Donatella Nardin “ Rosa del battito “ Fara Editore Rimini 2020 – Lettura di Fabrizio Bregoli

NARDINDonatella Nardin “ Rosa del battito “ Fara Editore Rimini 2020

Lettura di Fabrizio Bregoli

 

“Buttate pure via / ogni opera in versi o in prosa. / Nessuno è mai riuscito a dire / cos’è, nella sua essenza, una rosa.” (“Concessione”, da “Res amissa” in “L’Opera in versi”, Mondadori – 1998): così dice Giorgio Caproni in una sua poesia, affermazione che anche Donatella Nardin crediamo possa sottoscrivere, come emerge dalla lirica in chiusura a questa raccolta, che a questa raccolta dà anche il titolo, dove sono riscontrabili significative corrispondenze con il testo di Caproni: “altro non resta se non l’amore, / rosa del battito // per l’enigma che siamo”.
Poesia e mistero si interrogano nei versi della Nardin, perché è “il non detto” il centro nevralgico della poesia, soltanto questo sa offrire “da solo il suo senso profondo”. Siamo partiti – in modo non convenzionale – dalla fine, a rovescio quindi, per mettere da subito in evidenza la dichiarazione di poetica che è alla base di questo nuovo lavoro di Donatella : l’assunto della inconoscibilità dell’esistenza, in cui siamo tuttavia immersi con le nostre vite, sempre alla ricerca di un “polline di suono” (C. Rebora) che si presti a offrire uno spiraglio di comprensione, prospettiva a cui solo l’amore autentico sembra assolvere.
È poesia della perdita quella che Donatella Nardin ci offre, nella forma di un dialogo prima di tutto con sé stessa perché possa diventare tramite verso l’altro, tentare un ricongiungimento con quanto abbiamo perduto, con chi abbiamo lasciato, restituirci alla dimensione della “comunione dei vivi e dei morti” (G. Raboni) nella rispettiva compresenza.

Senza timore di essere considerata inattuale, Nardin rivendica la praticabilità della poesia degli affetti e, consapevole delle forme della contemporaneità, sa molto bene che questo richiede una forma asciutta, senza eccesso lirico o sentimentalismi, per poter essere credibile: la sua poesia è un procedere in equilibrio precario sulle parole, “germogli e pietre”, con una cifra personale, e dunque intima, per sapervi scovare l’”inespresso tepore / delle nevi”, decifrarne le “frontiere d’ombra”.

Il percorso, come è facile intuire, non resta immune da avversità e conflittualità irrisolte, come certificato fin dalla dedica (“A voi, / labili e assenti ormai, / ma ancora chiari e vivi / e impetuosi in noi”), in particolare dall’aggettivo impetuosi che crea un ossimoro evidente con assenti, indizio di un rapporto per nulla pacificato, ma ancora dialetticamente cogente.
E ancora si dice, ribadendolo emblematicamente: “Ci proteggono le cicatrici / dai letti vuoti, dalle sottrazioni” e più oltre, con un sobrio espressionismo combinato a una misurata reticenza: “cose di me che non so dire, / la testa calva, le ossa scavate / da tutte le cose perdute // andate via”.
Tuttavia, ricorrere alla poesia significa avere fiducia in lei, non temere di invocarla “oltre il limite del dicibile”: al “Vola alta, parola” di Luzi, Nardin risponde con il suo “fa’ che tutto ciò che ho amato / in te si compia e perduri”, attribuendo quindi alla poesia innanzitutto il ruolo di testimone, custode degli affetti oltre il confine naturale del tempo, del distacco.
È la verità di quanto si è vissuto che anima questi versi, l’esperienza autobiografica li permea di sé senza mai essere ostentata e proprio per questo il lettore può riconoscersi, sentirla propria come esperienza universale e condivisa, offerta dall’autrice con semplicità, “come un umile sasso / scheggiato da un raggio di sole”.
Anche in questo lavoro di Donatella ricompare uno dei suoi topoi che il lettore conosce bene: l’acqua, presente anche nel titolo della sua silloge “Terre d’acqua” (Fara Editore, 2017).
Questo elemento archetipico, che è naturale associare anche all’amnio e quindi all’origine della vita tout court, è in realtà materia concretissima per l’autrice che vive nei pressi della laguna di Venezia. Qui è presente come elemento, per l’appunto, materno, ma non per nulla consolatorio (“acqua che appare e scompare / reclamando il suo vuoto”, “vorrei lasciarmi vivere / nella vertigine tua”, “l’acqua / è il nostro insaziato ritorno”, “[…] l’acqua / scatto bruciante che mette a nudo”). L’acqua e il mondo naturale in senso lato sono infatti elementi che attraversano l’intera raccolta (“neve”, “cielo”, “sole”, “lillà”, “gemma”, “fiore”, “brezze”, “giunchiglie”, “boccioli”, giusto per citarne alcuni) , a partire dalla “rosa” del titolo, a sottolineare il tentativo di trovare un rifugio al dolore, vero motore di questa scrittura, nell’ordine cosmico (anche gli haiku disseminati all’interno del testo assolvono a questo ruolo), rapporto però mai risolutivo, come stigmatizzato negli splendidi versi: “quel filo d’erba che ricuce solo / facendosi tagliente”.
Eppure questa poesia anela alla ricerca del “centro esatto della luce”, quello dove “da una luce d’altrove” si possa ricreare una “fraternità creaturale / luce che tutti ci smisura”, di “cuori che battono all’unisono / nel petto di un respiro universale”.
Vincere la perdita, dunque; curare la ferita.
Dal punto di vista stilistico e formale il linguaggio è diretto, improntato alla comunicazione con il lettore, argomentativo; le figure retoriche sono estremamente controllate, le metafore parche; l’indiscutibile matrice lirica di fondo viene compensata dalla concretezza della dizione, coerente con la missione che questa poesia si è data: “sanguinare leggera” per rendere “meno crudo il mancare”.
Il verso è prevalentemente libero, le soluzioni strofiche variegate con una certa predilezione per il distico, forma principe della poesia elegiaca: qui in realtà il distico è “manipolato” per spezzare il discorso sintattico introducendo incrinature, varchi di silenzio che rallentano il ritmo e generano attesa, quasi fosse necessario all’autrice raccogliere il respiro, procedere per soste riparatrici nella esplorazione dei “bui corridoi della mente”.
Insomma: una forma poetica estremamente moderna, duttile, aperta al confronto con il lettore.
Concludendo, Donatella Nardin ci offre la sua poesia come zona franca, disarmata e disarmante nella sua schiettezza, senza inutili camuffamenti, con una voce poetica mai ammiccante, ma fedele solo alla sua necessità di esprimersi, umile nel porgersi all’altro nell’”alba chiara” che ci vede “amici, amanti, fratelli” e, ancora prima, uomini, quell’altro con il quale si condivide “l’enigma che siamo”, così bene espresso nei suoi versi.