardello della realtà, quanto irrequieto e leggero il flusso dell’immaginazione. I versi si incendiano uno dopo l’altro, portando al proscenio il corpo-carne, il corpo astrale, il  corpo mitico e l’intero corpo del linguaggio.
All’attuale messinscena del corpo cosmetico Marisa Papa Ruggiero sostituisce l’apprensione della corporeità vera, pur esibita sotto il segno della mancanza, dell’ambivalenza, del soggiogamento temporale.
Al corpo marchiato, sminuzzato, negato dai segni tatuati sulla pelle, subentra il corpo-differenza, la riscoperta dell’alterità propria e altrui.
Se si obietta che dalla pronuncia di Jochanaan si leva più un indecifrabile brusìo che un autentico parlare, chiaro e compito, si può controsservare che la vitalità del dubbio travalica di una spanna l’asseverazione fine a se stessa, o la semplice mimesi del reale.
Jochanaan ha perso i caratteri del personaggio biblico: non è vestito di pelo di cammello, né ha cinture di cuoio alla vita, nemmeno si nutre di miele selvatico e locuste, eppure echeggia in lui (e nella poesia in generale) la stessa vox clamantis in deserto, lo stesso grido nelle solitudini urbane che oggi hanno preso il posto, per vastità e desolazione, dei deserti di un tempo.
Nell’ordine simbolico di Jochanaan Salomé non recita più la parte della danzatrice erotica che pretende per capriccio la testa del Battista. Salomé diventa la madre arcaica , l’Altro onnipotente che si manifesta con diverse maschere e posture. Talvolta madre paziente che accoglie, in quanto corpo e grembo abitato da un amore ancestrale, ma in altre occasioni brama vorace, totalmente distruttiva, com’è nella duplicità manichea della natura umana.
La madre arcaica gira vorticosamente su se stessa, fata e strega a un tempo, femminilità docile e sfrenata che vuole scuotere da sé quell’angoscia torturante, indomabile, arbitraria, sorda alle regole e al principio di realtà:

          Divoro, divoro in danza le mie radici
           che spaccano l’erba
           tra lentischi assiderati affacciati agli inverni
           in fondo alla sete che arrossa la fonte
           a piedi nudi sui sassi, nel fiume salato
           spingo a spirale le sfere sfogliando
           il migrare del seme (p.20)

La danzatrice è l’eletta, l’unica, colei che induce il desiderio con l’effetto di chiamare l’Altro all’esistenza, trasformando l’appello in significato.
Se il corpo della danzatrice non si traducesse in significato, rimarrebbe il baratro e in esso un assordante silenzio: allora, solo allora si arresterebbe il corso dei pensieri, il sentimento di sé si frantumerebbe, vacillerebbe la relazione con il simile. Sarebbe  l’incontro con il Niente, la recisione dell’oggetto immaginario, la negativizzazione definitiva della corporeità concreta, che finirebbe radiata per sempre dalla mappa del desiderio.

3.
Esaurite le trame della corporeità, in Jochanaan la scrittura si precisa decisamente come un rito di avvicinamento all’imponderabile, una continua dislocazione di senso che strappa la forma alle cose e ne libera l’energia.
Il piacere della poesia consiste in questo rompere la corazza del prevedibile e nel proiettare fatti e sensazioni, anamorficamente, verso un fondo progressivamente schiarentesi.
La poesia si presenta come un sipario da chiudere e aprire. Gli spettatori/lettori, se ci riescono, ne strappano un lembo per farne reliquia e ritrovarsela nella mente quando dovesse servire.
Gli attori (profeti, re, danzatori e danzatrici) hanno ali cadute, per questo devono arrischiarsi sulla corda del funambolo e intentare con l’altro da sé (l’assoluto) un aspro dibattimento, una sfida violentemente interrogativa: si giocano l’unica  possibilità di apertura verso la verità, nonostante il finito e l’incompiuto costituiscano ostacoli pressoché insormontabili.
Una serie di versi altro non è che  una catena, ma una catena strana, fatta di perplessità e casualità. I versi appaiono assenti, pieni di vuoto, scavati nel centro per inghiottire tutte le parole banali e corrose dall’uso comune.
Rapimento, incantamento, estasi risuonano accanto a devastazione, erosione, dilavamento: il nodo della vita non si scioglie, l’Altro e l’Oltre restano oggetto di una problematica, indissolubile Verneinung  (negazione). L’accesso alla realtà e al suo limite risulta possibile solo nella forma dell’indeterminazione, che sfiora volutamente l’arbitrio espressivo:

            Forzerò le facce del cubo coi denti, qualcosa so
           della fioritura quando inscena se stessa
           e asimmetrica serpeggia fra i tronchi lunghissimi
           delle nostre ombre sulla mappa anfibia
           della domanda
           che corre in cerchi concentrici ignorando
           l’insidia scritta nel cerchio più vecchio dove l’inizio
           crollò nel punto esatto di fuga (p.15)

 

Per la semistrofa appena trascritta vale la nozione di non-tutto, in quanto il significante fallisce la presa degli oggetti e ci si trova a dover procedere per scarti tra ciò che sfugge al linguaggio e ciò a cui le parole sono comunque in grado di riferirsi. Le forme del ductus  poetico vengono lacerate e ricostruite, dando vita a un tentativo personale di pervenire semioticamente e sintatticamente a una propria mobile espressività

 

4.

Marisa Papa Ruggiero mette da parte l’esperienza dei sensi e agisce secondo i moti della coscienza, seguendo le regole della discorsività interiore. Situa le parole nei grandi interstizi dello spazio, incunea l’esposizione  nei  labirinti del tempo, con ciò prova a misurare l’energia che muove la Storia individuale e collettiva.
Se si passa attraverso i punti di articolazione del poema, e ancor più attraverso i vari tagli tematici, si nota l’abilità nel saturare i punti difficili dell’esposizione per evitare il solito edificio poetico pieno in  eccesso, gravoso, opaco.
La parola di Marisa Papa Ruggiero è un vuoto che riempie il vuoto, spirito analitico che esalta l’organizzazione interna del ritmo e degli intervalli.
Scrittura della differenza che opera sulle differenze, sui rapporti di forza concettuali e strutture di scambio simbolico.
L’intransitività del soggetto moderno (inscritto in un codice di segni reificato) viene superata attraverso i vari feticci evocati sulla scena, erosi nella loro individualità, eppure mai stanchi di reclamare capacità di rappresentazione.
Al  centro delle pagine è sistemato un enorme specchio scuro, irriflesso: il lettore può intravedervi minimi e intermittenti lucori, direzioni sulfuree, annunci di rinnegamenti e di ritorni.
Lo specchio offusca, ma non impedisce l’impercettibile bagliore, così la poesia con la sua parzialità e sperimentabilità dice cancellando, assevera negando, facendo il pari al coltello di Lichtenberg senza manico e senza lama.
Il  merito maggiore di Jochanaan va ricercato nel superamento della soggettività tradizionale, che si pretende autosufficiente, indifferente all’alterità come essenza del visibile e dell’invisibile.
Non è più tempo di chiudersi in una mostruosa e sterile egoicità. Lo sa bene Marisa Papa Ruggiero che lega con innumerevoli fili i suoi personaggi tra di loro. Intuisce  poieticamente un nuovo stato ontologico: fluido, deterritorializzato, nomade, molare, reticolare. Altri teorizzeranno, ma intanto è la forza dell’immaginazione a condurci nei territori anomali della multipolarità e della onnidirezionalità.

 

 Donato Di Stasi