Diego Riccobene – “Synagoga” (Fallone Editore, 2022)

Nota di Michele Paladino

Per capire la natura interna di Synagoga bisognerebbe muoversi verso latitudini rigorosamente sub specie artis. In questa mediazione tra fughe espressioniste e oscillazioni mistagogo-menadiche, o meglio, l’assunzione a un culto appassionato di una poesia originariamente orfica, ci porta a intravedere in queste parole tensioni polimorfe, tenute insieme da una forte nervatura cromatica, il cui nucleo germinativo si trova nel parametro della scissione terrifica dei significati. L’io di Riccobene si adegua a una sorta di esperimento anti-lirico intessuto nel corpo ebbro di una parola serva della diacronia, impunemente tendente ad un metro rigidamente catalettico, trasfusa nell’opus alchemicum di una materia purgata dal nero. L’attacco iniziale di ogni poesia sembra darci un invito predittivo alla prevaricazione, vi è sempre un rovesciamento ubiquo all’universale, in un rapporto in grado di risolversi in una linea apoftegmatica di istintiva elezione etica e morale. Difatti l’esortazione materica e virile del testo non diffida, in un certo senso, di un estetismo torbido, crudele, da drenaggio décadence. Al di là dell’impianto sovraccarico di Synagoga, è possibile vedere una poesia che nel suo esercizio erudito e virtuoso respinge ogni forma di compiacimento autoindulgente della modernità, porge la sua naturale originalità nella tracotanza, nell’imperversare, nella sfrenatezza di una lingua rampicante, furente nel suo spalancare ignoti abissi di senso. Nell’itinerario poetico di Riccobene l’affilata ricerca del baccello espressivo della parola gravita nel fondo di un esasperato simulacro di dilatazione semantica: si incastrano mondi archetipali, dinamiche dell’immaginario apocalittico e iniziazioni al pathos del pervertimento. Una arcaicità che trova approdi nobili nelle esasperazioni esoteriche del Testori montano e sperimentale di In Exitu sino al falansterio simbolista fin de siècle di Giovanni Camerana e alle inguainate mistiche di un Rebora. La caratterizzazione indubbiamente negativa di Synagoga conduce l’opera su un piano enigmatico di continui rinvii a una inarrestabile discesa in mondi metaforici, rivelazioni che paradossalmente ci portano nel mondo reale. Le venature degli anatemi, il largo uso degli incisi, risponde a un orizzonte metastorico: l’intensificazione ottica di Synagoga si giustappone alla science fiction epico-medievale del film Hard to be a god del regista Aleksej German. Uno mondo stagnato da larve umane ridotte a relitti, abbandonate a espiare in una umanità angusta e opprimente. Si potrebbe associare questo sconvolgente immaginario all’iter tenebricosum della poesia di Diego Riccobene, museo-morgue che dischiude un rovesciamento dell’odierna poesia lirica, scavandosi il proprio Pozzo di Babele[1].

Michele Paladino

 

[1] “Che stai costruendo? – Voglio scavare un passaggio. Ci dev’essere un progresso. Il mio posto è troppo in alto. Stiamo costruendo il pozzo di Babele.” Franz Kafka, Diari 1910-1923, vol. 2, traduzione italiana di Ervino Pocar, Milano, Mondadori, 1953, p. 179.

 

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Diego Riccobene (Alba, 1981) vive in provincia di Cuneo. È laureato in Filologia Moderna presso l’Università degli Studi di Torino; è poeta, docente, musicista. Suoi scritti e interventi sono apparsi su antologie, webzine e riviste quali Atelier, Menabò, Poesia del Nostro Tempo, Critica Impura, Inverso, Versante Ripido, Laboratori Poesia, Pannunzio magazine, Neutopia, l’Estroverso. Alcuni suoi componimenti sono stati tradotti in lingua spagnola dal Centro Cultural Tina Modotti. Collabora con la redazione di Menabò online. Ha pubblicato Ballate nere (Italic Pequod, 2021), silloge segnalata in occasione del Premio Lorenzo Montano 2022 – sezione opere edite.

Michele Paladino è nato a Termoli nel 1993. Nel 2021 ha pubblicato Breviario delle aberrazioni (Fallone editore).