Nella carne facciamo prova di noi stessi / che tutto è infinito sul punto di finire – Domenico Brancale, Per diverse ragioni

Nota di lettura a “Per diverse ragioni” di Domenico Brancale, Passigli, 2017

A cura di Gisella Blanco

Quando la parola viene indagata, spiegata e sviluppata nel suo moto sincronico e nel suo verso diacronico, ci troviamo davanti a una riflessione che, “per diverse ragioni”, sonda trasversalmente la dimensione temporale e quella creaturale della realtà contemporanea.
Se la poesia può essere una propensione alla grazia dell’incompiutezza (“verso quello che non verrà ci siamo incamminati”), quest’opera di Brancale, proprio come la parola che insegue, si deve sviscerare e comprendere nel suo percorso cronologico e nel suo inverso itinerario psicologico.

La prima poesia avvia il cammino della narrazione lirica con tre strofe i cui versi diminuiscono gradualmente nel numero, mostrando il pathos di un climax discendente che si conclude nell’azione germinativa di un soggetto impersonale: “dice il vero chi dice oramai/dice tutto chi morde il silenzio”. Il verso esordisce con un accenno ai malati ed è peculiare e cardinale la scelta di non adoperare titoli, di omettere maiuscole e punteggiatura, di non fornire riferimenti di tempo, di luogo e perfino di specie. Si apprende che i malati hanno un respiro così possente da aprire le crepe sui muri e, istintivamente, ci si domanda se prendere parte a tutta questa forza che appartiene allo strazio: il non detto soppianta ogni possibile, ulteriore affermazione.

La seconda poesia pone una equazione, adesso, insuperabile: “i malati, io e loro,/ rivoltati come zolle/ ci stacchiamo insieme dal terreno”. Sembra che proprio quando l’autore vuole introdurre il suo messaggio alla possibilità di comunanza, all’improvviso la visuale personalistica si stacchi dallo sguardo lirico e, per una strana ironia della sorte, l’umanità diventi lo scenario osservato da lontano: “un occhio veglierà sul paesaggio umano”.

Tra il verso e l’aforisma, nella sacralità delle antinomie che più rappresentano la natura umana, lì dove natura e umanità non sono sempre coincidenti, l’autore ci avverte che “nella carne facciamo prova di noi stessi/che tutto è infinito sul punto di finire” e paventa la libertà nella lacerazione, il trionfo nello smarrimento, la realtà ontologica di quel “ogni uno” in cui lo spazio tra le due parole è il sartriano nulla della possibilità di riconoscersi.

Alla vocazione alla malattia, segue il vuoto di una morte presunta, apparente, illusiva eppure vera per chiunque: “voltarsi verso la notte in persona/è così che andiamo nell’assenza”. L’uso della prima persona plurale introduce all’assemblea della specie (umana o inumana, non sappiamo) che amplifica la frattura, rimodella la posa e svolge quell’inclinazione al dialogo il cui accesso sembra passare per la finitezza e per la sua inversione prospettica: “guariremo dalla salute/ci ammaleremo per vivere ancora”.
Si rinuncia di buon grado al mito della perfezione se l’estraneità a se stessi è ciò che fa sopravvivere “dietro le palpebre di una persona”, di un altro individuo o della propria proiezione che rappresentano alcove bio-psichiche in cui la luce “Irrompe fin dove ha ragione il buio”. Torna l’antinomia dell’immagine con un nuovo bagaglio di punteggiatura affiorante e definitiva.

La nominazione personale risulta essere l’ultimo baluardo di un coraggio quasi desueto benché necessario (“Lo proteggemmo fino al suo nome maledetto”). La nomenclatura oggettivale, invece, trasfigura nel lessema la reciproca inerenza dei fenomeni o il loro riprodursi autogeno che ne sancisce un estenuato ed erotico refrein (“Ma c’è nel sangue un sangue che defluisce leggero/verso la dimora del bene. Un uomo nell’uomo/oltre la bestia”).

Il ritmo del sonno e della veglia, l’alternarsi dell’illuminazione e della tenebra esistenziali si spezzano e si ricompongono attraverso una ciclicità volontaristica dell’io che affiora dall’urgenza oppositiva della relazionalità: “Non ci sarebbe stato motivo oltre l’amplesso/per riscrivere la storia./Ci svegliammo. Nessuno accettava/la morte che non fosse propria. Nessuna morte”. Ed è nella relazione, nell’istintiva risoluzione alla scepsi come unica reciproca postura accettabile, che l’io ritrova la sua molteplicità endemica: “Nell’uno e nell’altro cresce/fiume inaudito”.

Esaminare le varie conformazioni ermeneutiche del senso applicato al segno linguistico è certamente una delle vie più efficaci per comprendere la radice filosofica che muove e smuove, dal basso, il verso di Brancale ma non può sfuggire l’interconnessione di ogni singolo testo (e della sua autonomia) con le altre parti, con l’interezza della parte, con le particelle minime e i segmenti che dividono la silloge in una trilogia di sezioni conchiusa nel titolo “Tu è la parola”. Quella coniugazione esatta e puntuale del verbo essere al presente, tra il Tu e la parola, definisce quel “luogo dove le cose cominciano da zero”, l’io ricondotto a se stesso dall’abbandono nell’origine.

*Foto di Heloise Faure

i malati, io e loro,
rivoltati come zolle
ci stacchiamo insieme dal terreno

ovunque verso un altro nord della terra
verso una stella senza nome
c’innalziamo

stella per cui le altezze si chiamano fughe
nell’irraggiungibile meta

una palpebra sulla notte
un occhio veglierà sul paesaggio umano

***

essere in tanti essere il respiro di uno solo
dell’uomo piegato
da un tempo che stenta a fiorire

gli steli mancano petali e corolla
quei petali strappati uno dopo l’altro
recitando “muoio, non muoio”

finché non rimane nulla fra le dita
se non il referto bianco

“scrivere è leggere il tuo corpo”

***

guariremo dalla salute
ci ammaleremo per vivere ancora
sarà un giorno come un altro
un giorno di malattia vitale

***

Ma c’è nel sangue un sangue che defluisce leggero
verso la dimora del bene. Un uomo nell’uomo
oltre la bestia. Oltre la clausura.

Dev’esserci una mano nella mano senza più colpa.
Indifesa. Fuori dalla stretta.
Sul volto appena nato nello specchio della tua luce.
Sì. Per le stesse ragioni. Ora è qui.
Poiché si rivolta. Si affida.

 

Domenico Brancale (Sant’Arcangelo, 1976)  in poesia ha pubblicato: Cani e porci (Ripostes, 2001), L’ossario del sole con una nota di Michele Ranchetti (Passigli, 2007); Controre (Effigie, 2013), Per diverse ragioni (Passigli, 2017).